La chiacchierata
Perché il mondo ha bisogno di Verdi e del suo "Don Carlo"
Botta e risposta tra due innamorati pazzi dell’opera, visto che stasera inaugura la stagione della Scala
Ecco il 7 dicembre, la data che fa battere il cuore a tutti gli operoinomani italiani: questa sera la Scala apre con il “Don Carlo” di papà Verdi. La giornata inizia con questo dialogo dei massimi sistemi operistici e dei minimi gusti personali fra due MM (melomani marci) come Federico Freni e Alberto Mattioli. Tirando finalmente fuori il loggionista che è in loro.
Federico Freni: Tu sei il critico, io l’amatore dilettante. Hai alle spalle più recite d’opera tu che giorni di governo io, quindi la prima domanda tocca a te. Ti piace la scelta di Riccardo Chailly del Don Carlo in quattro atti? Filologicamente, lo sappiamo, è corretta (alla fine, è proprio l’edizione scritta per la Scala), ma secondo me l’atto di Fontainebleau è troppo importante per mancare.
Alberto Mattioli: Direi che bisogna chiarire prima che di Don Carlo(s) ce ne sono almeno tre, i primi due approntati da Verdi e il terzo con il suo silenzio-assenso: Parigi 1867, cinque atti in francese; Milano 1884, quattro atti in italiano; Modena 1886, cinque atti in italiano. Ogni scelta di una di queste versioni è legittima, l’importante è non mischiarle: e invece così fan molti, anzi troppi, per esempio Pappano a Parigi. Sono opere diverse: in francese più “autentica” perché in francese fu scritta, in quattro atti più sintetica, concentrata e teatrale. Però si perde qualche aspetto dei personaggi, specie di Elisabetta di Valois: con l’atto di Fontainebleau, che c’era a Parigi e non a Milano, si capisce che, sposando Filippo II, ha fatto un sacrificio consapevole e meditato per ottenere la pace per il popolo. Il punto vero è che alla Scala la versione di Parigi in lingua originale non è mai stata fatta: poteva essere l’occasione. E poi bloccare lì per cinque ore il pubblico del Sant’Ambroeus che va alla Scala soltanto per vedere chi c’è e com’è vestito sarebbe stato divertente. E adesso dimmi perché pensi che Fontainebleau sia così importante…
FF: Intanto concordo con te, il minestrone non ha senso. Anche se a me la musica scritta da Verdi per la morte di Posa nella versione francese (e poi riutilizzata nel “Lacrimosa” della Messa da Requiem anni dopo) piace talmente tanto che la metterei sempre e dovunque, come il prezzemolo. Abbado la recuperò alla Scala nel ’77, ho ancora da qualche parte l’incisione live…
AM: Non eludere la domanda.
FF: Hai ragione, vengo al punto. L’atto di Fontainebleau è centrale per capire non solo la psicologia di Elisabetta, ma anche quella di Carlo. Di fatto tutto quel che accade qui, in quaranta minuti di musica sublime, nella versione del 1884 viene condensato da Verdi nell’aria iniziale di Carlo: una sintesi un po’ striminzita. I due ragazzi sono destinati a sposarsi, si conoscono, si piacciono all’istante (come succede solo all’opera), si scambiano un ritratto come pegno, e un attimo dopo le ragioni della politica fanno sposare a lei il padre di lui. Elisabetta accetta, come tu giustamente ricordi, per garantire la pace al suo popolo. Ecco, senza tutto ciò, i due personaggi sono monchi… Ogni taglio (financo il coro iniziale, che Verdi stesso dovette sacrificare prima della “prima” parigina, a causa dell’eccessiva durata dello spettacolo che avrebbe impedito agli spettatori che abitavano fuori dal centro di tornare a casa con i mezzi pubblici) è una ferita alla drammaturgia complessiva dell’opera. E poi, dico, la scena del cofanetto e del ritratto nel quarto atto… mica nascono sotto un cavolo, e così mille altri dettagli. Aggiungo che a me musicalmente questo atto piace anche molto…
AM: Va bene, abbiamo acclarato che di Don Carlo(s) ce ne sono tre e ognuno ne preferisce uno diverso. Adesso ti faccio una domanda una e trina: 1) qual è stato il DC più bello che tu abbia visto dal vivo? 2) qual è il tuo DC preferito in disco? 3) qual è il DC che allestiresti come direttore artistico? Devi scegliere direttore, regista e cinque cantanti per le parti principali. Però devono essere tutti e otto non solo vivi, ma in carriera.
