Alberto Sordi nel “Marchese del Grillo” di Mario Monicelli (Olycom) 

Gran ritorno in libreria

Lode a Script, la rivista di quelli che scrivevano il cinema

Andrea Minuz

Anticipava l’ondata della serialità, veniva dal futuro. Per rimettere al centro il copione e combattere la buona battaglia contro i registi autoreferenziali sovvenzionati dallo stato

Pubblichiamo in anteprima un estratto dall’introduzione di Andrea Minuz al primo volume di “Script” (con scritti tra gli altri di Rodolfo Sonego, Ennio Flaiano, Ettore Scola, Mario Monicelli, Vincenzo Cerami, Bernardo Bertolucci, Pupi Avati, Mario Gallo, presentati in coda all’introduzione). La rivista iniziò le sue pubblicazioni nel 1992 e chiuse nel 2011, dopo 50 numeri. Torna in libreria a fine novembre, con una raccolta antologica divisa in tre volumi tematici.

 



"All’alba degli anni Duemila, quando cominciai a tenere corsi di Storia del cinema all’Università, i miei studenti erano fan di David Lynch e Tarantino, oppure ostentavano passioni esotiche, Kim Ki-duk, Tsai Ming-liang, Wong Kar-wai. Anche se qualsiasi cosa successa prima di “Pulp Fiction” fluttuava per loro in uno spazio-tempo indefinito e remoto, erano ancora dei cinephile vecchio stile. Le cose però stavano cambiando, e stavano cambiando in fretta. Più o meno tra la quinta stagione dei “Soprano” e la prima di “Lost”, i registi iniziarono a essere sostituiti dalle serie tv. I loro nuovi idoli erano gli sceneggiatori, anche se non sapevano bene chi fossero, né che faccia avessero. L’Autore, con la A maiuscola, nome, cognome, relativa “poetica” a seguire, era stato rimpiazzato da “gli sceneggiatori di Lost”, “gli sceneggiatori di Breaking Bad”, “gli sceneggiatori del Trono di Spade”. Tutti quelli che prima volevano diventare registi adesso volevano diventare sceneggiatori. Volevano diventare showrunner, come Nic Pizzolatto, il creatore di “True Detective”, anche se non avevano idea di cosa facesse poi questo showrunner. In ogni caso, si era entrati in un’altra era. Il New York Times aveva definito “I Soprano” la “più grande opera della cultura pop americana dell’ultimo quarto di secolo”, mentre Obama spostava il suo speech al Congresso per permettere a tutti di vedere l’ultima puntata di “Lost”. “Le serie televisive sono i nuovi romanzi”, era una di quelle frasi che si sentivano ripetere un po’ ovunque. Parole come “mercato”, “target”, “audience”, per non dire di “storytelling” e “narrazione” – termini eretici e impronunciabili per la vecchia cinefilia – erano ormai parte di un lessico condiviso. La nuova golden age della serialità televisiva aveva diffuso una maggiore sensibilità industriale verso la costruzione dei prodotti audiovisivi. Aveva rimesso al centro del nostro rapporto con i film le abilità del narratore, la drammaturgia, la struttura delle storie, la “pagina scritta”. Cose scontate a Hollywood, un po’ meno in Europa, ancora meno nel paese dove capita di leggere, magari anche su un quotidiano, “è un film con una bella scenografia”, per dire “sceneggiatura”. Ecco perché “Script” è una rivista che viene dal futuro. Le idee che circolavano lì erano davvero diverse rispetto a tutto quello che si diceva del cinema italiano e anticipavano la grande ondata della serialità (un ricordo novecentesco: compro un numero di “Script” in una Feltrinelli del centro, incuriosito dal titolo, dalla copertina, non saprei. Ebbro di volumi che esaltavano il genio del regista, come i celebri fascicoletti della collana “Il Castoro”, oppure tramortito da lugubri elucubrazioni semiopsicanalitiche sui film, ci trovo dentro cose mai lette prima: l’idea che la regia è un iceberg e la parte importante sta sotto; la convinzione che gli sceneggiatori sono i veri creatori del film o almeno che senza una buona sceneggiatura non si va molto lontano; che il cinema è uno sport di squadra e il film un prodotto pensato in funzione di un investimento e di un mercato, non il trastullo narcisistico di registi presuntuosi che giocano a fare Cassavetes con i fondi pubblici, eccetera).

