Un vaccino fasullo per Hitler
Un farmaco inutile contro il tifo: lo rifilò alle SS lo scienziato internato Ludwik Fleck. Un sabotaggio clamoroso
Agli inizi di dicembre 1943, un uomo varca l’ingresso del campo di concentramento di Buchenwald. Viene destinato al cosiddetto “Blocco 50”. A differenza del campo di Auschwitz da cui proviene, qui potrà dormire in un letto con lenzuola e coperte, anziché ammucchiato con altri internati, e ricevere razioni di cibo leggermente più abbondanti. Un ufficiale lo accoglie dandogli del lei, e lo invita a entrare in una porta con la scritta “Divieto di accesso”. Dentro la porta lo attende un laboratorio, riccamente attrezzato, in buona parte con strumentazione sottratta alle migliori università europee. Qui, per ordine del capo dell’ufficio igiene del servizio medico delle SS, Joachim Mrugowsky, è stato trasferito il centro dove produrre i vaccini anti-tifo destinati a proteggere l’esercito tedesco, dopo che i bombardamenti britannici hanno distrutto la sede dell’istituto a Berlino. Ad accogliere l’uomo è l’ufficiale delle SS Erwin Ding-Schuler, un giovane medico con ambizioni di carriera accademica che vede in questo laboratorio una grande opportunità personale. Grazie al vaccino anti-tifo che uscirà da Buchenwald, spera di riuscire a tenersi lontano dal fronte di battaglia. E dopo la guerra, magari a diventare professore universitario. E il nuovo arrivato è proprio ciò di cui ha bisogno. Per quest’ultimo, lavorare nel laboratorio del Blocco 50 è l’unica possibilità per tentare di salvare sé e la propria famiglia.
Ma chi è il nuovo arrivato? Ludwik Fleck è un microbiologo polacco, nato a Leopoli da una famiglia ebrea nel 1896. Quando scoppia la Prima guerra mondiale ha diciotto anni e ha appena iniziato a studiare medicina. Viene arruolato nel corpo medico, dove lavora anche Rudolf Stefan Weigl, originario dell’attuale Repubblica Ceca, che dirige il laboratorio militare di Przemysl. Dopo la guerra Weigl prende con sé a lavorare il neo-laureato Fleck. Il loro obiettivo è comprendere e combattere il tifo (oggi noto più precisamente come tifo esantematico). La malattia è causata dal batterio Rickettsia prowazekii attraverso i pidocchi: causa febbre alta, esantemi maculari, forti dolori, deliri allucinatori e varie complicazioni tali da portare in alcuni casi anche al decesso. Con la Prima guerra mondiale le epidemie di tifo hanno cominciato a flagellare l’Impero, soprattutto nella zona balcanica. La portata della minaccia è divenuta evidente ai medici dell’esercito tedesco fin dalla battaglia di Tannenberg, dove sono catturati oltre 92 mila soldati russi che hanno combattuto (così un ufficiale russo) “tre nemici: i tedeschi, i pidocchi e i propri generali”. In Serbia, l’epidemia di tifo all’inizio della guerra fa 120.000 morti su una stima di 500.000 infettati, facendo una strage anche tra il personale medico.
Un giorno, lavorando in laboratorio, Weigl si ferisce con un vetro che era stato a contatto con germi del tifo. Seppur prostrato dalla malattia, non perde l’occasione di sperimentare su di sé, dando indicazioni alla moglie di collocargli sul corpo gabbiette di pidocchi pronti ad alimentarsi del suo sangue: l’esperimento riesce perfettamente allorché i pidocchi soccombono dopo evidenti segni di infezione. Negli anni successivi, Weigl mette in piedi una sofisticata macchina organizzativa (dettagliatamente ricostruita da Arthur Allen nel libro Il fantastico laboratorio del dottor Weigl, Bollati Boringhieri), che ha al centro una curiosa figura, i cosiddetti “alimentatori”. Si tratta di volontari, inizialmente perlopiù tecnici di laboratorio, alle cui gambe sono fissate gabbiette di pidocchi per alimentarli di sangue umano. A questi pidocchi viene successivamente inoculato un impasto prelevato da pidocchi infetti. Da questi ultimi i tecnici specializzati estraggono gli intestini, li centrifugano e li diluiscono in una soluzione salina contenente fenolo in modo da uccidere i batteri. “I batteri morti non erano più in grado di contagiare una persona, ma le proteine intatte in essi contenute stimolavano il sistema immunitario dell’individuo vaccinato a proteggerlo dal tifo”. Weigl è molto cauto nel testare il vaccino su esseri umani, e inizialmente non vaccina neppure il personale del proprio laboratorio. Sono le autorità polacche a incalzarlo per ottenere le sue dosi, e alla fine degli anni Venti il suo laboratorio è ormai meta di continue visite di colleghi da tutto il mondo, che Weigl generosamente rifornisce di germi del tifo.
