Il libro
L'indicibilità del Male e la fatica di giudicare. Uno specchio per l'oggi
La storia del castello che ospitò giornalisti e scrittori impegnati nel difficile racconto del processo di Norimberga ci impone di riflettere su un quesito quantomai attuale: se avessero vinto loro?
Quando il 15 dicembre 1945 il prestigioso Newsweek titolò “The Nuremberg Show”, il processo di Norimberga era iniziato da venti giorni e soltanto in pochi trovarono da ridire: né i lettori del mondo libero appena uscito dalla tragedia, né tantomeno i colleghi giornalisti di tutti i paesi che di giorno assiepavano la tribuna stampa del tribunale e che la sera dividevano brande militari e pasti nelle enormi stanze finto-gotiche del castello Faber-Castell, appena fuori città, dove era stato allestito il Press Camp. Ernie Deane, il factotum militare americano che si occupava dei cronisti, in quei giorni scriveva alla moglie: “Non preoccuparti di quello che leggi sui giornali, i corrispondenti sono qui a frotte e il processo è molto noioso per la maggior parte del tempo”. Eppure si era davanti al processo del secolo, o addirittura “l’ora zero” di una nuova visione dei diritti umani e internazionali, e sul banco degli imputati c’erano Göring, Ribbentrop, Kaltenbrunnen, Hess. Era il processo ad altissimo tasso simbolico – “processo didattico”, scrisse il grande scrittore ebreo tedesco Alfred Döblin, una star tra i corrispondenti – con cui le potenze vincitrici, a costo di scavalcare e riscrivere le regole, intendevano rifare le basi del diritto internazionale. Eppure, visto dalla tribuna stampa, il quadro d’insieme non era così nitido. Un mese prima, l’unico corrispondente cinese a Norimberga, Xiao Quin, scrisse non senza un filo di eccitazione che si sarebbe trattato di “un grande evento”. La presa di coscienza dell’orrore – e del ruolo “morale” di testimoni a cui i giornalisti e gli scrittori erano chiamati – non erano ancora scattati. E in alcuni casi non sarebbero scattati per niente, generando addirittura complicati ribaltamenti.
Ci sono momenti cruciali della storia in cui giocoforza si è portati a specchiarsi. Il processo di Norimberga lo è, oggi, più ancora che in altre epoche della storia recente. Ma dallo specchio della storia emerge prepotente anche la domanda sul ruolo dell’informazione, sulla sua capacità morale di comprendere e rappresentare i fatti. Oggi che la potenza di fuoco e di reazione rapida dei media è milioni di volte superiore a quella allestita in quell’improvvisato Press Camp del ’45, è evidente che la possibilità di sbagliare lettura e racconto – quando non volutamente mistificare – sia infinitamente maggiore. E non soltanto perché fotografi embedded possono confondere il ruolo di testimoni con quello di propagandisti, o perché i filmati dell’orrore che – a Norimberga – furono l’unica arma che fece abbassare lo sguardo, o piangere, ai nazisti oggi sono invece format usati contro le vittime. Starsene accampati in un castello, e da lì cercare di interpretare e raccontare i fatti, anzi “l’indicibile”, è una bella metafora per tutto questo. Lo scrittore e storico tedesco Uwe Neumahr non ha dovuto lavorare di fantasia, la metafora concreta di questo dilemma l’ha trovata nei fatti e ne ha tratto un libro eccellente, pieno di scoperte e domande. Il libro si chiama Il castello degli scrittori - Norimberga 1946 cronache dall’abisso (Marsilio, 304 pp., 22 euro) e ricostruisce, utilizzando una messe di fonti e documenti, la vita quotidiana e il lavoro dei corrispondenti della stampa internazionale – oltre duecento nei momenti chiave, e una presenza continua durata anni – che hanno vissuto (convissuto) e lavorato in un luogo assai particolare: il castello della famiglia Faber-Castell, celebri industriali delle matite, a Stein, poco distante da una Norimberga ridotta a un cumulo di macerie. Il castello era stato requisito dai nazisti, nonostante i conti Faber-Castell non avessero avuto compromissioni col regime. La strana collocazione del Press Camp e la vita nel castello sono un piccolo romanzo a parte e un manuale del lavoro giornalistico. Chi lo trovava un posto squallido e orribile, come la mondana Rebecca West, e chi approfittava per mangiare a quattro palmenti quell’inatteso bendidio nella grande sala da ballo trasformata in mensa, come i corrispondenti sovietici. Chi intrecciava relazioni e chi complotti a scopo di scoop, tra partite a scacchi e macchine da scrivere che picchiavano tutte assieme e colossali fiumi di alcool nelle lunghe sere al bar sempre aperto.
