L'intervista
Il vecchio e il palco. Un omaggio a Umberto Orsini
La felicità più grande per l'attore piemontese è essere in scena, perché lì è “totalmente libero”. Il trio imperdibile de “I ragazzi irresistibili”, gli amori, la sua compagnia di giovani talenti teatrali, i prossimi spettacoli
A Novara, dove Umberto Orsini è nato e cresciuto, gli hanno reso omaggio il mese scorso chiedendogli di registrare brani che scrittori come Gadda, Vassalli, Testori hanno dedicato alla città e che si possono ascoltare e riascoltare lungo un percorso turistico in venticinque tappe fra monumenti e luoghi storici. Ogni sua performance teatrale è ormai salutata da vere e proprie ovazioni del pubblico. Resta poi memorabile – pur se sono passati già otto anni – l’intervista televisiva a Che tempo che fa, anche perché in tv lo si è visto sempre pochissimo. Il suo luogo è il teatro, da sempre, persino quando si concedeva a parti cinematografiche commerciali che toglievano qualcosa alla purezza dell’istrione rinchiuso fra tavole di legno e sipari rossi. Memorabile quell’intervista per il fascino, la simpatia, la bellezza sempre indiscutibile, le battute, il timbro ruvido della voce e, insieme, la semplicità diretta con cui si esprimeva.
Adesso, seduto sul divano bianco di casa sua, fra tanti oggetti ugualmente bianchi (la cucina a vista, la libreria…), in jeans neri, maglione nero e scarpe da ginnastica, è lo stesso eterno ragazzo che in scena non inciampa nemmeno una volta (e se gli succede il pubblico non se ne accorge), che non dimentica una sola parola e, soprattutto, che recita senza ausilio di microfono facendo arrivare la voce possente, chiara, emozionante fino in fondo alla platea, fino ai posti in alto più lontani. Posti occupati da spettatori che, a fine rappresentazione, lo chiamano fuori ripetutamente per tributargli cascate di applausi. Sold-out recita il titolo di un’autobiografia uscita quattro anni fa da Laterza, con postfazione di Paolo Di Paolo, e sold-out sono i suoi spettacoli in un periodo in cui, forse persino più di altre espressioni culturali, il teatro soffre l’indifferenza della gente. Ma non la sua arte, non lui che è sempre al lavoro.
Mentre ancora replica in giro il monologo Le memorie di Ivan Karamazov, che ha scritto insieme al giovane regista (e baritono) Luca Micheletti – debutto milanese al Piccolo l’anno scorso, passando per il Vascello di Roma in ottobre, per tornare nel maggio prossimo a Milano, all’Elfo, e chiudere a Lugano il 22 dello stesso mese – sta preparando I ragazzi irresistibili di Neil Simon, che debutterà a Pesaro a fine novembre ed è stato già prenotato in tutta Italia. E siccome prima di cominciare l’intervista abbiamo sentito al telefono per un saluto Paolo Di Paolo e gli ho chiesto di pensare lui una domanda, e la domanda (provocatoria secondo un vecchio scherzo fra loro) è stata: “Quando si decide a fare Re Lear?”, la risposta, altrettanto provocatoria, eccola: “Preferisco chiudere la carriera con leggerezza piuttosto che con una tragedia!” E più tardi aggiungerà: “Mi reputo un attore borghese. Mai fatti quei personaggi in costume, quei grandi classici che vanno a costruire in genere la fama di un attore”. E uno pensa ad Amleto e ai tanti interpreti che abbiamo visto saltare sul palcoscenico con un teschio in mano. No, Orsini è più da teatro inglese, adora la “rapidità e la secchezza” del teatro inglese. È amico di un grandissimo come Ian McKellen, che passa tranquillamente da Shakespeare a Beckett, da Cechov ad Agatha Christie anche se poi magari lega una fama planetaria al Gandalf cinematografico del Signore degli Anelli. McKellen, che è nato nel 1939, ha cinque anni meno di Orsini ma ne dimostra almeno cinque di più. “Ho imparato molto da lui e mi ha suggerito diversi testi da mettere in scena”. Perché Umberto, oltretutto, ha molto frequentato Londra e conosce bene l’inglese e spesso si traduce da sé le commedie, “visto che a teatro basta una sillaba in più o in meno per cambiare le cose”. Però l’Ulisse se lo sta leggendo in italiano, dall’inizio alla fine, perché non lo aveva ancora mai “affrontato nella sua interezza”. E lui è uno che legge parecchio. Legge prima di dormire, anche quando recita e va a cena tardi, dopoteatro. E non è di quegli attori che si alzano a ora di pranzo. Mentre fa colazione scorre le notizie online. Più tardi esce, fuma una sigaretta al bar e intanto legge i giornali di carta a cui non sa rinunciare. E poi gioca a tennis, la sua passione, e cammina il più possibile, avendo rinunciato alla corsa, questo sì. Naturalmente, quando sta preparando uno spettacolo, studia a fondo il testo e tutto ciò che lo riguarda.
