Lettere di una vita
L'esistenza breve di Irène Némirovsky, una che amava vivere ogni istante. Un libro
Una raccolta di scritti fatta “di elementi molteplici, di piccoli avvenimenti senza importanza, di conversazioni che vi hanno colpito, di fatti reali che vi hanno emozionato per un breve istante, subito deformati, amplificati dall’immaginazione e, allo stesso tempo, da pensieri intimi e ricorrenti che solo noi possiamo intendere". Perché nessun altro li comprenderebbe
Se mai c’è stata una persona felice di essere al mondo, quella era Irène Némirovsky. “Non si fa che ballare e cambiarsi d’abito, cambiarsi d’abito e ballare”, scrive alla sua amica Madeleine quando è giovane e si prende gran raffreddori uscendo a bere champagne sulla terrazza del Negresco di Nizza. Papà è un banchiere di Kyiv, mamma è sideralmente distante – di lei si occuperà nel romanzo “Jezabel” – ogni tanto qualcuno si ricorda di dirle di flirtare meno, studia alla Sorbona, prende gran bei voti, poi arriva Michel Epstein, banchiere pure lui, “un piccoletto bruno dalla pelle molto scura” che le piace subito. Si mette a scrivere, si sposa, nasce Denise, il successo arriva subito, prima con uno pseudonimo, poi con il suo nome, quando scrive David Golder, storia di un banchiere, di nuovo, dai tratti intensi, che le attira accuse di antisemitismo da parte della sua stessa comunità. Un personaggio che, si difenderà l’autrice, “di tipicamente ebraico, a mio avviso, ha tre cose: l’orgoglio, la paura della morte e la passione per gli affari fine a sé stessi”.
Dal libro si fa un film, le copie vanno a ruba ma la giovane immigrata russa rinuncia alla candidatura al Goncourt pur di non sembrare interessata agli occhi degli unici giudici che le stanno a cuore: le autorità incaricate di decidere se darle la nazionalità francese, l’appartenenza formale a un “paese bello, libero, moralmente sano, fiero e popolato da persone perbene e coraggiose”. Il desiderio è un’identità, ma non basta a proteggerla, come dimostra l’avvincente “Lettere di una vita”, appena pubblicato da Adelphi nella bella traduzione di Laura Frausin Guarino, raccolta di scritti di un’esistenza breve e intensa, fatta, come i libri, “di elementi molteplici, di piccoli avvenimenti senza importanza, di conversazioni che vi hanno colpito, di fatti reali che vi hanno emozionato per un breve istante, subito deformati, amplificati dall’immaginazione e, allo stesso tempo, da pensieri intimi e ricorrenti che solo noi possiamo intendere, perché nessun altro li comprenderebbe”. I lettori adorano questo sguardo guizzante e Némirovsky li accontenta, lasciando stare i temi alla David Golder che però aveva avvicinato con la più nobile delle motivazioni: “Ho pensato che in letteratura il bambino, l’adolescente e la donna avevano assunto un’importanza spropositata e che la vita di uno di quegli uomini che mi vedevo intorno era anch’essa molto interessante e, in fondo, infinitamente triste”. Ma troppo complicato, che noia le polemiche, meglio scrivere di altro, di tutto il resto.
Le sue sono lettere brevi e dirette, come i suoi romanzi in cui “fin dalla terza frase ci si sente in mezzo ai personaggi”, per dirla con uno di quegli editori a cui manda lettere cortesi e perentorie per farsi pagare, gran fonti di ispirazione pure quelle per chi pensa che la scrittura sia un’attività languida e disincarnata, poco interessata alle cose pratiche. A Némirovsky piace vivere, essere sposata, avere due figlie, vedere la società che le balla davanti e guardarne le contraddizioni, correre a raccontarle, in 16 romanzi e più di 50 racconti tra il 1926 e il 1942, più i diari e le lettere e le bozze e tutte le tracce di una vita da grafomane. Però l’aria cambia e neppure l’agognata nazionalità francese, che non otterrà mai, o la conversione al cattolicesimo o la fama o i soldi o le lettere agli editori o la fuga in Borgogna, a Issy-l’Évêque, la salveranno da un destino che, come in sei milioni di altri casi, la insegue e ha la meglio sulla sua sfavillante vitalità: la arrestano il 3 luglio 1942 e da Issy la portano nel campo di concentramento di Pithiviers, Michel Epstein fa di tutto per salvarla, saperne qualcosa, scopre che è andata a Est, Polonia o Russia, si fa arrestare l’8 ottobre. Arriva ad Auschwitz, dove lei è morta di tifo il 17 agosto, muore anche lui. Le bambine sono al sicuro, la tata Julie Dumot si occupa di loro e di una valigia che terrà fino alla morte. Dentro c’è “Suite francese”.