Il primo numero di “Script” esce nel 1992, grazie alla caparbietà di Dino Audino, fondatore e agitatore della rivista. Un’impresa un po’ carbonara, perché nessuno in Italia, alla fine degli anni Ottanta, parlava di sceneggiatura. All’inizio non c’è una vera redazione. Le riunioni si fanno a casa degli sceneggiatori: Francesca Marciano, Domenico Matteucci, e poi ancora Franco Bernini, Angelo Pasquini, Enzo Monteleone, Giuliana Muscio, Silvia Napolitano. Molti erano discepoli e allievi di Rodolfo Sonego, “il cervello di Alberto Sordi”, che ogni tanto si affacciava nelle riunioni. Altri erano legati a Furio Scarpelli, o venivano dalla bottega di Benvenuti e De Bernardi. L’idea di “Script” era semplice: rimettere al centro del processo produttivo il copione. Non incolpava la televisione di aver devastato il cinema italiano, non se la prendeva con Hollywood, il mercato, la distribuzione. Non si scagliava contro il pubblico, ignorante, insensibile, incapace di apprezzare il grande cinema. “Script” se la prendeva con un cinema d’autore inguardabile, insostenibile, interamente sovvenzionato dallo Stato, che nel corso degli anni Ottanta aveva perso ogni capacità di dialogare con lo spettatore, e più s’inabissava più reclamava aiuti e finanziamenti pubblici. Riproporre una narrazione forte, non delegare alla sola regia tutto il peso del film, significava gettare le basi di una ricostruzione di sistema del cinema italiano. “Script” non era contro il cinema d’autore, ma contro l’ideologia del cinema d’autore. Contro la “malintesa autorialità”, come scriveva Dino Audino in uno dei suoi primi editoriali. La rivista attaccava le logiche parassitarie, la vocazione assistenzialista, la mentalità antindustriale del cinema italiano che aveva prodotto e sorretto l’ideologia dell’autore. Quel diluvio di film scaturiti dal celeberrimo “articolo 28” della Legge Corona del 1965, e che negli anni Ottanta, la golden age del finanziamento statale a fondo perduto, era diventato riparo e approdo di registi vecchi e giovani, alle prese con opere prime e opere della maturità, tutti convinti che lo Stato dovesse farsi carico della loro incapacità di trovare un pubblico. Una specie di vasto reddito di cittadinanza autoriale. Naturalmente l’articolo 28 ha fatto anche cose buone: è servito a far esordire validi registi, come Francesca Archibugi, Mario Martone, lo stesso Salvatores, nomi che si perdono però in un oceano di sconosciuti che non hanno più dato segni di vita.

