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Antoon Van Dyck, una spia fra i gesuiti
Un pittore in incognito, l’origine degli 007 e un vestito nuovo per santa Rosalia a Palermo: è il Seicento delle meraviglie
Che ci fa Van Dyck a Roma sotto falso nome nell’aprile del 1621? Mentre tutti lo credono ad Anversa ad assistere la mamma ammalata, il giovane pittore, già celebrato come il più grande ritrattista d’Europa, si nasconde in una modesta casa di Corte Savella, oggi via di Monserrato. Alla sua porta, il giorno di Pasqua, bussa inaspettato il parroco di San Lorenzo in Damaso, sta facendo il censimento annuale delle anime presenti sul territorio. “Scusate il disturbo, vorrei sapere quanti siete nella casa. E voi, come vi chiamate?”, chiede all’elegantone che gli sta davanti. Il giovane dall’ovale delicato e i sottili baffi ritorti, alla moda dell’epoca, indossa vestiti di buona fattura e ha una grande collana d’oro che ondeggia sulla sua giacca di velluto. Lo invita a entrare, gli stringe la mano, è così morbida, di sicuro non deve faticare per guadagnarsi da vivere. “Posso offrirvi qualcosa?”, dice in un discreto italiano con accento nordico e scandisce ogni sillaba come se tra i due lo straniero fosse il sacerdote e non lui. “È un po’ presto per bere, ma la quaresima è stata lunga”. Il religioso accetta l’invito e scivola in quell’unico stanzone dagli arredi poveri in netto contrasto con l’affettazione del padrone di casa. “Non vi ho mai visto da queste parti”, osserva il sacerdote al primo sorso e fa schioccare la lingua, strizza gli occhi. “È un po’ aspro, lo so. Mi chiamo Antonio Vandechi”, aggiunge l’altro, ma il suo sguardo è obliquo e non si lascia catturare. “Di sicuro nasconde qualche segretuccio. Né lui è il primo, né sarà l’ultimo”, considera il parroco.
Del resto il quartiere pullula di manigoldi, attirati dalle corse dei cavalli che il sabato si svolgono nella vicina piazza di Campo de’ fiori. E scommettono, litigano, si picchiano, talvolta ci scappa anche il morto. Alle finestre delle vicine carceri di corte Savella ogni mattina pendono i corpi dei condannati dalla giustizia del Maresciallo. D’un tratto qualcuno bussa. Il giovane si precipita ad aprire. “Il reverendo sta facendo il censimento delle anime”, dice ai tre uomini che si ammutoliscono di colpo. Poi rivolto al sacerdote aggiunge: “Loro sono Giorgio Gaggio, Guglielmo Simetti, Domenico Silenti, di professione artisti”. Ha un tono complice e tutti insieme si mettono a ridere. “Altro che artisti. Spie sono!”, pensa il prete.
Gli artisti godevano in quel periodo storico di una grande libertà di movimento, vivevano a stretto contatto con i potenti, non era raro che raccogliessero informazioni politiche e militari per conto di governi stranieri. Il rione Parione ne è pieno. Proprio lì, tra palazzo Farnese, dove transitano gli uomini del re di Francia, la societas pauperum anglorum, che dava riparo ai cattolici inglesi perseguitati in patria e S. Maria di Monserrato, la chiesa della nazione spagnola, centro di riunione dei catalani, aragonesi e valenziani, si concentrano agenti segreti, diplomatici, così come un corteo di ladri e prostitute. “Ma quel giovane Vandechi ha un carisma particolare e non è assimilabile alla fauna abituale”, considera il sacerdote mentre annota i nomi della combriccola sul Liber status animarum in una bella grafia arzigogolata. E si ripromette di fare un controllo dopo qualche mese. Quindi vuota tutto d’un fiato il bicchiere e barcollando lievemente riprende la via papalis. “Non affezionarti mai a nessuno, la gente non è quello che appare”, sussurra al chierichetto tra un Pater e un Gloria.