Nel frattempo, con grande dispiacere, Weigl ha fatto capire a Fleck che le sue prospettive di carriera accademica sono quasi nulle. Così le strade dei due si dividono. Una borsa di studio di sei mesi presso l’Istituto di Sieroterapia a Vienna apre a Fleck nuovi orizzonti intellettuali. Frequenta, tra l’altro, le lezioni di Freud a Vienna e di Bergson a Parigi; qui visita anche l’Istituto Pasteur. Psicologia, filosofia, medicina: le sue idee originali sulla scienza nella società si sviluppano in questo periodo all’intersezione tra queste discipline. Quando torna a Leopoli, diviene direttore del laboratorio batteriologico dell’Ospedale per la Sicurezza sociale. Conoscenti e colleghi lo descrivono come un uomo alto e distinto, sempre molto curato nel vestire. Nello stesso periodo, alla fine del 1927 presenta alla Società di Storia della Medicina di Leopoli (un circolo frequentato da scienziati di varie discipline) il suo primo contributo filosofico, “Alcune caratteristiche specifiche del modo di pensare in medicina” (oggi disponibile in italiano nella raccolta curata da F. Coniglione, Stili di pensiero, Mimesis). Fleck mette in luce aspetti quali l’intuizione e la capacità di sintesi del medico, l’importanza di imparare a “vedere” regolarità, il ruolo della conoscenza tacita e della manualità, sostenendo che il sapere medico non è una meccanica applicazione di regole astratte. E il lavoro del collega Weigl sul tifo ne è la dimostrazione: la sua “catena di montaggio” di pidocchi, volontari e inoculatori produce un vaccino abbastanza efficace, ma lui stesso non ha capito del tutto il perché.
Il 1935 dovrebbe essere, dal punto di vista intellettuale, un anno memorabile. Fleck pubblica infatti in tedesco il suo primo (e unico) libro, “Genesi e sviluppo di un fatto scientifico”. Il titolo parrebbe suggerire un caso di studio specifico, e infatti l’autore parte da un esempio che conosce bene: l’evoluzione storica del concetto di sifilide. Ma da lì spicca il volo per un ambizioso saggio di sociologia della conoscenza scientifica. Seguendo i tortuosi percorsi storici di questo concetto, Fleck afferma che ciascun fatto scientifico acquista significato nell’ambito di un determinato “stile di pensiero”. Diverse concezioni di sifilide portano a escludervi o includervi alcuni casi che potrebbero altrimenti essere considerati affini alla varicella o ad altre malattie. Fleck scopre inoltre che i differenti “collettivi di pensiero” (cioè le comunità che condividono un certo “stile di pensiero”) “si intersecano ripetutamente nel tempo e nello spazio”. Attorno a un determinato stile di pensiero gravita infatti una cerchia esoterica (quella degli specialisti) e una cerchia essoterica di non specialisti. Lo stile di pensiero trae forza proprio dal continuo scambio tra queste cerchie; in particolare, è proprio nell’ambito della cerchia essoterica (cioè a livello “popolare”) che gli stili di pensiero si presentano in modo più nitido e incontrovertibile. Tra gli astrofisici possono esservi dubbi e distinguo, osservazioni e dati ambigui: oggi per il grande pubblico il “Big Bang” rappresenta l’origine dell’Universo, punto e basta. Per i fisiologi possono esservi “falsi positivi”, disposizioni non nitide dei batteri nel preparato microscopico, test che danno risultati negativi anche in pazienti classificati come infetti; per il pubblico, la sifilide è la malattia della spirocheta pallida. Il ricercatore, in quanto simultaneamente membro di diversi collettivi di pensiero (la comunità di specialisti a cui appartiene, ma anche un partito, una classe sociale, un certo milieu culturale), si trova al centro di questi continui scambi. Fleck mostra che numerosi temi che si ritrovano al centro della moderna concezione di sifilide provengono da idee collettive (“protoidee”, le definisce): l’idea religiosa di “malattia come punizione della libidine” o l’antica idea popolare del “sangue sifilitico”. Non tenere conto di questo carattere collettivo della conoscenza, secondo Fleck, “è paragonabile al tentativo di esaminare una partita di calcio analizzando solo i calci al pallone dei singoli giocatori. Tanto che la sua conclusione appare ben più radicale di quella di molti sociologi della scienza contemporanei. Il conoscere è l’attività dell’uomo sottoposta al massimo condizionamento sociale e la conoscenza è la struttura sociale per eccellenza”.
Se queste idee, in particolare i concetti di “stile” e “collettivo di pensiero” vi suonano familiari, non stupitevi, ma capirete meglio più avanti il perché. Per il momento infatti siamo ancora nel 1935, e il libro di Fleck passa come una meteora nel momento sbagliato, sia dal punto di vista biografico che di storia del pensiero. In quello stesso anno infatti, in base a una nuova legge, Fleck perde in quanto ebreo il proprio incarico dirigenziale all’ospedale. Per gli stessi motivi il libro deve essere stampato da un editore svizzero a Basilea, anziché da un editore tedesco come l’autore sperava. Fleck è un outsider tanto dal punto di vista accademico quanto politico-sociale. Se da un lato questo gli permette di “vedere” con chiarezza analitica ciò che molti danno per scontato, dall’altro lo penalizza. In più, molte delle sue idee sono in anticipo di almeno trent’anni.