Col secondo numero dedicato alla televisione “Script” giocava a carte scoperte, attirandosi tutte le antipatie possibili del mondo cinematografico (si ricorderà che la televisione era in quel momento simbolo malefico dell’ascesa di Silvio Berlusconi). “Script” invitava a guardare senza pregiudizi i fenomeni popolari che in tv stavano rivitalizzando la scrittura seriale. Invitava a lasciarsi alle spalle la distinzione tra cinema e televisione (anche perché senza l’ingresso della televisione negli anni Ottanta sarebbe scomparso quasi tutto il cinema italiano). Non esistono “il cinema” e “la televisione”, esiste un sistema audiovisivo che mette entrambi nelle condizioni di creare una solida industria integrata. Invece, alla metà degli anni Novanta, cioè all’alba di Internet, in Italia si guardava ancora al cinema e alla tv nella logica di un’estenuante guerra di trincea. Due opposti in lotta tra loro: uno investito di una missione artistica, l’altro promotore di istupidimento generale. In quel momento in tv c’era “Il Maresciallo Rocca”. Faceva dieci milioni di spettatori a puntata, superava il 50 per cento di share, riusciva a battere persino il Festival di Sanremo. Sarebbe stato il caso di capire perché, anziché guardarlo col sopracciglio alzato o liquidarlo come robetta per deficienti. Ma la televisione era ancora l’alieno, l’intruso, qualcosa che non c’entrava nulla col cinema. La televisione era l’alibi perfetto: se il cinema scompariva era colpa della televisione.

Pur essendo collocata a sinistra, la rivista sosteneva che si poteva e doveva immaginare un’altra politica culturale e un’altra sinistra: non ostile al mercato, non chiusa, conservatrice, elitaria, corporativa, terrorizzata dai cambiamenti della modernità. In una chiacchierata del 1994 tra Dino Audino e Mario Gallo, produttore, uomo di cinema, cresciuto nell’area della sinistra riformista, emergevano gli antichi fantasmi di una sinistra italiana che “anche se di nome si chiamava marxista, in realtà veniva più da Hegel e da Gentile”. “Da settant’anni, la risposta che si dà agli americani è di tipo idealistico e antindustriale”. La colonizzazione americana era del resto (ed è ancora oggi) uno dei grandi alibi dell’ideologia del cinema d’autore, che “Script” smontava numero dopo numero.

Anche i celeberrimi Corsi di Script/Rai, partiti nel 1997 per aggiornare gli strumenti degli sceneggiatori di cinema e formarne una nuova leva per la televisione, furono accolti con dileggio e ironia (figuriamoci se la scrittura si può insegnare!). Il fatto che le scuole di creative writing fossero entrate nelle Università americane grossomodo cento anni prima, il fatto che questa cultura della pianificazione nelle sceneggiature, nel teatro, nei romanzi, qualche risultato dai e dai l’aveva pur dato, non sembrava sfiorare i detrattori (anche la Holden di Baricco, aperta più o meno in contemporanea, veniva sbeffeggiata un po’ da tutti). Dai Corsi Script usciranno tutti i più importanti sceneggiatori di fiction e poi serie di questi anni, andando però per lo più a nutrire le file di Mediaset, secondo una economia circolare tipica della Rai: li formiamo coi soldi pubblici, li mandiamo a lavorare per la concorrenza. Sono passati trent’anni da questi dibattiti. Il sistema audiovisivo è cambiato a una velocità inimmaginabile. Tutto è diverso, ma ahimè tutto è anche così uguale: ci si confonde tra “scenografia” e “sceneggiatura”, la cultura industriale scarseggia, il film è del regista, i finanziamenti statali, anche se non irresponsabili come trent’anni fa, sono ancora pensati in funzione degli autori, non dei copioni. E non è coi Sorrentino, Garrone, Rohrwacher che si regge un sistema. Guardate cosa ha fatto la Corea del Sud, per esempio. Negli stessi anni cui partivano i Corsi Script, lì si gettavano le basi della “korean wave”. Anziché alzare muri e dazi contro gli americani, il governo sudcoreano accettò la sfida. Puntò tutto sulla formazione e sul finanziamento di start-up innovative che fossero in grado di replicare i concept degli americani. Nel 1994, il presidente Kim-Young-sam prese atto che gli introiti di “Jurassic Park” superavano quelli della Hyundai, orgoglio nazionale. Era chiaro che bisognava puntare su quello. Diventare esportatori di prodotti culturali in tutto il mondo. Con il cinema, le serie, la musica pop, tutto integrato in un’industria dell’entertainment con aspirazioni globali (il successo di “Squid Game” o anche di “Parasite” non è pensabile senza la strada spianata da anni di K-pop). Nel 1999 esce il primo blockbuster coreano, “Swiri”, una specie di Bond-movie molto hollywoodiano, ma con climax allo stadio dove sta per esplodere una bomba, poco prima della partita Corea del Nord – Corea del Sud. Incassa più di “Titanic”. La Corea diventa uno dei pochi paesi a mettere in difficoltà la scalata globale del film di James Cameron. La strada era giusta. “Script” è stato allora la nostra sliding door. La Corea, giovane democrazia desiderosa di trovare il proprio posto nel mercato, mise in pratica in quegli anni più o meno tutte le proposte che circolavano in quella rivista. Noi no".

