matite e parole
Ci salverà il fumetto. Colloquio con Lorenzo Mattotti
Zerocalcare e i suoi proclami, Lucca Comics e l’impegno, e la lunga strada dalla impresentabilità alla rilevanza culturale: storia di un genere prima bistrattato e poi osannato. Colloquio con Lorenzo Mattotti
E’ tempo di porre una questione serissima, non prorogabile, fatale ai destini del Paese, anzi, come dice Giorgia Meloni, nazione. Altro che Albania, altro che finanziaria. Il tema è: che è successo ai fumetti? In pochi anni siamo passati dalla assoluta impresentabilità sociale alla rilevanza quasi adelphiana. In una gamma che va dallo 0 di Pino Insegno al 10 di un Carrère, siamo passati dal vergognarci di tenere sotto l’ombrellone o sul comodino un fumetto (ormai ribattezzato graphic novel) all’ostentarlo come baluardo culturale. E comunque li vogliamo chiamare, fumetti o graphic novel, sopravviveranno essi all’abbraccio mortale della sinistra, che li ha trasformati da lettura da toilette a piattaforma engagée su cui esprimere posizioni virtuose? Se da Tex Willer si è passati a Zerocalcare, ormai percepito come un segretario generale di LuccaComics, Nazioni Unite del fumetto, quale occasione migliore che parlarne con una star internazionale del settore? Un autore considerato padre nobile di questo genere che sfugge alle caselle? Lorenzo Mattotti, mite signore italo-francese, all’alba dei suoi 70 anni accompagna a visitare la mostra “Storie ritmi movimenti” che fino al 28 gennaio espone la sua arte al museo di Santa Giulia a Brescia celebrando il suo genio nomade con base oggi a Parigi. Mentre ancora si trascinano le polemiche per i gran rifiuti avanzati dai mejo fumettisti d’Italia a Lucca, versione young del Salone del Libro, dove ci si nota di più se ci si dimette e non ci si va, va registrato il boom: secondo i dati dell’Associazione Italiana editori, le vendite di fumetti nel 2022 sono cresciute del 28,5 per cento contro l’8,6 per cento dei libri tradizionali. Il venduto complessivo del fumetto nel 2022 è pari a 179,1 milioni di euro. E la crescita è stata del 175 per cento nel triennio 2019-2021. Insomma il fumetto è il gran Pnrr delle patrie lettere, è il superbonus dell’industria culturale traballante: finalmente, nel paese che non legge, nella nazione senza Mes, ci salverà la bande dessinée?
“A Lucca ci andavo quando eravamo in quattro, con Hugo Pratt che suonava la chitarra, grandissimo personaggio, grande mercante veneziano. Andavi con le tavole sottobraccia per cercare di venderle. E lui rivendeva la stessa storia a tre quattro editori”, racconta Mattotti. Andiamo subito al punto. Zerocalcare? “No comment, no, davvero, lasciamo perdere, mi sembra che siano persone attive nel sociale, più che artisti”, dice Mattotti. “Fumettibrutti?” “Insostenibile”. “Gipì? Lui è bravissimo, ma è anche un personaggio. Io non voglio essere personaggio. Il mio lavoro è la mia storia. Io penso che un disegnatore debba disegnare, e basta. Esprimersi al massimo col suo lavoro”. “Non è neanche facile mettere fuori tutta la tua vita personale. Ci vuole un grande ego. Io non son capace”, dice Mattotti, considerato un guru di qua e di là dall’Atlantico:ha attraversato epoche e generi. Guru modesto, schivo, dalle copertine del New Yorker alle collaborazioni con Lou Reed alle locandine per il festival del cinema di Cannes e Venezia. Sempre all’ombra di questo grande equivoco, il fumetto, genere un tempo considerato borderline, tra Quattroruote e il porno, da nascondere dentro un finto meridiano di Proust. E oggi invece genere “necessario”, obbligatorio. Dove però dal medium siamo passati al messaggio al personaggio. Conta l'autore coi suoi drammi e malanni, più che lo stile (come nei libri non illustrati, insomma).
Il fatto è che il fumetto da sempre è sospetto, “prima non era considerato abbastanza, adesso invece pare che sia anche troppo, si parla solo di fumetti, come se fossero la nuova letteratura”, dice Mattotti. “Che è una contraddizione, perché, letteralmente, il fumetto non è letteratura”. “Fumetti e fumettisti sono ormai entrati nel salotto buono della cultura, qualunque cosa questo significhi” è scritto nel nuovo numero di “Sotto il vulcano”, la rivista tematica Feltrinelli diretta da Marino Sinibaldi e dedicata adesso proprio a questo argomento, che doveva essere presentata a Lucca Comics ma è stata cancellata anche lei (ma qualcuno poi ci è andato, a Lucca?). “Omaggiati di una benevolenza a tratti un po’ fastidiosa, perché il fumetto non ne avrebbe bisogno, in quanto arte maggiore e maggiorenne già da un pezzo”, scrive Tito Faraci nel trimestrale.