FF: Vediamo… Dal vivo avrò visto Don Carlo cinque o sei volte, e forse nel complesso (anche se la regia era quantomeno problematica) a Parigi nel 2017 ascoltai un’edizione che merita di essere ricordata con Kaufmann, Yoncheva, Garanca, Tézier e Abdrazakov, diretti da Philippe Jordan. Ma io sono cresciuto in un’epoca “magra” per le voci, dove per opere come questa assemblare un cast omogeneo è difficile. A Piacenza, per esempio, pochi giorni fa ci sono riusciti, anche se mancava un poco l’effetto grand opéra. Il mio preferito in disco? Ai punti se la giocano il live della Scala del ’77 diretto da Abbado con Carreras, Freni, Cappuccilli, Obraztsova, e Ghiaurov, e l’incisione di Solti con Bergonzi, Tebaldi, Fischer-Dieskau, Bumbry e ancora Ghiaurov. Sto lasciando a casa Giulini con la Caballé e Domingo e Karajan con i suoi vari cast, lo so. Ma sull’isola deserta avrei il dubbio solo tra queste due edizioni. E forse alla fine vincerebbe Solti. Il mio cast ideale oggi è forse più facile, perché voci per fare (bene) DC non se ne trovano poi tantissime in giro. Il protagonista lo farei cantare senza dubbio a Francesco Meli e, se avesse da fare, cercherei Pietro Pretti: un domani, punterei sul giovane Tetelman o su Brian Jagde. Elisabetta senza dubbio è Anna Netrebko e, in futuro, chissà, la Bartoli (Anastasia, beninteso). Per Posa senza esitazioni Luca Salsi, in subordine Ludovic Tézier. Domani – ma forse anche oggi – lo affiderei a Mattia Olivieri o a Ernesto Petti: due cantanti in grandissima ascesa nel panorama di questa corda. Eboli la darei quasi senza dubbi ad Anita Rachvelishvili. Per Filippo punterei su Adbrazakov o su Pertusi. Quanto al direttore, testa e cuore mi portano a dire che Michele Mariotti potrebbe dire la sua, soprattutto dopo l’Aida romana che abbiamo sentito l’anno scorso. Ma il DC migliore lo farei assemblando cantanti (anche) fuori carriera o morti…. Quindi facciamo anche un fanta Don Carlo: assembliamo un cast, ma con cantanti, regista e direttore non necessariamente vivi o in carriera…
AM: Un fantacast per Don Carlo? Vediamo. Potendo evocare i fantasmi, iniziamo ovviamente dalla Callas. Ma non come Elisabetta: come Eboli. Ebbene, sì: la tessitura di Eboli, ufficialmente mezzosoprano, è spesso più acuta di quella del soprano Elisabetta. La stessa Callas incise “O don fatale” due volte, purtroppo tardi, ma l’esecuzione del 16 marzo 1962 ad Amburgo con Prêtre è rivelatrice. Come Elisabetta, le mie favorite sono la Caballé e la Freni ma, visto che abbiamo la Callas, ci metto la Tebaldi. Per il Don (maiuscolo, il “don” dell’aria di Eboli è il dono), ti stupirò: Rolando Villazón, che ascoltai ad Amsterdam nel 2004 con un grande Chailly alla testa del Concertgebouw. Chiaramente le note non erano tutte belle né facili, ma vocalmente Rolandino non si era ancora sfasciato, e l’interprete fu eccezionale, l’unico fra quelli che ho visto a cogliere appieno la nevrosi dell’Infante, il suo isterismo adolescenziale. Era toccante quando cantava raggomitolato in posa fetale sulle tombe degli antenati nello spettacolo meraviglioso di Willy Decker. Per Posa, vorrei ascoltare per una volta uno dei grandi baritoni “grand seigneur” di una volta, quindi dico Antonio Cotogni. Per Filippo o Ezio Pinza o Tancredi Pasero. Direttore Toscanini perché così facciamo il disco live, regia di Patrice Chéreau. Sarebbe un ircocervo stupefacente.
