Il Faust velato
Chi era Raimondo di Sangro, indagatore dei segreti della natura: la sua vita fu un mistero
La vita eccentrica e le abilità poliedriche di Raimondo, tra cui invenzioni scientifiche e presunte conoscenze alchemiche, alimentano il suo mito, mentre un misterioso insegnamento d'alchimia a Cagliostro potrebbe essere parte del suo enigma non risolto
Nel 1817, durante il mio Grand Tour d’Italia, mi trovavo a Firenze, e come al solito non avevo potuto trattenermi dal girellare per il centro ad ammirarne l’infinita bellezza. Entrai nella chiesa di Santa Croce, e dopo un po’ iniziai a sentirmi male. Il cuore mi batteva forte, provavo vertigini, capogiro. Tutte quelle opere di straordinaria fattura, così compresse in uno spazio limitato, erano davvero troppo per un amante dell’estetica come me. Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere” (Stendhal, Viaggio in Italia da Milano a Reggio Calabria, Laterza, 1990). A Napoli c’è un’altra opera capace di suscitare la sindrome a cui Stendhal ha dato il nome. Lo stesso spazio ristretto e colmo di meraviglie. La stessa bellezza che riempie ogni angolo del campo visivo. Lo stesso mancamento che suscita l’arte dello scalpello, in cui la grazia delle forme si sposa con un’abilità tecnica sbalorditiva. Dal “Disinganno” di Francesco Queirolo, con la fitta rete che avvolge la figura maschile, alla “Pudicizia” di Antonio Corradini, con il drappeggio che nasconde quella femminile, la pietra sembra priva del suo peso. E poi il “Cristo velato”, l’opera che affascina i visitatori da oltre due secoli e mezzo, considerata uno dei massimi capolavori scultorei di ogni tempo. Realizzata nel 1753 da Giuseppe Sammartino (1720-1793) su commissione di Raimondo di Sangro, raffigura il Redentore deposto dopo la crocifissione, ricoperto da un lenzuolo che ne lascia trasparire le sembianze. Il lenzuolo è di un tale realismo che, per spiegare la prodigiosa trasparenza del tessuto, ha dato luogo alla leggenda secondo cui fu di Sangro ad apporre il sudario sulla scultura, pietrificandolo più tardi con una tecnica alchemica di propria invenzione.
Da ultimo, se non si è troppo impressionabili, vale la pena di scendere una scaletta a chiocciola che porta a quello che una volta era il vano d’ingresso al laboratorio segreto. Qui, in due teche di vetro alte circa due metri, sono conservate le cosiddette “macchine anatomiche”. Lo scheletro della donna ha il braccio destro alzato e i globuli oculari interi, quasi ancora lucenti, in un’espressione di vero terrore. Sembra quasi che invochi aiuto. Le ossa sono interamente rivestite dal fittissimo sistema arterioso e venoso che, metallizzandosi, ha preservato anche gli organi più importanti. Il cuore è intero e nella bocca si possono riconoscere persino i vasi sanguigni della lingua. Il corpo dell’uomo ha più o meno le stesse caratteristiche, solo che le braccia scendono lungo il tronco. Ma come ha realizzato il principe le sue “macchine anatomiche”? Non lo sappiamo. Alla luce delle attuali conoscenze mediche, si potrebbe pensare che il diabolico don Raimondo, con l’assistenza del suo medico di fiducia Giuseppe Salerno, abbia iniettato nelle vene delle due malcapitate cavie una sostanza che, entrando in circolo, ha progressivamente bloccato la rete sanguigna fino alla loro morte. I dubbi, comunque, restano. Tanto più che la siringa ipodermica necessaria per fare quell’iniezione non c’era ancora, in quanto fu inventata quasi un secolo dopo dal chirurgo lionese Carlo Gabriele Pravaz (1791-1853). Ma il “Cristo velato” e le “macchine anatomiche” non sono gli unici misteri della Cappella. Lo è, per molti aspetti della sua esistenza, lo stesso committente.
Raimondo di Sangro, principe di Sansevero (1710-1771), nasce a Torremaggiore, nella provincia di Foggia, uno dei feudi della famiglia paterna. Nel 1720 è allievo del Seminario romano diretto dai gesuiti. Studia le lingue, la storia antica, la chimica, la meccanica. Nel 1730 è a Napoli. Cinque anni dopo si sposa con Carlotta Gaetani dell’Aquila d’Aragona. Per le nozze Giambattista Vico compone un sonetto (Alta stirpe d’eroi, onde famoso) e Giovanni Battista Pergolesi musica un preludio scenico su un testo di Giuseppe Antonio Macrì, Il tempo felice. La scelta di Pergolesi era segno del gusto per un linguaggio musicale moderno, ma attento ai valori della nobiltà e dell’eroismo (v. Girolamo Imbruglia, Raimondo di Sangro, Dizionario biografico degli italiani, Treccani, 2017).