Il 4 febbraio 1943 Fleck viene arrestato con la moglie e il figlio e deportato ad Auschwitz. Qui come molti prigionieri si ammala di tifo, ma in una forma non grave che riesce a tenere nascosta ai suoi aguzzini, evitando così di essere eliminato. Si arriva così a quel dicembre 1943 in cui Fleck, ancor più magro e allampanato dopo gli stenti di Auschwitz, fa il suo ingresso al Blocco 50 di Buchenwald. Il tifo è ormai un flagello per l’esercito tedesco, e Fleck è la carta su cui punta tutto l’ambizioso Ding-Schuler. Per la produzione dell’ambìto vaccino, a Fleck viene messo a disposizione un “collettivo di pensiero” che pare uscito da un film di Quentin Tarantino. Così li descrive lo stesso Fleck: “Un giovane medico polacco, […] un eminente politico austriaco, un giovane medico ceco, uno studente di biologia olandese, un pasticciere di Vienna, un operaio di una fabbrica di gomma”. Quando Fleck arriva, il gruppo sta già lavorando, seppur con scarsi risultati. Il metodo scelto dai medici nazisti non è infatti quello di Weigl (l’idea di allevare i pidocchi nel campo di prigionia terrorizza le SS) ma il cosiddetto “metodo Giroud” dell’Istituto Pasteur, dove i batteri sono ricavati da polmoni di coniglio. La procedura è complessa (un manuale di istruzioni di 70 pagine tradotto in tedesco, forse dallo stesso Ding-Schuler), si lavora in fretta e lo “stile di pensiero” teorizzato da Fleck si dispiega con tale forza da rasentare l’autoillusione, facendo “vedere” al microscopio proprio ciò che ci si aspettava di vedere. Nei polmoni dei conigli al Blocco 50 non c’è però effettivamente la Rickettsia ma un altro batterio, e il risultato è un vaccino che non serve a nulla. Ma ammetterlo significa rischiare la vita. Solo dopo che Fleck ha preso in mano la situazione e che un istituto di Cracovia fornisce provvidenzialmente del materiale infetto si riesce a tirarne fuori un vaccino davvero efficace, ma in quantità assai ridotte, ben distanti dalle aspettative dei nazisti.
Fleck e il suo sgangherato team si guardano negli occhi e decidono di imboccare la pericolosa strada del sabotaggio. Alle SS e ai combattenti tedeschi va il vaccino tanto inutile quanto innocuo; quello efficace viene riservato in gran segreto ai prigionieri del lager più a rischio. L’incompetenza di Ding-Schuler gli impedisce di verificare. Quando le SS si insospettiscono perché alcuni soldati si ammalano, Fleck invia un campione di controllo del vaccino “buono”. Fino al marzo del 1945 producono oltre 600 litri di finto vaccino, senza mai essere scoperti. L’11 aprile il campo è liberato dai militari americani. Dopo un periodo in ospedale, poiché Leopoli è ormai parte dell’Unione sovietica, Fleck si stabilisce a Lublino e poi a Varsavia, dove vive e lavora in condizioni modeste, l’argenteria di famiglia miracolosamente salvata uno dei pochi ricordi della vita agiata prima della guerra. Nel 1957 emigra in Israele per ricongiungersi al figlio. Malato di cancro, muore per un infarto nel luglio del 1961. Per meno di un anno non fa in tempo a vedere il suo nome nella prefazione di quello che diventerà il libro più citato di tutti i tempi nelle scienze sociali: La struttura delle rivoluzioni scientifiche dello storico della scienza Thomas S. Kuhn. “Un libro che anticipa molte delle mie idee”, così Kuhn si riferisce all’opera di Fleck. E in effetti ciò che Kuhn chiamerà “paradigma”, ad esempio, assomiglia molto al concetto di “stile di pensiero”. Ma bisogna attendere il 1979 perché il libro di Fleck sia tradotto in inglese a cura di un colosso della sociologia come Robert K. Merton (e di Thaddeus J. Trenn) e poi in altre lingue (in Italia lo pubblica il Mulino nel 1983). Fleck viene così riscoperto come un pioniere, al punto che il filosofo e sociologo Bruno Latour lo definisce “il fondatore della sociologia della scienza”. Il suo archivio viene donato al Politecnico di Zurigo (ETH), che organizza varie attività in sua memoria attraverso il Collegium Helveticum. I suoi scritti anticipano molti altri temi oggi di attualità nel rapporto tra scienza e società, a cominciare dall’importanza di una comunicazione chiara ed aperta. “Un esperimento rischioso va spiegato dal medico con linguaggio semplice” sosteneva “nel modo in cui una persona conversa con un’altra”. E “un saggio scientifico è ben scritto solo se è comprensibile da un profano”.