Insomma, una forza della natura, non solo un gigante della scena. A proposito di giganti: fossimo in Francia o nell’amata Inghilterra i tributi si sprecherebbero, premi teatrali a parte che non sono mancati. Che so, non sarebbe doveroso uno special televisivo tutto su di lui, per esempio? Che ne pensa? “Che siamo in Italia, appunto. Il livello più alto di popolarità qui l’ho raggiunto negli anni Sessanta quando sono diventato il fidanzato di Ellen Kessler!”. Una storia molto seria, per altro, che durò una quindicina d’anni e finì quando Ellen, stanca delle sue scappatelle, decise di dare un taglio al rapporto. Del resto, come poteva essere fedele un attore che si trovava fianco a fianco per lavoro con le più belle donne del mondo? Per esempio: sul set di Emmanuelle incontra Sylvia Kristel con cui intrecciò “una relazione complicata”. Sono tante le relazioni complicate della sua vita, perché spesso c’erano di mezzo i mariti, se non altri amanti. E soltanto una volta ha avuto una fidanzata che non era del suo ambiente. “Faceva il magistrato. Non sapeva proprio niente di teatro. Non funzionava e mi sono scoraggiato”.
La più famosa disavventura gli accadde con Rossella Falk, di cui forse, almeno a giudicare da come si accende solo a farne il nome, deve essere stato innamoratissimo. Perché l’affascinante Rossella, oltre a essere sposata con un industriale decisamente ostile al lavoro di una moglie sempre assente, aveva una storia con Renato Salvatori. Siamo alla fine degli anni Cinquanta e il giovanissimo Orsini, che aveva perso la testa per lei, decide di “chiarire” con il rivale. (Riassumo una vicenda un po’ più complicata, ma il succo è questo). Così lo convoca a casa sua, dove ci sarà anche un’ignara Falk che verrà messa alle strette perché si decida una volta per tutte fra l’uno e l’altro. In tre – per non dire quattro con il marito – non si può andare avanti! Ma le cose precipitano. Umberto sta salendo le scale, Rossella si attarda per chiudere la macchina, arriva un furioso Salvatori e le dà un pugno in faccia. La scena finisce sui giornali. Rossella divorzierà, ma l’amore con Orsini continua e poi si trasforma in un’amicizia durata tutta la vita. Lo vedo commuoversi mentre racconta la vecchiaia e la malattia di Rossella, di otto anni più grande di lui. Quando andava a trovarla a Zagarolo dove gli aveva fatto comprare una casa vicino alla sua, e lei era in sedia a rotelle e lui le portava il copione che stava studiando e fingeva di avere, come nel passato, bisogno dei suoi insegnamenti. “Sì, fingevo di non ricordarmi la parte per darle la soddisfazione di aiutarmi. È uno dei ricordi più teneri che ho”. Punto di riferimento di una vita intera Rossella Falk, da quando Umberto, ventenne, entra nella Compagnia dei Giovani e lei gli correggeva la pronuncia del nord segnandogli sul copione le vocali aperte e quelle chiuse quando sbagliava.
Ma Orsini non è uno che si crogiola nella nostalgia. Così con Rossella, così con Enrico Maria Salerno, altro grande amico perduto. E Gianni Santuccio e Romolo Valli e Giorgio De Lullo e Annamaria Guarnieri e Luchino Visconti e Luca Ronconi… “Il tempo?” riflette. “Mah! Non lo sento passare a dire la verità. Da quarant’anni mi dedico quasi esclusivamente al teatro. Sono chiuso nel mio mondo e la vita è diventata un riflesso del lavoro. Sono stordito da parole di altri che diventano mie. È come se vivessi su una nuvola viaggiante e evito di guardare sotto. Anche se so cosa c’è, là sotto”. Medita un po’ fissandosi le scarpe e aggiunge: “Forse se avessi figli… figli che a questo punto andrebbero per i sessanta… aiuto… sì, allora lo sentirei il Tempo. Ma le donne che ho avuto hanno finito col fare figli con altri uomini, a me non resta che la parte dello ‘zio’, e non mi dispiace per niente”. Mi fa vedere la foto di uno di questi “nipoti” cui è molto legato, incorniciata sullo scaffale della libreria, ma si tratta di una vecchia foto, quando il ragazzo era ancora piccolo. Allora basta parlare del tempo. Torniamo al teatro. Alla Compagnia che ha fondato nove anni fa, la Compagnia Orsini. Un salto nel buio. Un grande rischio. Per produrre i propri spettacoli e quelli degli artisti in cui crede. In un momento di grande crisi. Una follia? “Non esattamente o non solo. Qualcosa che m’inorgoglisce, una responsabilità complessa che è però per me un vanto, e che mi riporta agli inizi, quando entrai a far parte della Compagnia dei Giovani cui devo tanto. Certo economicamente mi costa molto, anche se ha un punteggio massimo che serve a ottenere i contributi ministeriali. Io faccio spettacoli dispendiosi però. Quindi, anche se vanno bene, finisco col rimetterci. Ma che importa? Il privilegio di far lavorare maestranze di cui mi fido e gli attori e i registi che stimo è impagabile”. E poi c’è, come ha scritto sul sito della Compagnia: “La libertà di sentirsi fuori dagli schemi ma dentro un sistema distributivo senza il quale i talenti giovani che stanno con me non avrebbero visibilità. Ho attinto tanto da tutti quelli che mi hanno preceduto e vorrei lasciare questa eredità a quanti camminano con me ora e cammineranno un giorno senza di me ma carichi, come lo saranno, di una conoscenza che viene da molto lontano e che io mi sento felice di trasmettere”.
