l'opera
Italo Calvino nell'ultimo e brillante saggio di Ferrero
Il primo e più decisivo personaggio creato dallo scrittore è lui stesso, autore di una letteratura di stravaganze architettate per sottrarsi al comune sentire
Sto leggendo l’esauriente, brillante ritratto dal vivo di Calvino scritto da Ernesto Ferrero (morto il 31 ottobre), il suo ultimo libro, e intitolato semplicemente Italo (Einaudi, 224 pp., 19 euro) e mi rendo conto che l’autore che ha concluso la sua vita con Palomar e Lezioni americane mi ha sempre incuriosito e attratto più come uomo, come personaggio di sé stesso e tipo psico-intellettuale, che come scrittore. O forse, più precisamente, come un tipo di scrittore del tutto eccentrico perché umanamente assai singolare. Non meno singolare, perciò, mi sembra il fatto che Calvino abbia potuto essere letto, amato e scelto come guida e maestro di letteratura. La sua letteratura è infatti una versione tanto originale quanto parziale di ciò che la letteratura può essere ed è stata.
Per capire Calvino e avere chiaro che scrittore è, credo che non si debba considerare centrale, ma marginale la sua opera letteraria. Dire questo non è un azzardo, né vuole essere denigratorio. Mi sembra piuttosto che somigli molto a lui come personaggio-autore che ha fatto il possibile per non ergersi a maestro e protagonista. Se è stato letterariamente un mito e perfino un modello da seguire, lo è stato per equivoco. La letteratura che Calvino ha inventato e inseguito per tutta la vita e con tutta la razionale passione di cui era capace, è una letteratura fatta di stravaganze architettate per sottrarsi al comune e convenzionale modo di sentire e di scrivere.
L’albero rigoglioso della sua opera ha le sue robuste radici nella famosa trilogia degli anni Cinquanta, scritta quando era trentenne: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959). Si tratta di tre alter ego dell’autore, tre sue maschere, tre invenzioni e miti morali o modi di essere e di non essere. La ricerca di sé porta subito Calvino in un passato premoderno, lontano da ogni realistica attualità, alleggerito dal peso della storia sociale e politica. Tre aristocratici, un visconte, un barone, un cavaliere, che stentano a essere, che eludono i comuni modi di essere, o viceversa riassumono le diverse difficoltà ad essere che sono di tutti, benché inconsapevolmente.
Se si pensa che le opere più eloquenti e perfette con cui Calvino ha concluso la sua attività letteraria sono Le città invisibili (1972) e Palomar (1983), diventa chiaro che Calvino ha sempre avuto bisogno di distacco, distanza, sottrazione e punti di osservazione e di vista collocati ai margini, al limite fra presenza e assenza. Il suo bisogno di libertà gli ha fatto sempre temere i vincoli che di solito l’idea di letteratura (espressione di sé? Realismo?) tradizionalmente prevede.
Il libro di Ferrero si apre con queste righe: “Negli ultimi anni della sua vita, quando guardava il mondo da una prospettiva di millenni e si sentiva al sicuro nel castello-fortezza che si era costruito, Italo Calvino ci ha lanciato una sorta di sfida che non avevamo mai pensato di attribuirgli, né ci sembrava corrispondere al carattere dell’uomo e allo scrittore meno aggressivi che esistessero. Improvvisamente ha guardato negli occhi i suoi lettori e ha detto con voce chiara e netta: cercate pure dentro di me, non troverete nulla”.
Il barone in fuga che si arrampica su un albero e non vuole più scendere è diventato un cavaliere inesistente. Prima la distanza e poi il vuoto. La personalità, la psicologia non avevano per Calvino nessun interesse, o meglio preferiva, voleva fermamente, che di lui non si parlasse. Il paradosso è che chi dice “dentro di me non c’è nulla” chiude la porta in faccia ai curiosi, facendo di questa negazione una affermazione perentoria che dichiara la propria assoluta, misantropica, inarrivabile diversità.
Giustamente Ferrero ci dice subito che il primo e più decisivo personaggio creato da Calvino è lui stesso. E’ l’uomo che non c’è e non vuole esserci. Non vedo un modo migliore, in verità, di esserci e di affermare la propria intoccabile presenza. Mai mettersi nelle mani degli altri, cioè nelle altrui interpretazioni.
Aveva ragione Calvino? Forse sì, per quanto lo riguardava. La fobica misantropia del personaggio-autore che era, forse ne ha fatto davvero un classico di fine Novecento. In questo e con il proprio diversissimo stile, Calvino si è allontanato dal mondo come ha fatto il suo espressionistico coetaneo Pasolini nei suoi ultimi drammatici scritti. Sia per l’uno che per l’altro, il mondo sociale era diventato inabitabile.