Nel frattempo il fumetto è un business, anche se minore rispetto ad altri paesi. Rispetto alla Francia, dove vive Mattotti, è tutt’un’altra cosa. “In Francia la bande dessinée è una cosa seria, è un’industria. In Italia ci son stati vari fenomeni ma non è mai divenuta un’industria”, dice lui, la cui moglie gestisce una galleria specializzata a Parigi. “I libri di fumetti non sono mai decollati, trovare i libri di fumetti in libreria era una rarità fino a pochi anni fa, adesso invece il boom e si esagera al contrario. Adesso accettato, sopravvalutato”.
In Mattotti la vocazione per il fumetto nasce dall’amore per l’immagine, anche per la pittura. “Picasso, certo, ma anche l’espressionismo tedesco, e poi i futuristi, Carrà, Sironi. Quello che mi affascinava era portare la pittura dentro il fumetto. Pittore e basta però non è voluto diventare, “no, mi sembrava che l’immagine fine a sé stessa mi limitasse. Non mi piaceva ideologicamente, l’idea che facevi un quadro che stava in un salotto. Mi piaceva piuttosto l’idea che fosse qualcosa che arrivava a tutti, che comunichi coi giovani. Anche se il fumetto era sempre visto come quella cosa da leggere in bagno”. Poi il cinema: “mio padre era un ufficiale della Guardia di Finanza, abbiamo girato tutta l’Italia. Brescia, Como, Udine, Ancona. Ogni volta che arrivavamo in una nuova città dovevamo farci nuovi amici, ricominciando da capo. Per fortuna il papà aveva in dotazione una tessera che ci faceva entrare gratis al cinema e così io e i miei fratelli ci mettevamo lì con gli altri bambini: chi vuol venire al cinema gratis? Così l’amicizia era più facile, anche se un po’ prezzolata”. E poi c’era anche un cinema di famiglia, il cinema-balera Mattotti a Castelbelforte, nel mantovano, che era di uno zio, e poi c’era la Befana degli Statali. Cos’è la befana degli Statali?Sembra un sogno Inps, un’idea di Giuseppe Conte. “No, si andava a proiezioni riservate per noi bambini figli dei dipendenti pubblici, molto Disney ma anche Gatto Silvestro”. Il papà ufficiale era contrario a che diventasse fumettista? “No, non era particolarmente severo, anzi ci regalò anche delle chitarre elettriche a me e ai miei fratelli. Mia madre invece si raccomandava che finissi l’università, Architettura a Venezia”. E l’ha finita? “No. Però mi ricordo le meravigliose lezioni di Manfredo Tafuri”. Ha mai pensato di fare l’architetto? “No, anzi, io volevo fare l’accademia di belle arti, ma siccome venivo dallo Scientifico, avrei dovuto fare una serie di esami, e lezioni di disegno dal vero, un incubo. E poi volevo vivere a Venezia”.
Il vero problema semmai viene dopo la laurea, ed è quello del mettere insieme il pranzo con la cena, un problema questo che accomuna gli scriventi ai disegnanti. “I primi anni mi trasferii a Milano, in un sottoscala, fu molto dura”. Poi l’approdo a Linus dove regna il leggendario Oreste del Buono, sdoganatore del fumetto in Italia. “Ma per Linus ero uno strano, le mie tavole erano considerate troppo cupe, non mi riuscì molto di farmi pubblicare”. Lui ingabbiato nelle caselle del fumetto classico non ci vuol stare, “ero attratto dallo sfondamento, dal flusso, dall’onirico. Adoravo Fellini”, così prima si rinchiude in campagna, in una vecchia casa di famiglia disabitata, poi si trasferisce a Bologna, dove però impera Pazienza, “un po’ troppo personaggio, per me. Grandissimo comunicatore. E’ un po’ come Zerocalcare oggi. Mi piacevano di più le sue cose ironiche rispetto a quelle serie”.