“Da una buona sceneggiatura può venir fuori un film ottimo, buono, mediocre, mai cattivo. Da una cattiva sceneggiatura viene fuori sempre un cattivo film. Io mi riconosco tanto poco autore dei film a cui partecipo come sceneggiatore che mi diverto e sorprendo moltissimo quando li proiettano. La sceneggiatura è un progetto. Un progetto che va realizzato. Ma è un progetto così opinabile che può essere interpretato in infiniti modi. Può essere rispettato nella lettera e tradito nello spirito, con l’intrusione di attori inadatti e di ambienti sfocati. Ne risulta che il lavoro dello sceneggiatore, quasi sempre, è innaturale e ingrato: una trasfusione di idee che non salva il malato”. (Ennio Flaiano)

“Il fatto di dedicarmi a un’attività ignorata – o oscuramente contemplata – dai maggiori dizionari della lingua italiana, lasciò per molti anni i miei genitori sospesi in un limbo di incertezza e di allarme per quanto riguardava l’avvenire del loro secondogenito. Il primo, grazie a Dio, studiava per fare il medico. Ma il mistero che ammantava di ombre il mestiere dello sceneggiatore non si addensava soltanto in quell’interno familiare: anche a distanza di anni ho potuto constatare che l’ignoranza di quella parola era assai diffusa sia nei tessuti urbani sia nelle campagne e suscitava indiscriminati stupori tra collaboratrici domestiche e fiscalisti, pastori lucani e principi dell’informazione. E, in epoca più recente, il giornalista Giorgio Bocca in un suo editoriale su Repubblica, facendo polemico riferimento al film ‘Maledetti vi amerò’, ha scritto: ‘…mi capita di leggere uno stralcio della scenografia’”. (Ettore Scola)

“Noi alle spalle non avevamo una grande letteratura nazionale, né di questo secolo né di quello precedente, tant’è vero che dovevamo scrivere i film, non adattarli dai romanzi come avveniva negli altri paesi. E poi non avevamo neanche un cinema a cui rifarci, dei modelli da seguire. Non esisteva, infatti, nessun romanzo in cui l’italiano medio potesse rispecchiarsi: tutta la letteratura tra le due guerre era stata tardo dannunziana. Tutti i romanzi cominciavano con: ‘Buongiorno ella disse’. Se avessimo fatto al cinema quella roba lì non saremmo durati tre mesi. Negli anni Cinquanta avevamo una quindicina tra attori e attrici capaci di attirare il pubblico. E in quegli anni l’attrice o l’attore che voleva lavorare andava dallo sceneggiatore, cioè dove nasceva il film, a chiedere la parte. Allora quando chi scriveva il film aveva pronto il copione, andava dal produttore e diceva: ‘Guardate, io ho questa storia, ci sono già gli attori’. E il produttore allora prendeva atto e aggiungeva: ‘Ora vediamo chi c’è libero come regista’, e cominciava a elencare: Monicelli, Comencini ecc. E il film si faceva così, in questa sequenza: storia, attori, regista. Dopo una quindicina d’anni è successo che gli attori che avevano copertine sui giornali, soldi in banca, ville con piscina, hanno cominciato a pensare cose del tipo: ‘Ma chi sono io? Ma se ho tutto questo valgo qualcosa! Sono io il centro del film’. E a quel punto è cominciata la rovina. Gli attori prima, e poi a ruota i registi, hanno cominciato a voler fare i loro film. Tutti si mettevano a scrivere di notte da soli, venivano da noi sceneggiatori dicendo: ‘Ho questa idea, ho questo soggettino, ho questo amico che mi ha raccontato questa storia’. Oggi chi scrive ha capito che se vuole emergere deve fare una qualsiasi sciocchezza, ma come regista. C’è una mia amica giovane che ha fatto un piccolo documentario su una città del Sud, girato con una pellicola secondo me scaduta, ma, insomma, lei da quando ha fatto questa cosa, che secondo me non si vede proprio niente, va in giro per il mondo, il festival di su, quello di giù, è regista, capisci, è autrice. Queste sono le vere tragedie, quelle che creano gli spostati nella vita, i finti autori”. (Rodolfo Sonego)

