facce dispari
Aldo Cecconi, nell'archivio tra i misteri di Pinocchio e Salgari
Fiorentino, classe ’59, dirige da più di vent’anni l’archivio storico Giunti: "Il momento più felice? Quando rimango solo, nel silenzio, e posso immergermi nelle carte. Allora ho l’impressione di sentire la voce degli uomini dal passato: Collodi, Pirandello e Verga"
Se immaginiamo un archivista con il luogo comune che lo tratteggia, quale meticoloso innamorato delle proprie carte, introverso per proteggerle e preciso nel descriverle, immaginiamo facilmente Aldo Cecconi. Fiorentino, classe ’59, dirige da più di vent’anni l’archivio storico Giunti, che custodisce le memorie confluite nella casa editrice da antiche sigle come Paggi, Bemporad/Marzocco, Barbèra. Frequentato da ricercatori e studenti, l’archivio istituito da Sergio Giunti nella limonaia di Villa La Loggia, di cui Brunetto Latini fu l’inquilino più insigne, è stato recentemente illuminato dai riflettori per i centoquarant’anni di Pinocchio, riportando alla luce con una pregiata ristampa anche la storia del capolavoro. Il contratto di Collodi, le 500 lire ricevute da Felice Paggi per la prima edizione del 1883, le tavole originali con cui fu illustrata l’opera e la successiva sterminata produzione del libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia.
Secondo Raffaele La Capria, Pinocchio “è l’unico vero, grande, e più completo personaggio italiano della nostra letteratura”. Su di lui si è scritto tutto, perciò dimentichiamo per un attimo i documenti e la filologia, gli studiosi e gli estrosi. Che idea s’è fatta lei, dopo avere abitato così a lungo nella “soffitta” del burattino?
Per capirlo davvero, bisogna considerare un aspetto fondamentale di Carlo Lorenzini: il tratto ironico tipicamente toscano che percorre tutto il libro e viene fuori fino alla fine. Anzi, direi che proprio il finale è per nulla scontato.
È l’accesso definitivo alla normalità, il conseguimento della natura umana dello scapestrato burattino dopo tante peripezie…
Questa è l’interpretazione più accreditata, ma non ne sarei così sicuro. Rileggiamo le ultime righe del libro: “– Com’ero buffo, quand’ero un burattino!... e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!... –“. Collodi termina con i tre puntini di sospensione, non con un’affermazione netta. Come a voler dire: sarà proprio vero? Questa è l’ironia toscana, una sottile sfumatura che non ci deve sfuggire.
Dove collocherebbe i luoghi imprecisati in cui Pinocchio vive le avventure?
Tra i dintorni fiorentini e le località che Collodi aveva frequentato e descritto nella giovanile guida storico-umoristica ‘Un romanzo in vapore’, da Firenze a Livorno. Osservando con attenzione le tavole originali di Enrico Mazzanti, che illustrò la prima edizione di ‘Pinocchio’ del 1883, si capisce lo sforzo sia di rendere visive le caratteristiche del burattino sia di restituire la dimensione geografica e il clima del racconto. L’amicizia tra Collodi e Mazzanti contribuì sicuramente allo scopo.
Qual è che più le piace tra le edizioni storiche che custodite?
Mi emoziona molto il Pinocchio del 1911 con le tavole di Attilio Mussino. Fu la prima edizione a colori e richiese un impegno grafico notevole a quei tempi.
L’editore era Bemporad, che aveva acquisito la ditta Paggi e aveva tra gli autori Emilio Salgari: fu davvero così avaro da indurlo a “spezzare la penna” e al suicidio? L’archivio cosa racconta?
Enrico Bemporad fu un imprenditore geniale dal destino ingeneroso e poi patì le leggi razziali. Aveva messo sotto contratto Salgari nel 1906, soprattutto per favorire il lancio del ‘Giornalino della domenica’ diretto da Luigi Bertelli, il ‘Vamba’ creatore di Gian Burrasca. Prevedeva la pubblicazione a puntate settimanali dei romanzi di Salgari, che restava un nome di grande successo malgrado fosse meno creativo rispetto al passato. Nel carteggio ampiamente consultato dagli studiosi c’è copia della risposta di Bemporad allo scrittore, giunta il giorno prima del suicidio, e ci fu l’ennesimo aiuto finanziario, ma la sorte dei soldi spediti è rimasta un giallo. Certo Bemporad non fu tra gli editori “vampiri”, come venne detto. Mi ha colpito invece che il primo contratto con Salgari prevedeva tre o quattro romanzi di avventure all’anno, ma non fu rispettato dallo scrittore.
Bemporad rispettava i contratti?
Solo qualche volta gli capitò di essere in difficoltà con gli autori. Ho trovato uno scambio con Laura Orvieto, scrittrice per l’infanzia molto popolare con le ‘Storie della storia del mondo’ e con cui l’editore aveva un rapporto di amicizia che andava al di là del lavoro. Alla fine degli anni Venti le scrive che in quel momento è “proprio squattrinato” e la prega di pazientare per il pagamento dei diritti.
Un archivio editoriale può interessare un pubblico più ampio degli studiosi?
Non foss’altro perché testimonia tutto il lavoro fatto per produrre un libro, che è generalmente misconosciuto. Chi compra un volume in libreria non riflette sui processi commerciali, i progetti grafici, i confronti creativi da cui è sortito l’oggetto che si trova tra le mani. L’archivio documenta questa storia.
Cosa si conserverà in futuro, ora che le fonti digitali sostituiscono la carta?
È un problema generale con cui ci si dovrà confrontare. Il Novecento è stato un grande secolo per la produzione documentale nell’editoria. Da un ventennio al contrario le tracce che restano sono molto più esigue. E le e-mail vanno facilmente perdute.
Qual è il momento più felice per un archivista?
Quando rimango solo, nel silenzio, e posso immergermi nelle carte. Allora ho l’impressione di sentire, o forse ascolto veramente, la voce degli uomini dal passato. Collodi, Pirandello, Verga, in quei pezzi di carta dietro i loro libri.