Alla fine del decennio la moglie viene nominata da Carlo III di Borbone dama di corte, e lui gentiluomo di camera e colonnello del reggimento provinciale di Capitanata. Nella battaglia di Velletri (1744), nella quale le armate spagnole sconfissero le truppe austriache del generale Lobkowitz, grazie al suo coraggio conquista la fiducia del sovrano. In quegli anni si iscrive all’Accademia dei Ravvivati, alla Sacra Accademia fiorentina e a quella della Crusca. Tra il 1744 e il 1751 diviene Gran Maestro di tutte le logge napoletane. A inizio 1751 la Curia partenopea sferra un duro attacco contro la massoneria, condiviso da Benedetto XIV. Raimondo, allora, gli scrive una Epistola nella quale difendeva la correttezza ideologica e la fedeltà di tutti i massoni sia al pontefice sia al re. Sostiene che la massoneria era un corpo nel quale le due élite del Regno, i nobili e i giureconsulti, potevano dialogare e coesistere con “grandissimo benefizio della patria”.
Il mito del misterioso principe di Sansevero è legato soprattutto alla Lettera apologetica, in cui descrive i “producimenti del suo maraviglioso ingegno”. Ansioso di essere riconosciuto quale artefice di incredibili scoperte, ma restio a rivelarne formule e segreti, suscitò nei suoi contemporanei curiosità e ammirazione. Inoltre, la nobiltà dei natali, la fama della sua sterminata cultura, il suo ruolo di Gran Maestro della massoneria e la proibizione della Lettera da parte della Chiesa, lo rendono un simbolo, enigmatico ma potente, dei fermenti intellettuali e dei sogni di grandezza della sua epoca. Nel 1754 il suo biografo Giangiuseppe Origlia lo definisce “un di quei eroi, che la natura di tanto in tanto si compiace di produrre per far pompa di sua grandezza”. Antonio Genovesi lo ricorda come “uomo fatto a tutte le cose grandi e meravigliose”. L’astronomo francese Joseph-Jérôme Lalande lo celebra nel suo diario di viaggio come un monumento di sapienza. Nel 1791 Giuseppe Maria Galanti – discepolo di Genovesi – gli riserva un intero capitoletto della Breve descrizione di Napoli per celebrare “la grandezza del suo genio”, mentre il Saggio storico-critico sulla tipografia del Regno di Napoli (1793) di Lorenzo Giustiniani lodava l’eccezionale qualità delle edizioni uscite dalla stamperia di Palazzo Sansevero.
Verso la fine del diciannovesimo secolo, Luigi Capuana, Salvatore Di Giacomo e Benedetto Croce tornano sul suo straordinario ingegno. Le invenzioni, i temi trattati nei suoi libri, la ristampa clandestina di un’opera misteriosa come Il Conte di Gabalì, la complessa e oscura simbologia della Cappella Sansevero gli hanno assicurato un posto d’onore nella storia dell’esoterismo. Parallelamente, una nuova stagione di studi lo ha definitivamente inserito nel più ampio contesto dello sviluppo culturale napoletano ed europeo del Settecento. Negli ultimi decenni numerosi documentari ne hanno illustrato l’itinerario alchemico-massonico e la sua personalità di mecenate. Nel 1977 Feliciano de Cenzo gli ha dedicato un poemetto in dialetto. Al suo personaggio si ispira una collana di romanzi per ragazzi dell’editore Colonnese e una serie di romanzi noir dello scrittore americano Nathan Gelb, tradotti in Italia da Sperling & Kupfer.
Immenso talento enciclopedico, all’attenzione di Raimondo non sfuggiva nessun ramo dello scibile umano. Costruì macchine idrauliche, capaci di trasportare l’acqua a qualsiasi altezza; si interessò di pirotecnica per realizzare fuochi d’artificio policromatici; lavorò a un prototipo di carta ignifuga, un misto di lana e di seta in grado di non incendiarsi, a sistemi per dissalare e rendere potabile l’acqua di mare, alla fabbricazione di gemme artificiali e all’impermeabilizzazione dei tessuti (donò un mantello così trattato a Carlo di Borbone, grande appassionato di caccia). Appassionato di fisiologia, per curare un paziente affetto da un morbo sconosciuto, gli somministrò (invano) un estratto di pervinca. Al suo estro si devono altre due mirabolanti diavolerie, accennate nella Lettera: il “carbone alchemico”, una mistura di sostanze animali e vegetali capaci di bruciare senza lasciare residui di cenere; e il “lume eterno”, ottenuto dalla triturazione delle ossa di un teschio immerse in un composto di fosfato di calcio e di fosforo ad alta concentrazione. Una miscela, come afferma il principe, con la proprietà di bruciare molto lentamente e di consumare una quantità irrisoria di materia combustibile.
