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l'anniversario

Irritante e controverso ma imprescindibile. Chi è stato Niklas Luhmann   

Sergio Belardinelli

La sua teoria della società ha influito sulla sociologia, ma anche su filosofia, economia, politologia e perfino sulla teologia. Un saggio a venticinque anni dalla morte

Oggi 6 novembre ricorre il venticinquesimo anniversario della morte di Niklas Luhmann, uno dei pensatori più importanti e controversi della seconda metà del secolo scorso. Per ricordarlo pubblichiamo alcuni stralci dell’introduzione e della biografia che si trovano nel volume “Niklas Luhmann” di Sergio Belardinelli, uscito nella collana Classici contemporanei di IBL Libri.


Ho iniziato a occuparmi di Niklas Luhmann all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. …Non posso dire che questo abbia fatto di me un esperto del suo pensiero, ma certamente da allora non ho mai smesso di leggerlo, traendone una “irritazione” pressoché costante proprio nel senso in cui egli stesso era solito usare questa parola, cioè come qualcosa che appunto ci colpisce, ci turba anche, ma ci costringe a pensare. A tal proposito, preciso che, studiando Luhmann, non sono mai riuscito ad immedesimarmi nella sua prospettiva teorica; spesso egli è stato per me un termine di riferimento polemico. Eppure credo di aver imparato da pochi altri quanto ho imparato da lui sulla società contemporanea, sul suo modo di configurarsi e di cambiare. Bene ha fatto dunque l’Istituto Bruno Leoni a inserire Niklas Luhmann in questa collana. Luhmann è certamente un classico della sociologia, ma non possiamo certo definirlo un classico del pensiero liberale. Il suo approccio sistemico, la sua idea di differenziazione funzionale della società implicano, come vedremo, un superamento del lessico della soggettività, che per molti versi è perfino più radicale di quanto ci viene detto da anni sulla morte dell’uomo dagli strutturalisti alla Foucault. Per Luhmann, lo dico fin d’ora, la società non è fatta di individui; gli individui appartengono semplicemente all’ambiente dei sistemi sociali. Per dirla con una sua celebre affermazione, “L’uomo non è più il metro con il quale misurare la società”. Siamo insomma agli antipodi rispetto a qualsiasi forma di individualismo metodologico di stampo liberale, senza che questo significhi, almeno secondo me, ma lo vedremo meglio più avanti, un’inimicizia nei confronti dell’individuo in quanto tale. Abbiamo a che fare piuttosto con una forma di costruttivismo sociale sui generis, del tutto imprevedibile nei suoi esiti, forte soltanto della convinzione che domani le cose staranno in modo differente da come stanno oggi, senza che nessuno possa prevedere come staranno. “Tutto potrebbe essere diverso, ma di fatto non posso mutare quasi nulla”, dice Luhmann in uno scritto del 1969. Si tratta di una posizione che può destare anche qualche perplessità, ma che in ogni caso, direi quasi paradossalmente, è tra le più critiche nei confronti del costruttivismo politico e dell’idea che l’ordine sociale possa configurarsi ancora come l’esito del disegno di qualcuno. Un’idea questa, sia detto per inciso, che non dovrebbe dispiacere ai liberali. D’altra parte, come vedremo, un analogo esito paradossale (e prezioso) si verifica anche sul fonte della sociologia religiosa luhmanniana, la quale riduce Dio a una semplice “formula di contingenza”, ma poi stigmatizza gran parte delle sue riduzioni funzionalistiche, secondo le quali Dio e la religione dovrebbero servire a rendere gli uomini più buoni e solidali, le società più coese e più giuste e via di seguito; tutte riduzioni incapaci di vedere ciò che invece secondo Luhmann conta per davvero, ossia la trascendenza. Che lo dica uno dei funzionalisti più radicali è quanto meno interessante.


In un saggio pubblicato trent’anni orsono, definivo quella di Luhmann “una sociologia senza qualità”. L’espressione mi era stata suggerita da Robert Spaemann, il quale, nella sua Laudatio in occasione del conferimento a Luhmann dello “Hegel Preis-1988” da parte della città di Stoccarda, aveva parlato di lui come del “Musil delle odierne scienze umane”, un sociologo il cui “tipo ideale”, queste le parole di  Spaemann, non è “l’homo religiosus, né l’homo oeconomicus o l’homo faber, ma l’uomo senza qualità”. Si tratta di una definizione forse un po’ troppo espressionistica, ispirata per giunta da  un’intonazione umanistica che contrasta apertamente con l’approccio sistemico luhmanniano; eppure credo che essa ne colga un aspetto importante. In fondo, un po’ come faceva Musil sul piano letterario, anche la sociologia di Luhmann è scritta “in forma non lineare”, è “acentrica”, attenta certo alla “realtà”, ma più ancora alle “possibilità”. Senza tuttavia mai concedere nulla alla divagazione letteraria o all’approssimazione teorica. Più avanti vedremo quali sono i principali capisaldi teorici sui quali Luhmann costruisce la sua teoria dei sistemi sociali: complessità, senso, sistema/ambiente, chiusura autoreferenziale dei sistemi, solo per citarne alcuni. Trattasi di concetti che vanno ben oltre l’ambito strettamente sociologico e che oggi vengono utilizzati nelle discipline scientifiche più diverse. Luhmann ne accentua a più riprese la derivazione biologica. In questo libro cercherò di chiarire anzitutto il modo in cui essi diventano la struttura portante di una teoria generale della società, soffermandomi successivamente soprattutto sulle loro implicazioni per il sistema politico, per la morale e per il sistema religioso.  Restano fuori il diritto, l’economia, l’arte, l’educazione, i mass media, sui quali Luhmann a scritto cose molto importanti. Ma bisognava scegliere, per non dilatare oltremisura le pagine di questo libro. La speranza è che il lettore possa farsi almeno un’idea della portata della teoria luhmanniana e della sfida che essa rappresenta per tutti coloro che in un modo o in un altro si occupano di società. 