“Il nostro tipo di prodotto era molto apprezzato dal pubblico italiano. Poi eravamo richiestissimi e non abbiamo mai avuto difficoltà, né io né i miei colleghi: Comencini, Risi, Germi. Quest’ultimo, che ritengo come minimo all’altezza di Fellini e Antonioni, fra l’altro era l’unico regista che avesse una vera mentalità imprenditoriale. Per quanto riguarda il nostro atteggiamento, posso dire che volevamo fare film che piacessero, che divertissero e che avessero una diffusione più larga possibile. Con questo non voglio dire che eravamo pronti a tutto. Insomma, eravamo degli artigiani che lavoravano con lo spirito di chi tiene molto alla qualità del proprio mestiere, di chi non è disposto a fare una qualsiasi cazzata. Poi, se uno aveva qualcosa da dire, che la dicesse, ma al maggior numero di persone possibile. Non fregandosene del pubblico, come cercavano di indurti a fare i vari Miccichè, Aristarco e compagnia bella. In quegli anni, gli anni Sessanta, avere un occhio anche per il pubblico era un’accusa grave”. (Mario Monicelli)

“Era il 1968 e stavano proiettando il mio primo film, ‘Balsamus’, il cinema era il Salone Margherita di Roma, che allora era un cinema d’essai. Io con i miei amici stavamo nell’atrio ad aspettare la gente che usciva per vedere le reazioni al film. E quando finalmente gli spettatori venivano fuori incazzati e qualcuno commentava: ‘Che stronzata!’, noi ci guardavamo complici e ammiccanti: avevamo colpito il pubblico borghese. Ecco, in quel periodo e negli anni immediatamente successivi uscirono decine, centinaia di film che con questa ideologia della provocazione antiborghese misero in crisi il rapporto tra cinema e pubblico. Sono gli anni in cui Memè Perlini, al teatro Quirino, si presenta in scena nell’Otello con grandi ceste piene di merluzzi e comincia a tirarli sul pubblico insultandolo, col risultato di essere applaudito tra grandi risate delle signore impellicciate e ingioiellate. Perché la verità è stata che il pubblico borghese annullava col consenso il valore della provocazione di Perlini. Ma se in quel caso la rottura veniva evitata, in seguito questa politica portò a una frattura insanabile tra autore e utente. Il tutto avallato dalla responsabilità gravissima della critica che elogiava lo sperimentalismo e il testo criptico. La cosa paradossale è che questa operazione critica era condotta dalla sinistra che in teoria avrebbe dovuto educare il pubblico di massa e invece supportava uno snobismo e un elitarismo che sottraeva al pubblico ogni strumento di comprensione. Insomma, una strategia di terrorismo culturale, condotta anche con un linguaggio critico incomprensibile almeno quanto incomprensibili erano i film recensiti, che ha avuto come effetto duplice quello di alimentare la divaricazione tra due pubblici: quello dei cinefili assatanati e la stragrande maggioranza degli spettatori che si sono rivolti a un cinema intelligibile, abbandonando quello italiano”. (Pupi Avati)