Antonio Vandechi richiude la porta convinto di averla sfangata, ma non ha fatto i conti con il fiuto di Fiorenza Rangoni. Secoli dopo la storica dell’arte, alla vigilia della pandemia da Coronavirus che sconvolgerà il mondo intero, scopre nell’Archivio storico diocesano di Roma il registro delle anime del parroco in questione. La studiosa ha il sentore di uno scoop. Incrocia il documento con lettere e testimonianze dell’epoca, scopre che Antonio Vandechi altri non è che Antoon Van Dyck. Giorgio Gaggio si chiama George Gage, ed è un gesuita in incognito, ordinato in segreto dal potente cardinale Bellarmino. “Che ci fa Van Dyck a Roma nell’aprile del 1621? E che relazione ha con la Compagnia di Gesù?”, si chiede.
Gage e Van Dyck si conoscono grazie a Rubens, gesuita a sua volta, che intrattiene rapporti con diplomatici, nobili, agenti segreti. Nella sua bottega, con la scusa delle opere d’arte, avviene lo scambio di informazioni politiche. Gage e Van Dyck si ritrovano in seguito a Londra, città piena di spie istituzionalizzate, e qui rinsaldano la loro amicizia. Il re d’Inghilterra perseguita da tempo i fratelli ritenuti gli ispiratori della Congiura delle polveri. Eppure la corte inglese pullula di gesuiti infiltrati, che fanno azione di spionaggio e controspionaggio, da quando la Riforma luterana ha aggiunto l’elemento religioso alla lunga lista di conflittualità che agita l’Europa.
L’Inghilterra fin dai secoli precedenti si è dotata di servizi segreti organizzati e finanziati con fondi statali. Enrico VIII affida la gestione delle notizie riservate al suo segretario Cromwell. Elisabetta I Tudor fa lo stesso con Cecil, il suo segretario; e Francis Walsingham, suo uomo di fiducia, opera una vera rivoluzione culturale, reclutando come agenti segreti giovani studiosi dalle più prestigiose università. Si chiamano double agent, perché svolgono professioni importanti e al tempo stesso raccolgono informazioni. Nell’immaginario dell’epoca le spie, ritenute fino a quel momento spregevoli traditori, diventano patrioti colti e dediti al bene del paese. È lo stesso Walsingham il primo agente 007 della storia. Con questo codice lui firma le lettere riservate alla regina, dove 00 sta per occhi e 7, il numero perfetto, indica sua maestà. Il codice arriva ai nostri giorni grazie alla fantasia di Ian Fleming e alla notorietà di James Bond.
Il pittore fiammingo può essere un double agent? E che rapporti ha con la Compagnia di Gesù? La risposta va cercata nella sua amicizia con Gage e nel ruolo che quest’ultimo ricopre. Durante il periodo della sua permanenza a Londra, Gage è stato assoldato da Giacomo I Stuart per una missione importante. Il sovrano vuole ottenere la dispensa papale per il matrimonio tra Charles, principe del Galles e futuro erede al trono, e l’infanta di Spagna, Maria Anna, sorella di Filippo IV. L’unione è osteggiata per ovvi motivi religiosi e la missione si rivela piuttosto complessa. Che Van Dyck si sia ritrovato ad affiancare Gage? Si sa che Thomas Howard, conte di Arundel, collezionista d’arte, cattolico convertito al protestantesimo, probabilmente anche lui spione, consegna al pittore la somma di 100 sterline nel nome del re e per “servizi speciali”. Due giorni dopo aver incassato i soldi, Van Dyck chiede e ottiene le credenziali per Roma. È vero che a pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca. Dunque è per affiancare Gage che troviamo il pittore fiammingo sotto mentite spoglie nel 1621 a condividere con lui lo stesso appartamento? La missione fallisce e l’auspicato Spanish match non si celebra. Carlo I sposa la regina Enrichetta Maria di Francia Borbone. Gage torna in patria e per il suo fallimento viene bandito dalla corte. Il giovane fiammingo invece continua la sua brillante carriera, i potenti sono capricciosi e tutti desiderano un suo ritratto. Intanto i gesuiti continuano a tenerlo d’occhio.
