Il ritratto
Maria Callas, la diva che sbagliava tutto. Storia di un suicidio mediatico
A cent'anni dalla scomparsa dell'artista icona, la Scala di Milano omaggia la soprano con una mostra inedita
È una novità che una mostra celebrativa non intenda esporre opere, gesta e – sigh – paraphernalia polverosi del celebrato, scegliendo invece di raccontarne l’essenza, seguendone le tracce che ha lasciato nelle generazioni successive, e favorendo dunque un approccio personale da parte del visitatore, non più costretto a seguire la didattica, ma accompagnato e stimolato a scovare sensazioni, ricordi propri e a formularne di nuovi. Che lo faccia attraverso una serie di artisti contemporanei di fama internazionale e di studiosi della parola, non necessariamente legati al festeggiato, è una scelta ancora più radicale. Bravi dunque la direttrice Donatella Brunazzi e il Museo Teatrale della Scala, veneranda istituzione dove in tanti abbiamo anche studiato, e bravi anche i vertici del teatro, non sempre sperimentalissimi, a respingere il solito approccio fotografie-costumi-vestitini di molte delle mostre previste per il centenario della nascita di Maria Callas in tutta Italia, ma in particolare a Milano, dove visse per buona parte degli anni Cinquanta e dove consolidò la propria ascesa, interpretando ventitré titoli d’opera in ventotto stagioni, fra cui sei inaugurazioni e l’ormai celeberrima “Traviata” con la regia di Luchino visconti del maggio del 1955, costumi di Lila De Nobili imprescindibili da allora ancorché andati subito misteriosamente perduti.
Tengo a sottolineare che questo endorsement molto sfacciato non dipende dalla curatela affidata a Francesco Stocchi, che ogni mese fa dell’inserto Il Foglio Arte un florilegio di immagini e soprattutto spunti di riflessione imperdibili, e che un paio di anni fa mi fece piangere di invidia per una strepitosa intervista all’imprendibile Theaster Gates, innovatore sociale e grande artista che siede anche nell’advisory board di Prada per i temi di diversità e inclusione, e nemmeno dalla sua recente nomina alla direzione artistica del Maxxi, chiamato da Alessandro Giuli (però, mica male questa community del Foglio che sta ovunque si faccia cultura, Salone del libro compreso). L’entusiasmo deriva innanzitutto dal pericolo scampato dei turbanti presi a prestito in blocco da qualche collezionista (la leggenda vuole comunque che Callas fece un gran falò di vestiti nel giardino della casa di via Buonarroti prima di lasciarla, insieme con quel furbo pigmalione di marito, e che la pira arse per due giorni) e poi dalla straordinaria linearità e coesione del percorso, nonostante accorpi le installazioni e le testimonianze di interpreti visivi, musicisti, registi diversissimi fra di loro: la traccia che li lega, anche visivamente, iconicamente, è la voce. Un’intonazione sorprendente che si ritrova tanto nella colonna di cristalli bianchi e rossi, mobile e incantevole, progettata dell’artista franco-marocchina Latifa Echakhch, in questi giorni al centro di una polemica mondiale per non aver preso posizione nei riguardi del conflitto fra Israele e Hamas, ferma com’è nella solidarietà femminile nei riguardi del brutale femminicidio di massa del 7 ottobre, come nell’installazione sonora del compositore ebreo Alvin Curran, che ha lavorato sulle suggestioni dell’“oggetto musicale Callas, una creatura alata fantastica”.
È parola il progetto sviluppato da Mario Martone con Sonia Bergamasco su un testo di Ingeborg Bachmann, racchiuso in una saletta cinematografica di quel modello intimo e privato tornato di moda oggi dagli anni Cinquanta della borghesia affluente, ed è una riga musicale con una sorprendente chiosa armonica l’abito couture in crine di seta rosso scelto da Giorgio Armani per la sua riflessione sul rapporto fra Callas, Visconti e Milano, che si intreccia con il suo stesso percorso, così come è ancora puro ritmo surreale il celebre pannello ricamato di Francesco Vezzoli (“Maria Callas played ‘Traviata’ 63 times”, 1999). L’iconografia che si fa musica, il passaggio da un senso all’altro, è un esercizio di stile difficile, che a Stocchi è riuscito in parte grazie al bell’allestimento curato da Margherita Palli attorno all’idea di un filo di luce blu, e di certo per la semplicità con cui si è spogliato della sua formazione di interprete delle arti visive per lavorare attorno al talento solo in apparenza più ovvio di Callas oltre la sua persona e il suo personaggio, cioè alla sua voce.