“Mi sono chiesto molte volte cosa significava per me il rigore, in quel periodo, e credo di poter dire che era principalmente un rifiuto, il rifiuto di avere a che fare con il pubblico, di lasciarsi vedere e giudicare, di cercare e di venirne ignorati. Come quando si è innamorati e si ha paura di essere respinti dall’oggetto del proprio amore. Avrei poi capito, leggendo Barthes, che cos’è il ‘piacere del testo’. A causa del moralismo politico rifiutavamo questo piacere, quanto c’è di sensuale nel rapporto tra autore e pubblico. Addirittura, il piacere mi sembrava di destra”. (Bernardo Bertolucci).

“Sia i film di Godard che quelli di Antonioni sono così pieni di extra-testo che, se un giovane spettatore di oggi volesse vederli, avrebbe bisogno, per poterli decifrare, di consultare un manuale apposito, oppure di leggersi la collezione dell’Espresso degli anni Sessanta. Mentre il vero grande cinema, quello di De Sica e Rossellini, non ha bisogno di alcun supporto. I vecchi film di De Sica o di Rossellini sono così diretti, immediati, coinvolgenti, che dopo un minuto hai già dimenticato che sono ambientati negli anni Quaranta o Cinquanta, ti sembra che gli avvenimenti siano accaduti ieri, quasi sotto i tuoi occhi. Ho rivisto recentemente ‘Il bandito delle 11 di Godard’ e ‘La strategia del ragno’ di Bertolucci, e devo confessare che non riuscivo a trattenere le risa. Come è possibile rivedere quei film, oppure ‘La cinese’, riascoltare quei dialoghi così ideologici, così saturi di scempiaggini paurose e involontariamente comiche, senza contorcersi dalle risate? Sono convinto che pensare di risolvere i complessi problemi del cinema italiano puntando tutto sulla difesa del cinema d’autore e lasciando ad altri i problemi del mercato (guardato, peraltro, con disprezzo), sia stato uno dei più clamorosi errori degli autori italiani”. (Vincenzo Cerami)

“Non bisogna essere contro l’autore ma c’è un fatto fondamentale da sottolineare: che nessuno è autore a priori. Prima c’è il regista che fa i film, che a posteriori verrà giudicato autore per quello che avrà fatto. Ho passato otto anni al Centro Sperimentale, quando ci insegnavo, a battagliare contro questa concezione che nella scuola era considerata scontata e secondo cui noi dovevamo formare non dei professionisti ma degli artisti. Ma quali artisti, dicevo io, artisti si nasce, non si diventa. Io posso insegnarti a scrivere, se poi sei Leopardi scriverai da Leopardi, se no, sei Mario Gallo e scriverai come Mario Gallo. Però se Leopardi fosse nato dalle mie parti nella Sila e fosse stato analfabeta, non sarebbe mai diventato Leopardi. Quindi il problema è dare gli strumenti, insegnare il mestiere, dare una cultura, perché sai quanta gente ho conosciuto che voleva fare il regista e non aveva letto neppure un classico? Insomma, diamo quello che la scuola può dare e poi, che Dio ce la mandi buona, se c’è un autore lo vedremo a posteriori. Noi, invece, ai nostri tempi abbiamo fatto un’associazione di autori, la ANAC, che avrebbe dovuto essere più umilmente un’associazione di registi e di sceneggiatori. Perché di autori quanti ce ne saranno in Italia, dieci? E noi vogliamo organizzare un’industria cinematografica su dieci autori? E’ come se un editore volesse vivere solo con i grandi scrittori: chiuderebbe subito. Sono cose che sembrano così elementari, eppure io dico queste cose da vent’anni quasi in solitudine”. (Mario Gallo)

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