Nella primavera del 1624, forse grazie all’intercessione dei fratelli della Compagnia di Gesù, o della famiglia Doria di Genova, il pittore sbarca a Palermo, culla primigenia di tutti gli intrighi politici. Ufficialmente è incaricato di ritrarre il viceré Emanuele Filiberto. Stringe rapporti di collaborazione con Giordano Cascini, padre provinciale della Compagnia di Gesù, che da tempo persegue la pacificazione della comunità palermitana attraverso l’incoronazione di una nuova Santa patrona. Il momento è delicato a causa di una forte instabilità politica. I cambiamenti climatici hanno reso le produzioni agricole insufficienti; i contadini abbandonano le campagne per la città, dove vivono ammassati fuori le mura in condizioni di miseria e degrado. Scoppiano le epidemie, le tasse aumentano, la tensione sociale è alle stelle, i governanti non se ne curano. Padre Cascini ritiene che una nuova Santa patrona possa fare da collante al tessuto sociale dilaniato, ché ai santi vecchi non si brucia incenso. La sua attenzione si concentra su santa Rosalia, una monachella basiliana, il cui culto è molto diffuso tra i poveri. Bisogna però far ingoiare il rospo agli aristocratici che di sicuro storceranno il naso di fronte alla sua tonaca sdrucita. “Se conosci il nemico e conosci te stesso, non devi temere il risultato di cento battaglie” dice Sun Tzu nell’arte della guerra. E il Cascini, che conosce bene i suoi nemici, orchestra un’operazione di marketing degna di una moderna agenzia pubblicitaria. Per prima cosa cuce addosso alla monachella una genealogia di tutto rispetto e lo fa partendo dalle visioni di una suora di Bivona in odore di santità. L’eremita si trasforma per magia nella figlia di Sinibaldo Sinibaldi , signore del monte delle Rose, cresciuta alla corte di re Ruggero, dama di compagnia della regina Margherita, pronipote di Carlo Magno. Adesso manca un’immagine ufficiale che ne celebri la grandezza.
A Palermo nel giugno del 1624 scoppia la peste. Dopo i primi tentennamenti, le autorità dichiarano l’emergenza, la città è in lockdown. Van Dyck rimane chiuso in quarantena. Non sa che fare, ha paura di ammalarsi, prova a forzare i varchi senza alcun risultato. Allora, forse per noia, magari per devozione, o per incarico dello stesso Cascini che gli fornisce i simboli giusti, dipinge un ritratto. La prima rappresentazione della Santuzza prende le forme di una valchiria dalla fulva chioma. I gesuiti conoscono bene il potere persuasivo dell’immagine. Nel documento redatto dal Concilio di Trento si raccomandava fortemente l’uso delle raffigurazioni pittoriche per attirare i fedeli. Non è per caso che la Chiesa del 1600 investe nell’arte.
Sono ben cinque i quadri di Santa Rosalia dipinti dal fiammingo nella sua vita. Due di essi sono oggi conservati a Palermo, uno all’oratorio del Rosario e uno a palazzo Abatellis. Con la processione dei resti della Santa a giugno 1625 si esaurisce l’epidemia, ma non gli intrighi. Il quadro di Van Dyck viene surclassato nell’iconografia ufficiale dal ritratto eseguito da un termitano, Vincenzo La Barbera, meno famoso del fiammingo, ma organico al potere. Il destino delle spie è quello di non avere riconoscimenti ufficiali.
Van Dyck se ne rammarica e deluso dalle vicende siciliane torna perciò in patria, dove entra a far parte della Compagnia dei Giovani celibi. La sua appartenenza alla Compagnia di Gesù a questo punto è ufficiale. Finirà i suoi giorni celebrato come un divo nella stessa Inghilterra che perseguita i Gesuiti e che ha decretato la condanna all’oblio del suo amico Gage.
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