Nel 1984 con una banda di cani sciolti mette su il gruppo Valvoline e pubblica “Fuochi”, una serie che è riconosciuta unanimemente come rivoluzionaria perché il fumetto sfonda le sue pareti, l’immagine esplode. “Perché diciamocelo, il fumetto tradizionale è una specie di catena di montaggio, devi essere sempre riconoscibile, il testo occupa molto spazio, tutto deve essere molto coerente”, e a lui invece le caselle, di testo e in generale stanno strette. “Ma peggio del fumetto classico c’è l’animazione. Lì devi essere proprio zen. Non è un caso che i più bravi siano giapponesi. Devi essere meticolosissimo, la sceneggiatura viene rifatta in continuazione, devi disegnare perfettamente ogni dettaglio, anticipare tutto”. Lui ci ha provato con “La famosa invasione degli orsi in Sicilia”, vecchio classico di Buzzati che ha portato al cinema. Non a caso, ha scelto una novella del primo intellettuale italiano che si sia cimentato coi fumetti. Quando uscirono le storie illustrate dell’intellettuale del Corriere della Sera, del romanziere del “Deserto dei Tartari” ci fu una specie di sdegnata sorpresa nelle patrie lettere, come se si fosse tinto i capelli di blu. “Letteratura e immagini non si sposano, perché la letteratura non consente contaminazioni di nessun genere”, scrisse il Resto del Carlino. I fumetti “non so quando siano nati, né perché, né a che bisogno rispondono, né che servizio o disservizio rendano”, scrive l’amico Indro Montanelli.
Ma andiamo al punto, Mattotti, il fumetto è di destra o di sinistra? Perché nella conventio ad excludendum contro questo genere sfuggente, c’è sempre il sospetto che alla fine a leggere i fumetti fossero giovani fascistoni o estremi fricchettoni, comunque impresentabili. La sinistra lo ha sempre messo in chiaro. La scena fondante è affidata a un film molto ztl, “Verso sera”, di Francesca Archibugi, anno 1990, con questa trama: Roma, Monti Parioli, anno 1977. Un vecchio intellettuale comunista, appassionato di musica e con domestica fissa, interpretato da Marcello Mastroianni, si accolla – per usare un termine zerocalcariano – la nipotina detta Papere, perché i di lei genitori sono occupati a fare la rivoluzione. In un momento clou, nella palazzina cieloterra di incalcolabile valore, il vecchio professore dice alla nuora, ma idealmente a un’intera generazione, qualcosa come “noi avevamo Goethe, la filosofia e la musica classica, vi abbiamo lasciato i fumetti e l’India”. Un manifesto insomma. Il rapporto dei fumetti con la sinistra non è mai stato facile. “Ma non saprei, io e il mio gruppo eravamo di sinistra, però non andavamo bene, del resto anche se ascoltavi musica rock e non cantavi le orrende canzoni di Paolo Pietrangeli eri considerato strano”, dice Mattotti. “De André era considerato esistenzialista, Guccini visto con sospetto. Era facile essere inquadrati come decadenti, freak, a un certo punto noi lavoravamo con un gruppo legato a Lotta Continua, partecipavamo a lotte contro l’inquinamento”. Del resto pure Walter Veltroni, altro sdoganatore, l’inventore delle vhs allegate al giornale di Enrico Berlinguer, lo scrittore di gialli pop, sul fumetto è severissimo. In un impeto di alainelkannismo, due anni fa scrisse un pezzo sul Corriere intitolato “Perché i manga hanno conquistato i nostri ragazzi”, che attaccava così: “Nell’ufficio in cui ho incontrato tante volte Enzo Biagi, al primo piano della libreria Rizzoli in Galleria a Milano, ora c’è il reparto dedicato ai fumetti manga”. Un’iscrizione funeraria.
Quando la sinistra si apriva al fumetto, non andava meglio. Nel 2018, cinque anni e innumerevoli segretari fa, l’allora ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, all’assemblea nazionale del Partito democratico che lo consacrava nuovo segretario, si presentò vestito proprio come Dylan Dog, uno dei più celebri personaggi da fumetto italiani, “Indagatore dell’Incubo”, dunque jeans, camicia rossa, giacca nera, Clarks. Non si sa se fosse voluto, ma Martina poi postò un fotomontaggio, col vero indagatore accompagnato dalla frase “Oggi si è iscritto anche lui”. L’inventore di Dylan Dog, Tiziano Sclavi, non la prese bene: “Io il signor Martina non lo conosco, ma un po’ conosco Dylan Dog e so che in ogni caso non si sarebbe mai iscritto al Pd”. Ecco. Lo stesso anno pochi fecero caso al fatto che Giorgia Meloni annunciasse la candidatura alle Europee dalla sella di un drago fumigante, nota la sua passione per il fumetto fantasy.
E a destra? Al Maxxi – ma nella palazzina distaccata dal corpo centrale, dove già ci fu la grande mostra di Zerocalcare, in terra sconsacrata insomma, per non confondere fumetto e arte - ha appena inaugurato una mostra sui 100 anni di Jacovitti. Molti storcono il naso. “Finalmente!”, dice invece Mattotti. “Tutti noi ci siamo ispirati a Jacovitti, anche Pazienza”. Insomma riabilitiamo l’inventore di quegli strani omini dalle propaggini salamellose e di Cocco Bill, il pistolero che beveva camomilla. Jacovitti esordì sul “Giorno dei ragazzi”, supplemento del giornale di Mattei. Ma è anticomunista, fa delle strisce contro i movimenti studenteschi, passa a Linus, poi abbandona anche quello. “Graficamente era un gigante, e poi amo il lato demenziale dei suoi fumetti”, dice Mattotti. Jacovitti fece anche molte pubblicità per l’Esselunga, e locandine per Alberto Sordi, la mostra insomma è da vedere.