Nella mostra, e nei testi del catalogo curato da Mattia Palma, questa voce emerge con le sue vertiginose altezze e i suoi bassi cavernosi e le sue difficoltà, fino al momento in cui, prendendo il sopravvento, finisce per guidare la trasformazione della massima diva mediatica mondiale dei primi anni Sessanta, superiore per ritagli stampa perfino a Marilyn Monroe nel fatidico 1962, in una celebrity sempre più mesta, irrisolta, sola. Del tutto incapace di gestire i giornalisti, ai quali continua a soccombere dal primo all’ultimo giorno della sua carriera, mettendo la propria infanzia di bambina goffa e poco amata a disposizione di penne malevole come quella di Camilla Cederna che, insieme con molti altri, la fece oggetto, perfino col supporto della famiglia acquisita, i Meneghini, di una campagna di body shaming oggi intollerabile (“L’usignolo del mondo parla solo di torte”, titola di Grazia nel 1952). Avendo analizzato per mesi il linguaggio e l’aggettivazione che hanno seguito, con poche differenze fra un paese e l’altro, il racconto della carriera e della persona Maria Callas, per chiudere la questione forse basterebbe dire che con un Enrico Lucherini alle spalle, il soprano si sarebbe risparmiata una quantità di grane e di accuse sulla prima pagina dell’Unità come nel celebre ritratto di Time che ne scosse la reputazione negli Stati Uniti, ma non è così. In quel doppio registro di artista e di diva giocava anche lei, pur malissimo. Almeno fino agli anni dell’amicizia amorosa con Pier Paolo Pasolini, cioè quando raggiunse quel disincanto che è frutto combinato del logorio della sua voce, dell’amore infelice per Aristotele Onassis e dello status di celebrity nel quale aveva accettato di farsi collocare suo malgrado, quelle di Callas sono le rettifiche, ridondanti e mediaticamente suicide, di una donna mal consigliata, di una publicist autodidatta che ritiene utile ribattere punto per punto, perfino nelle inezie, a un giornalismo spregiudicato e a un pubblico pregiudizievole.
Una donna che scrive, acquiescente, di non “avercela con i giornalisti, i quali fanno come meglio sanno un mestiere che spesso esige durezza”, e che nega di continuo, con veemenza, il “cattivo carattere” e le “rivalità” che susciterebbe, senza mai immaginare di sortire l’effetto opposto: “Non è vero che vivo sulle opposizioni: le odio. Il difendersi e uscirne vittoriosa non è una colpa ma un bene, ma non vuol dire che ami le battaglie”. Dunque sì, l’immagine della diva “fiera e fragile” della narrativa a uso popolare e di una titolazione ormai quasi automatica, della “tigre” che lei è convinta di cavalcare, ma nella quale in realtà viene costantemente identificata, si dimostra tale anche nei documenti che la raccontano, avvalorati dalle testimonianze dei registi e dei colleghi, da Montserrat Caballé all’amica Giulietta Simionato, che tracciano una figura di certo assertiva, ma diversa da quella costruita dai rotocalchi: “affascinante”, ma anche “onesta”, “sincera”, “generosa”, “umile”, “puntuale”, oltre che “ottima consigliera”. Perfino Renata Tebaldi, negli anni successivi alla sua scomparsa, ammise che la loro rivalità, innescata dalla stampa su qualche scambio di battute più spiritose che sgradevoli, avesse “giovato a entrambe”. “Il giorno che non canterà più lascerà dietro di sé una leggenda”, scrisse Eugenio Montale, che ne seguiva fervidamente le presenze teatrali, storica una sua recensione della “Vestale” del 1954, forse senza immaginare quanto questo effetto avesse già iniziato a prodursi mentre ne scriveva al futuro, e come avrebbe lavorato sottotraccia, duramente, nel giro di pochi anni. Lo aveva ben intuito Giovanni Arpino, abile interprete dei sentimenti e delle evoluzioni psicologiche e sentimentali della massa, e se ne trova traccia il 7 aprile del 1965 sul quotidiano Il Tempo, a cui l’aveva chiamato Renato Angiolillo dopo la vittoria del Premio Strega per “L’ombra delle colline”, in un’altra delle “lettere scontrose” che per un anno, ogni settimana, lo scrittore torinese avrebbe dedicato ai politici, gli intellettuali, gli attori del momento. È lui il primo a intuire una scissione fra la persona Callas, cioè la maschera a cui Maria ha finito a poco a poco per uniformarsi e dalla quale già intuisce che verrà schiacciata, e la donna Callas. “… Lei che forse avrebbe potuto essere Clitennestra, se i tempi fossero meno grami, oggi può soltanto interpretare una parte, non viverla pienamente.