Niklas Luhmann nasce a Lüneburg l’8 dicembre 1927. Il padre gestisce un birrificio e la madre proviene da una famiglia di albergatori di Berna. Primo di tre fratelli, nel 1937 si iscrive al Ginnasio Johanneum della sua città natale, ma, causa la guerra, consegue la maturità soltanto nel 1946. Dopo un anno di addestramento, nel 1944 viene arruolato nell’aereonautica militare; verso la fine dello stesso anno viene fatto prigioniero dagli americani e liberato cinque mesi dopo, alla la fine della guerra.Dal 1946 al 1949 studia Giurisprudenza nell’Università di Friburgo; a partire dal 1951, incomincia la costruzione di uno schedario, che durerà per tutta la sua vita, destinato a diventare un vero e proprio mito, sia per il numero delle schede (alla fine saranno circa novantamila), sia per la loro organizzazione. “Non penso tutto da solo, in gran parte penso grazie al mio schedario…è dal sistema del mio schedario che dipende la mia ricca produzione scientifica”, dichiarerà in un’intervista del 1987. Una sorta di “seconda memoria”, come dirà altrove, che diventa il partner della “prima” in un processo di comunicazione, nel quale, a seconda di come viene interrogato, lo schedario è capace di fornire persino al suo autore risposte sorprendenti. “Senza le schede, ovvero solo per riflessione, non arriverei mai a certe idee. Certo la mia testa è necessaria per poterle annotare, ma non può essere per questo considerata responsabile del loro insorgere”. Un misto di intelligenza, ironia e umiltà che contrasta invero con l’ambizione dell’impalcatura teorica da lui costruita. Dal 1952 al 1962 lavora come impiegato pubblico nell’amministrazione regionale della Bassa Sassonia. In questo periodo legge le opere di Hölderlin, Cartesio, Malinowski, Husserl, Radcliffe Brown, continuando in questo modo una formazione da autodidatta, iniziata al Ginnasio secondo i canoni di allora: studio del greco, del latino, dei classici della letteratura e della  filosofia, da Omero a Goethe, da Aristotele a Hegel: la formazione tipica della vecchia Europa che Luhmann non ha mai rinnegato anche se pochi altri come lui l’hanno messa così profondamente in discussione.  Nel 1960 sposa Ursula von Walter, dalla quale avrà tre figli e, nel 1960-1961, grazie a una borsa di studio del governo americano destinata a impiegati dell’amministrazione tedesca desiderosi di specializzarsi negli Stati Uniti, trascorre un periodo di studi presso la School of Government dell’Università di Harvard, dove conosce Talcott Parsons. Un incontro che si rivelerà molto importante per la sua formazione. Matura allora, infatti, l’idea che la società può essere studiata in modo adeguato soltanto guardando ai diversi sistemi sociali e alle loro funzioni.Al rientro dagli Stati Uniti, inizia la sua carriera accademica: dal 1962 al 1965, lavora come ricercatore presso l’Alta Scuola di Pubblica Amministrazione dell’Università di Speyr; nel 1964 pubblica Funktion und Folgen formaler Organisation, un libro che lo accredita soprattutto tra i teorici dell’organizzazione; nel 1965 Helmut Schelsky lo nomina capodipartimento presso il Centro di ricerca sociale dell’Università di Münster con sede a Dortmund; nel 1966 ottiene il dottorato in sociologia e l’abilitazione all’insegnamento nella Facoltà di “Scienze giuridiche e sociali” della stessa Università, dove insegnerà dal 1966 al 1968, anno in cui diventa professore ordinario di Sociologia presso la neoistituita Università di Bielefeld, dove resterà fino al suo emeritato nel 1993. Nel 1977 muore sua moglie, alla quale dedica una delle sue opere più importanti: Funktion der Religion. Nello stesso anno si trasferisce insieme ai tre figli a Oerlinghausen, nei pressi di Bielefeld, dove abiterà fino alla sua morte, avvenuta il 6 novembre 1998.


Niklas Luhmann lascia una enorme produzione scientifica, fatta di una cinquantina di monografie e di circa cinquecento articoli; la sua teoria della società ha influito profondamente non soltanto sulla sociologia del nostro tempo, ma anche sulla filosofia, l’economia, la politologia e la stessa teologia; eppure giova forse sottolineare che soltanto in due interviste, una del 1987 e una del 1997, egli si sofferma sulla sua vita. Nell’ultima intervista, rilasciata un anno prima della sua morte, ci racconta dell’ostilità sua e di suo padre nei confronti del nazionalsocialismo, della sua esperienza di guerra, dei cinque mesi trascorsi a 17 anni in un campo di prigionia americano, della sua esperienza ginnasiale, del suo primo interesse per il diritto come argine al caos, del suo liberalismo di fondo, ereditato dal liberalismo economico di suo padre, quindi della contrarietà di entrambi alle intromissioni dello stato nella vita privata dei cittadini; ci racconta altresì della sua scoperta di Husserl, della sua diffidenza nei confronti delle diverse varianti di filosofia del soggetto e, infine, del significato generale del suo approccio sistemico e del suo modo di guardare la società. Ma niente di tutto questo serve a comprendere meglio la teoria sistemica. Del resto Luhmann lo dice espressamente: “Se qualcuno ha bisogno della mia biografia per comprendere ciò che ho scritto, allora vuol dire che ho scritto male”. Quanto basta per farci l’idea di una vita e di un lavoro intellettuale, che, seppure raccontati con leggera semplicità, sono assolutamente fuori dal comune.  
 

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