In una lettera inviata 14 novembre 1763 all’amico barone Theodor Tschudy, un cadetto del reggimento svizzero al servizio del Borbone e esponente di spicco della massoneria tedesca, sembra che Raimondo avesse assistito a fenomeni di radioattività naturale. Parla infatti di un “raggio attivo” proveniente da un minerale, la “pechblenda”, vale a dire le “sostanze cristalline, luminescenti al buio color di pece e d’olive, che ebbi in dono da Sua Maestà [il re] di Prussia, che io purgai da silicio, rame e varie impurità in crogiolo e in vari cammini alchemici”. Il minerale si estraeva in Boemia, dalle cui miniere provenne a metà Ottocento il materiale grezzo dal quale i coniugi Curie isolarono il radio. Raimondo aveva osservato che aveva un effetto mortale sugli esseri viventi – da lui testato sulle farfalle – che si poteva schermare ricorrendo soltanto al piombo, da lui chiamato, in omaggio alla tradizione rinascimentale, Saturno.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato che, se sono vere le sue ricerche ante litteram sull’elettromagnetismo, la causa della sua morte andrebbe imputata alle radiazioni di uranio e polonio. Del resto, sulla sua lapide tombale posta nella Cappella, una grande lastra di marmo con un’iscrizione in latino, si legge che fu “uomo mirabile, nato a tutto osare, Raimondo di Sangro, Capo di tutta la sua famiglia, Principe di San Severo, Duca di Torremaggiore. […] Illustre nelle scienze matematiche e filosofiche, insuperabile nell’indagare i reconditi misteri della Natura, esimio e dotto nei Trattati, e nel comando della tattica militare terrestre e, per questo, molto apprezzato dal suo Re e da Federico di Prussia […], imitando l’innata pietà a lui pervenuta per l’ascendenza di Carlo Magno imperatore, restaurò a sue spese e con la sua saggezza questo tempio, […] affinché nessuna età lo dimentichi”. Sulla lapide viaria che invece gli è stata intitolata sulla piazza principale di Torremaggiore, leggiamo “chimico e matematico”. Voleva essere ricordato, insomma, come uno scienziato.
Uno scienziato aduso a sperimentare le sue intuizioni, capace quindi di costruire un palco mobile per le rappresentazioni teatrali; un cannoncino da campagna in metallo leggero, in sostituzione del bronzo – assai più pesante, allora comunemente impiegato; un archibugio a retrocarica, in grado di sparare a polvere o “a vento”, come allora si chiamava l’aria compressa; un sistema per la stampa simultanea a più colori. Il principe sarebbe anche riuscito – ma qui il condizionale è d’obbligo – a confezionare una sostanza in grado di sciogliersi come il sangue di San Gennaro. Queste e altre invenzioni attribuite a Raimondo concorsero inevitabilmente a creare la “leggenda nera” legata al suo nome. Peraltro, egli non era interessato a smentirla. Il laboratorio pieno di provette e alambicchi in cui si rinchiudeva per giorni interi, la tipografia installata nei sotterranei di Palazzo Sansevero, con i suoi sinistri e inquietanti rumori notturni, la militanza nella “Compagnia de’ Liberi Muratori”, le voci sulla sua maestria nella metallizzare i corpi e nell’estrarre il sangue dal nulla: per cui “il principe di Sansevero, o il ‘Principe’ per antonomasia, che cosa è altro in Napoli, per il popolino delle strade che attorniano la Cappella dei Sangro, ricolma di barocche e stupefacenti opere d’arte, se non l’incarnazione napoletana del dottor Faust […] che ha fatto il patto col diavolo, ed è divenuto un quasi diavolo egli stesso, per padroneggiare i più riposti segreti della natura […]?” (Benedetto Croce, Storie e leggende napoletane, Adelphi, 2022).
C’è un ultimo mistero che Raimondo de Sangro si è portato nella tomba. Nel 1790, di fronte al tribunale romano dell’Inquisizione, il conte di Cagliostro affermò che tutte le sue conoscenze alchemiche gli furono insegnate anni addietro a Napoli da “un principe molto amante della chimica”. I giudici non gli vollero credere e non diedero peso alle sue parole. Forse il nome di quel principe venne anche pronunciato, ma non lo possiamo sapere visto che tutti gli atti di quel processo furono secretati dalla Reverenda Camera Apostolica. Del processo di Cagliostro, che si concluse con la condanna e il suo internamento nella rocca di San Leo, ci è rimasto solo un compendio redatto dai giudici dell’Inquisizione. Forse Raimondo di Sangro fu anche il maestro di Cagliostro. Ma questa pagina di storia è ancora tutta da scrivere.