La folla sacrifica agli dèi ma li condiziona, li imprigiona in uno zoo di felicità al technicolor dal quale non possono sfuggire se non rischiando la condanna più odiosa: l’oblio”.
In quell’aprile del 1965, la cantante che l’Herald Tribune ha da poco definito “né stella, né regina, ma Callas” – un passo oltre lo stesso status di “divina” che le viene attribuito da più di un decennio, prossima a trasformarsi in quello che il gergo del marketing definirà nei decenni successivi un “marchio ultranotorio”, cioè in grado di influenzare il lessico e di dar vita a nuove definizioni, fra le quali “callasiano” è il più comune – sta cantando in scena le sue ultime opere complete: “Tosca” all’Opéra di Parigi e al Metropolitan di New York, “Norma” sempre a Parigi e un’ultima “Tosca” a Londra il 5 luglio, in una ripresa dello spettacolo del 1964 diretto da Franco Zeffirelli con le scene di Renzo Mongiardino e i costumi di Marcel Escoffier a cui assiste anche la regina Elisabetta II. La folla, la “gente”, le code a cui si riferisce Arpino sono le stesse alle quali la cantante guarda con un misto di trepidazione e angoscia, conscia del loro potere mediatico e della necessità di governarlo, e che lo scrittore inquadra come “un popolo di fedeli (…) fanatico, implacabile nella sua devozione”. Implacabile, ma anche “determinato”, “accanito”, con i loro derivati, sinonimi e locuzioni parallele (“tenebroso” o “occhi di tenebra”, “potente”, “arcano”, “tragico”), è il pubblico, perfettamente speculare alla fanatica e implacabile che è lei, ma infinitamente più potente.
Callas è una donna assertiva, volitiva per gli standard odierni, certo non per quelli dell’epoca se si segue il racconto mediatico della sua separazione da Meneghini, esacerbato dalle annotazioni perfide di una stampa compattamente convinta che senza un uomo alle spalle “finirà sul lastrico in tre anni”. Quella che oggi verrebbe definita una professionista legittimamente attenta alla propria carriera e alla difesa della propria voce, all’epoca è una cantante capricciosa, che non accetta di assoggettarsi ai voleri di sovrintendenti e cassetta (“la mia voce non è un ascensore”) e che nel gennaio del 1958 rischia di subire una violenza addirittura fisica all’Opera di Roma. Ha un attacco acuto di tracheite, non riesce a superare il primo atto di “Norma”, ma in sala ad ascoltarla c’è il presidente Gronchi. Lascia il teatro, ne nasce uno scandalo politico che tocca il titolo di apertura dell’Unità (“Inchiesta sullo scandalo all’Opera. Per i medici la Callas non ha voce. Il soprano ha chiesto scusa al presidente della Repubblica. L’opinione pubblica divisa in tre partiti”). È singolare che nessun organo di stampa riporti per esempio che Maria Callas, prima di abbandonare l’Opera di Roma dopo un primo atto di “Norma” ovviamente deludente a causa di un forte disturbo tracheale, abbia scribacchiato un messaggio in cui si scusa con il pubblico con la matita da trucco sulla busta di una lettera: il biglietto non viene infatti letto, mentre il sovrintendente Carlo Latini parla di “cause di forza maggiore” e lo scandalo si propaga fino a lambire fisicamente la cantante, assediata all’albergo Quirinale da un gruppo di facinorosi per giorni, e a promuovere un’interrogazione parlamentare, mentre la stampa non lesina sui titoli: è “scandalo”, “disonore”, “capriccio”, “vergogna”, “cataclisma”, naturalmente “affronto”. È ancora la “raging Callas” descritta dal Chicago Tribune tre anni prima. Sui muri attorno al teatro, la città graffita insulti e un monito: “Callas vattene”. Possiamo anche criticare il giornalismo di oggi e l’imperio dei social, ma tutto questo, oggi, non sarebbe mai successo.