Lì vissero per due anni i giornalisti che, assieme ai giudici, furono per prima cosa testimoni oculari di un processo totale, in cui la difficoltà stessa di raccontare (annota Neumahr che spesso le cronache si aggrappavano al racconto delle espressioni, se mai c’erano, sui volti degli imputati davanti alle cose, ai racconti, alle immagini: riflessi di riflessi), riletta oggi, è il segno di una difficoltà anche morale, politica. Eppure chi fossero i colpevoli era evidente. Albert Speer, l’architetto del Reich, scrisse: “In aula ci siamo trovati di fronte a volti sprezzanti”, intendendo l’ostilità della stampa. Ma c’erano anche giornalisti che per ingannare la noia organizzavano scommesse sulle condanne.Il libro di Neumahr è una miniera di spunti per la Storia, Paolo Mieli sul Corriere ne ha scritto in modo ampio e concentrandosi soprattutto su un capitolo topico, quello dell’interrogatorio di Göring, il simbolo stesso del Male capace però di tener testa ai suoi accusatori. I capitoli dedicati ai punti di vista e agli scritti dei grandi scrittori che furono i più acuti interpreti del processo – Don Passos, Erika Mann, William Shirer, Eric Kästner – sono altrettante testimonianze di come si cercasse di capire e giudicare: con lucidità ma a fatica. Dos Passos, che era stato comunista, diede spazio ai dubbi di interlocutori che rinfacciavano agli Alleati le atrocità della guerra; la figlia di Thomas Mann esibiva il suo odio antropologico per la sua (ex) nazione, Janet Flanner entrò in collisione con il suo editore per un atteggiamento palesemente critico sulla conduzione americana del processo, i reporter sovietici badavano a lucidare l’immagine dell’Urss, i francesi a ripulirsela.
Il castello della Faber-Castel – matite per riscrivere la storia – che andava scomodo agli ospiti più pretenziosi, è in realtà un buon edificio in stile “storicismo”, un’art decò teutonica che porta alla mente, per chi l’ha letto, il maniero medievale del Gran Maestro delle Foreste del Reich nello splendido e inquietante romanzo distopico Il richiamo del corno di Sarban.
Ed è appunto quella impressione distopica che fa riflettere oggi: trecento giornalisti che confinati in un castello fuori dalla storia sono chiamati a fare la Storia, ma soprattutto a interrogarsi su un a domanda terribile: se avessero vinto loro? Se avesse vinto il Male, come nel romanzo di Sarban (è lo pseudonimo di un diplomatico inglese) e quel luogo fosse diventato il regno di una dittatura disumana e persino cannibale? Chi ha passione per la storia e anche per la sua “complessità” – che non è né deve essere il paravento ideologico dietro al quale riparare i pregiudizi, ma la consapevolezza che la storia grande o anche enorme passa dalle persone, persino dai giornalisti, dalla loro onestà di sguardo o dai compromessi col libero arbitrio – ha in questo libro una lettura, se non obbligata, stimolante.I capitoli più culturalmente interessanti sono quelli dedicati ai maggiori autori che hanno scritto di Norimberga. Ma il vero tema è già condensato nella prima parte. Il famoso scrittore Erich Kästner si dichiarò disarmato di fronte all’orrore dei lager: “Quanto è accaduto è talmente spaventoso che non è lecito tacerne ed è impossibile parlarne”. Scrive Neumahr: “Trovare parole per l’indicibile non è stato un problema solo per i commentatori”. Anche i giudici si trovarono di fronte al “dilemma che Hannah Arendt ha definito con la formulazione di ‘resoconto incomunicabile del testimone oculare”. Per nominare gli errori occorre – allora come oggi – forza morale, ma anche una lucidità storica e politica che allora come ora non è gratis. Oggi siamo chiamati a raccontare e giudicare non lo stesso “indicibile” ma qualcosa che paurosamente lo evoca. Il 7 ottobre ha inaugurato un altro “castello di matite”, fatto di immagini video social e quant’altro, in cui è enorme il peso del guardare e del prendere posizione. Norimberga è il primo vero processo mediatico planetario, il primo in cui è richiesta un’adesione morale senza ritrosie (anche per i pochi cronisti tedeschi, guardati con pregiudizio, e tra loro anche il giovane Willy Brandt). C’era una tecnologia d’avanguardia, per i tempi, quattro traduzioni simultanee. Eppure la ricostruzione di quel che fu compreso e scritto mostra i pericoli anche di oggi: non riuscire a chiamare le cose col loro nome, misurarle col metro di un interesse e punto di vista ideologico.