La recensione dell'elefantino
“Vico dei miracoli” fa venir voglia di andare a Napoli
I suggestivi vicoli partenopei e le intuizioni, teorie e scoperte che affollano la “mente eroica” di Giambattista Vico nel nuovo libro di Marcello Veneziani
Giambattista Vico (1668-1744) è considerato un grandissimo del pensiero filosofico italiano ed europeo, ma è faticoso da leggere anche se ha scritto un solo vero libro in tre edizioni, la “Scienza nuova”. Marcello Veneziani, scrittore fascista di talento, ha scritto un tale numero di libri da risultare quasi inafferrabile a un lettore distratto le cui idee non coincidano con le sue nonché con le proprie. Ma la sua ultima opera, una biografia-trattatello dedicata a Vico (“Vico dei miracoli”, Rizzoli), in una lingua fresca e diretta intinta nel vernacolo napoletano, è un gioiello e dunque luccica. Tra Sei e Settecento Napoli borbonica e asburgica fiorisce, lascia in eredità al mondo il San Carlo con l’educazione musicale e un pensatore arcigno e sfiorito già alla nascita, uomo sfortunato e però molto sicuro di sé, condannato a una specie di mediocre penombra, perseguitato da accuse di cialtroneria, eppure premiato dai posteri come un grande maestro capace di dare una chiave della storia dell’umanità e del senso umanistico dell’esistenza dei popoli e delle nazioni nel tempo, e anche un epistemologo autore del celebre aforisma Verum esse ipsum factum (si può conoscere solo ciò che si fa, la storia e forse la matematica). Tra i grandi riconoscimenti che tributò a Vico il Novecento, secolo della scienza in ammirazione di questo anti Cartesio, da lui nominato sempre Renato delle Carte, spiccano fra gli altri Benedetto Croce (ignorato da Veneziani, credo per gentilianesimo spinto), Isaiah Berlin, Edward Said.
Veneziani dà un estratto sapido della congerie incredibile di intuizioni, prefigurazioni, teorie, scoperte, leggi che affollano, liberano con profetica energia e ingombrano la mente possente, la “mente eroica”, di questo genio scostante, poco amato nel suo ambiente, isolato e triste nel suo capriccio accademico di scrivere la storia ideale eterna dell’umanità e di dare a religione, cultura, istituzioni civili e politiche, ciascuna al suo posto, ciascuna attivata dalla fanciullesca fantasia creatrice e libera scaturita dalla originaria paura dei fulmini o timordiddio, la guida divina della Provvidenza precisamente nel senso manzoniano del termine. L’estro dello scrittore che sa come raccontare il dettaglio, romanzare la vita, l’infanzia, la città, il declino, si accompagna al suo rivendicato e pieno tradizionalismo ideologico ma lo supera in una circonfusione d’amore senza limiti verso chi ritrae nella sua debolezza di vincitore sconfitto, di morticino sociale che si fa pensatore immortale. E lo stile letterario, con un uso della napoletanità brillante e sorprendente per uno che viene dalla saporita Bisceglie d’Apulia, considerata dagli snob la “capitale della cafonia”, si fa alloro e consacrazione per il biografo e saggista elegante.
Viene voglia di leggere Vico, di forzare i suoi arcaismi lessicali, la sua maniacale e sistematica e direi incallita severità di facitore del vero assoluto, per lo ieri per l’oggi e il domani. Risultato clamoroso e inatteso. Viene voglia di andare a Napoli, il che sarebbe già più scontato se non si sentisse a commento il suono di un mandolino diverso dal solito, ironico, malinconico di quella malinconia barocca che Veneziani mostra di condividere nel suo passatismo entusiastico e deluso dal moderno. Viene voglia di segnalare questo libro sincero e straordinariamente ben fatto, dunque a suo modo vero, e fare i complimenti al suo autore.