FF: Abbiamo, tu e io, due idee di Don Carlo diverse… il tuo fantadirettore è Toscanini, il mio Thomas Schippers. Per me DC è un’opera decadente, buia, dolente. I due live di Schippers, per quanto sia pessimo l’audio, ci restituiscono proprio questa idea, proprio come quella sua magnifica Aida in Scala nel ’76. Siamo d’accordo su Elisabetta: la Tebaldi su tutte. Il mio Carlo è senza dubbio Bergonzi, insieme a Bastianini come Posa e a Siepi come Filippo. Su Eboli ti seguo: la Callas sarebbe interessantissima in quel ruolo, ma prima del ’58. La regia originale di Visconti, poi, la rimpiango sempre. Alla fine, qui il passatista sono io, mi sa… Ma non mi hai ancora detto che edizione discografica porteresti sull’isola deserta…
AM: Ma allora non hai sentito l’ultimo Gatti al Maggio con Meli e Buratto! L’atto finale, tutto piano, immerso in uno sfinimento esistenziale e psicologico, era il dolore che si trasfigura in addio, luce, speranza. “Ci rivedremo in un mondo migliore”, appunto. Sublime. L’edizione che porterei sull’isola deserta è forse quella di Abbado in studio, non perfettamente riuscita (specie Nucci) ma l’unica dove ci sia tutta la musica del DC. Così mi dura di più, nelle lunghissime giornate sotto la palma aspettando i soccorsi… Adesso però basta parlare di musica: parliamo di politica. DC è anche un trattato sui rapporti fra stato e chiesa, in un momento (11 marzo 1867 la prima, la battaglia di Mentana è del 3 novembre successivo) in cui la questione appassionava l’opinione pubblica e avvelenava proprio i rapporti fra Francia e Italia. Come al solito, Verdi è attualissimo e ci insegna ancora molto, specie in un momento in cui, mi sembra, la laicità dello stato, se non è morta, non si sente troppo bene…
FF: “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare!”: Filippo ci prova, anche in modo vigoroso (nella versione francese rende meglio: “Tais-toi, prêtre!”), ma poi cede rovinosamente al Grande Inquisitore. Cede perché sa che, nella Spagna del Cinquecento, il trono senza l’altare non sarebbe andato da nessuna parte. Sacrifica consapevolmente il suo miglior uomo e suo figlio. Una débâcle totale. E Verdi non aspetta altro per mettere il dito nella piaga. Oggi abbiamo altri problemi…
AM: Nel DC succede questo, che è tipico di Verdi e del suo pessimismo shakespeariano e cosmico: perdono tutti. Perdono i “buoni”, perdono i “cattivi”, l’unico a trionfare è un personaggio “nero” come il Grande Inquisitore (che infatti non ha nemmeno il nome, come il Commendatore). E qui bisognerebbe aprire un capitolo su Verdi che è sempre all’avanguardia, come artista, come politico, come imprenditore e come filantropo, ma che nel suo teatro mostra una radicale sfiducia nel progresso. Un caso di pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, si direbbe…
FF: Verdi era realista, guardava al suo tempo con un disincanto che servirebbe anche oggi. Don Carlo è l’opera dove meglio si svolgono le dinamiche del potere: il potere rende soli, azzera la luce. Verdi lo sente, lo percepisce, ci lascia un monito. In quest’opera alla fine perdono tutti, è vero, perché tutti sono soli. Ché poi, se guardiamo il messaggio verdiano nel suo complesso, nella sua evoluzione da Oberto a Falstaff, ci sono due conclusioni: il “tutti gabbati” del Falstaff e l’invocazione “In te Domine speravi” del Te Deum dei Quattro pezzi sacri terminali. Due conclusioni solo apparentemente inconciliabili, credo.
AM: Per concludere questa carrellata: Don Carlo o Don Carlos che sia, l’attuale fortuna di quest’opera è la dimostrazione che a teatro noi non siamo necessariamente più fessi dei nostri nonni. Che il DC fosse un capolavoro lo si era sempre saputo; ma da non moltissimi anni è diventata anche uno dei titoli verdiani più rappresentati. E infatti prima della Scala ne hanno girato due produzioni, una nel circuito emiliano e l’altra in quello lombardo, mentre ha appena debuttato all’Opéra di Montecarlo il “contro Don Carlo”, vale a dire la produzione con due habitué di Sant’Ambroeus come il regista Davide Livermore e il basso Ildar Abdrazakov. Il mondo ha bisogno, ancora e sempre, di Giuseppe Verdi. Il mondo ha bisogno, oggi più che mai, del suo Don Carlo. Quindi io mi sbilancio e lo dico, anzi lo grido: Don Carlo(s) è la mia opera di Verdi preferita, e poiché Verdi è Verdi, la carne e il sangue, il cuore e il cervello, la musica e il teatro, e ci insegna ogni giorno a vivere e pensare, Don Carlo è l’opera che mi porterei fin nella tomba, anzi nell’avel. E tu?
FF: In quest’opera c’è tutto: l’amore, la gelosia, il potere, l’amicizia, la sofferenza, la speranza. Una summa del cosmo verdiano e, lasciami dire, umano. Quindi sì, mi sbilancio: dopo una rapida contesa con il Boccanegra, anch’io porterei Don Carlo(s) con me. Inutile dire, l’edizione cinque atti.