Sul palcoscenico è felice quando ha un antagonista con cui ha stabilito un sodalizio che viene da lontano. Con Franco Branciaroli che è con lui di nuovo nei Ragazzi irresistibili – lo stanno provando adesso – e che recentemente è stato con lui il protagonista di un irresistibile Pour un oui ou pour un non della sofisticata Nathalie Sarraute. “E anche di un Otello. Dunque un classico l’ho fatto! Ero Iago. Perché m’interessano i perdenti, il lato oscuro dell’umano”.È felice quando è in scena con l’assai più giovane Massimo Popolizio, indimenticabile compagno nel fortunato Copenaghen, dell’inglese Michael Frayn, in cui due protagonisti della fisica come Niels Bohr e Werner Karl Heisenberg si confrontano su temi a dir poco complessi intorno alla possibilità della bomba atomica nel nazismo. “Spettacolo difficile che fu accolto benissimo, perché alla fine in teatro vince l’attore, quel che l’attore riesce a comunicare non solo del testo, ma direi soprattutto di sé. Come quando portai in Italia Il nipote di Wittgenstein di Thomas Bernhard. Ecco, tutti lo bollarono come ‘difficile’ la prima volta che l’ho fatto, venticinque anni fa, e io mi chiedevo perché non fossi riuscito a superare lo scoglio, perché non arrivava. Dieci anni dopo funzionò. Era esattamente lo stesso testo, ma stavolta il commento generale fu ‘commovente’. Cos’era cambiato nel frattempo? Io, io ero cambiato. Non ero più soltanto tecnicismo e lucidità, ero diventato umano, avevo avuto esperienze dolorose, la perdita di Santuccio per esempio, che avevano lavorato dentro di me. Perché l’esperienza del tuo vissuto incide su come ti muovi, parli, sul gesto che fa la tua mano, su tutto!” E infatti al Premio Ubu, che ricevette per quel lavoro, ebbe a dire: “Qui ho deciso di ‘essere Bernhard’ e quindi più che fare un personaggio sono me stesso che parla con le parole di un autore grandissimo, che finirà comunque per prevaricarmi e quindi rappresentarsi”.
È ancora più felice quando è solo in scena, come nelle Memorie di Ivan Karamazov. “Allora, quando sei da solo, sei totalmente libero e non devi aspettare che l’altro ti tiri la palla ed essere pronto a rispondere come in una partita a tennis”. E però con I ragazzi irresistibili è felice al massimo grado, perché è riuscito a coinvolgere, in qualità di regista in questo caso, anche Popolizio. Perciò i due ragazzi irresistibili della commedia, incarnati da lui e Branciaroli, diventano tre con Popolizio, un trio decisamente imperdibile. Come se non bastasse si è anche impegnato a girare un nuovo film, pur se sosteneva di aver chiuso con cinema e televisione. Si tratta di Trifole del ventisettenne Gabriele Fabbro. Perché il copione è interessante, Fabbro è un giovane di talento e a Umberto i giovani di talento piacciono molto. Lui sarà il protagonista: un cercatore di tartufi con l’Alzheimer. Nel cast anche Margherita Buy. “Non è facile alla mia età fare un film da protagonista”. E ricorda ridendo: “Quando tre anni fa accettai di lavorare in Marcel di Jasmina Trinca, al suo esordio come regista, facevo la parte del nonno e avevo una sola fondamentale battuta: ‘Il cane era di tuo padre’. L’intera troupe però si mostrò estasiata non avendomi mai visto a teatro! E non gliene faccio una colpa, sia chiaro. Oggi a teatro non ci vengono nemmeno gli intellettuali. Bei tempi quando si contava sul passaparola, quando ci si diceva l’un l’altro: ‘Non hai ancora visto quello spettacolo? Devi assolutamente andare a vederlo!!!’. O quando il turismo era anche culturale e ci si metteva in viaggio verso un’altra città solo per assistere a una prima. Cosa che all’estero ancora succede”.
Orsini non ama parlare del suo privato, ma arrivato il momento dei saluti gli chiedo di straforo un autoritratto: “Sono una specie di gatto, un solitario. Per questo, pur avendo una relazione importante, con una donna molto più giovane per altro, e questo mi fa sentire un poco in colpa, preferisco vivere da solo. Le mie miserie quotidiane, insomma, mi piace tenermele per me. Come Mario Monicelli, che conoscevo bene, uno straordinario grande vecchio che, quando si rese conto di non essere più autosufficiente, ha preferito farla finita. Lo capisco benissimo. Per il resto, se serve una frase che mi riassuma, eccola: mi sento un artigiano di qualità. Niente di più”. Grazie Umberto.