Umberto Eco, che fu una specie di Luciano Violante del fumetto, maturando posizioni dialoganti, non fece a tempo a vederne il completo successo mainstream a sinistra. “Sottoprodotto per lettori di un sottoproletariato intellettuale”, definì inizialmente il classico fumetto italiano negli anni Sessanta. Poi con gli anni cambiò idea, apprezzando soprattutto Dylan Dog (qui non c’è spazio ma un rapporto tra la sinistra e Dylan Dog meriterebbe un saggio, magari illustrato). “Posso leggere la Bibbia, Omero o Dylan Dog per giorni e giorni senza annoiarmi”, disse. Un amore ricambiato da Sclavi, che nel 1998 fumettizzò Eco, nel personaggio di Humbert Coe, un glottologo che il governo inglese chiama a decrittare alcuni misteriosi messaggi che provengono dallo spazio. “Mai letto Dylan Dog”, dice invece Mattotti. “Ma Sclavi una volta mi cercò quando lavorava al Corriere dei ragazzi, mi chiese qualche tavola, poi le mie storie erano troppe underground”. E con tutti questi rifiuti, lei come sbarcava il lunario? “A un certo punto con la moda: c’era questa rivista, Vanity, che non c’entrava niente con Vanity Fair, era stata inventata da Anna Piaggi, ma invece delle foto aveva i servizi di moda disegnati. Gemellato con The Face, era molto all’avanguardia”. I fumetti, con l’illustrazione, insomma come generi sono apolidi, sgusciano dall’underground al glamour.
Ma alla fine come lo dobbiamo chiamare, fumetto o graphic novel? “Che palle”, sussurra il timido Mattotti. “Chiamiamolo come vogliamo. Si potrebbero chiamare immagini narranti. Ma diciamo fumetti e facciamola finita”. Già, perché viene il dubbio che nel recente sdoganamento a sinistra, nel luccacomicismo, nel fumettismo engagé abbia pesato il rebranding da fumetti a “graphic novel”. Il termine appare per la prima volta nel 1978, un anno dopo la vicenda di “Verso sera”. La prima graphic novel arriva con Will Eisner e il suo libro “A Contract With God and Other Tenement Stories”. Altro capitolo della normalizzazione del fumetto è il fatale 1992: mentre è crollato il Muro e parte Mani Pulite, Art Spiegelman con “Maus” vince il Pulitzer: prima volta assoluta per un fumetto o graphic novel. Come se il genere avesse bisogno di confrontarsi con l’Olocausto per avere una sua dignità. “Siamo grandi amici con Art”, dice Mattotti, “anche con sua moglie Françoise Mouly che è art director del New Yorker. Passiamo sempre il Natale insieme a Parigi. Art cominciò a pubblicare i miei lavori sulla sua rivista Raw, che eraconsiderata molto di avanguardia. Anche lui prima del Pulitzer aveva problemi di sussistenza. Per campare disegnava le confezioni delle gomme da masticare”. Ma lei non ha mai avuto la tentazione di fare il grande salto e di trasferirsi in America? Ci pensa un secondo. “Forse da giovane, ma non ho mai avuto abbastanza soldi per il biglietto. Poi ci sono andato da adulto negli anni Ottanta e però, dopo venti giorni a New York, dopo che hai camminato tutte le strade, visto tutti i musei e provato tutti i ristoranti, rimane solo quell’immensa energia nell’aria, troppa per me. Preferisco immaginarla, New York”.
Così le celebri copertine per il New Yorker arrivano via email da Parigi, “e prima via fax, da Udine, dove stavo”. Quante ne ha fatte? “36 o 37, non mi ricordo”. Si guadagna molto? “Mah, sempre meno. Adesso saremo sui quattromila dollari, un tempo era di più”. “Io ho cominciato nel ‘72 col cambio di direzione e l’arrivo di Tina Brown”. Ma come funziona la copertina del magazine più famoso del mondo? “E’ tutto molto pianificato in anticipo. La direzione un anno prima ti manda un calendario coi principali eventi dell’anno, Natale, Pasqua, l’estate, la maratona di New York, tu mandi degli schizzi e poi se gli piacciono te li prendono. A volte ti chiedono anche disegni speciali, a me ne han chiesto uno per un tifone a New York, in previsione, ma non ci son stati tifoni per molto tempo, così per dieci anni la mia copertina è stata lì, in attesa, in un cassetto. ‘Anche quest’anno nessuna bufera’, mi han detto per anni, mortificati. Poi dopo una decina d’anni finalmente la bufera è arrivata”.