la riflessione
Il valore intrinseco del merito, brandito dal moralismo di Calvino e Fortini
Dalla lotta di classe alla felicità personale: il lavoro ben fatto ha un valore in sè che non riguarda solo l'ascesa sociale, ma la costruzione delle persone che vogliamo essere e della società
Se le esperienze autobiografiche contano qualcosa, vorrei usare la mia per difendere “La rivoluzione del merito” di Luca Ricolfi, in cui il merito è apprezzato in quanto strumento per combattere le disuguaglianze sociali (ma la parola “rivoluzione” mi sembra troppo).
Sono nato e cresciuto in una famiglia operaia e in un quartiere come Testaccio, un tempo semiperiferico e “popolare”, cioè non borghese: il quartiere delle “Ceneri di Gramsci” di Pasolini e in cui, se non sbaglio, era nato anche Mario Tronti, il teorico dell’operaismo italiano anni Sessanta. Posso testimoniare che in quell’ambiente (vicino al mattatoio, ai mercati generali, al gasometro) dagli operai antifascisti e dotati di coscienza di classe l’acquisizione della cultura, la cultura in sé, era considerata il primo, migliore e più onesto strumento per fare fronte al privilegio borghese e non esserne vittime. Su questo punto Mario Tronti sbagliava quando credette di interpretare l’odio di classe operaio come rifiuto della cultura, perché sempre e comunque borghese. Lui voleva essere all’avanguardia, era infatuato della nuova classe operaia intravista alla Fiat nella Torino dei “Quaderni rossi”. Appena la vide ne fece un mito teorico, il mito della sua invincibilità. Eliminando ogni forma di mediazione sia sindacale sia politica, la Classe (con la maiuscola) avrebbe fatto “un culo così” al Capitale (si vedano i ridicoli volantini autocelebrativi di Potere Operaio intorno al ’68).
Io avevo conosciuto in famiglia e nel quartiere una “working class” fra antifascismo, togliattismo e anarchismo, per la quale pensare, studiare, essere onesti e lavorare bene erano il presupposto di una “seria” lotta di classe.
Ma volto pagina e cambio registro usando qualche riferimento letterario. Ho riaperto per caso il libro che il caro Ernesto Ferrero, scomparso purtroppo a fine ottobre, ha dedicato a Italo Calvino, suo collega, amico e maestro alla Einaudi: e leggo che Calvino giudicava le persone anzitutto in base al merito, alla capacità e alla scrupolosa attenzione nel compiere il proprio lavoro. In questo 2023 che sta per finire si è celebrato Calvino come uno dei nostri scrittori del Novecento più originali, ma non so quanto si sia osservato che Calvino, il leggero, umoristico, fantastico Calvino era un severo moralista, anche se mascherava con il sorriso e la reticente discrezione la sua severità morale. La prova più lampante di questo è nel suo amore per la forma letteraria della fiaba, che fondamentalmente ha ispirato la sua narrativa. Come sappiamo tutti, ogni fiaba ha la sua morale e viene raccontata perché c’è da imparare qualcosa dalle vicende in cui le virtù si scontrano con i vizi e alla fine, per merito loro, trionfano.
Come autore e come editore, Calvino aveva il culto del lavoro ben fatto, dell’intelligenza del fare le cose, della astuta attenzione da usare come guida. Perché si salva e vince chi è attento: questa è la morale della favola, custodita nel corso di secoli e millenni.
Altro moralista, questa volta senza maschere perché poeta marxista, era Franco Fortini. Per lui il lavoro ben fatto era la prova del valore di individui il cui comportamento prometteva fin da ora una società futura migliore. Fortini ricavava questa idea non solo dal suo calvinismo, ma anche da due autori che aveva tradotto, Bertolt Brecht e Simone Weil, diametralmente opposti. Per Weil, si sa, la prima cosa era l’esercizio e la virtù dell’attenzione, capace di superare perfino la naturale genialità. E Brecht, benché spesso recitasse da materialista cinico (“La mia poesia è stata scritta senza rime perché il compenso era basso”), quando invece parlava agli attori che dovevano mettere in scena le sue opere raccomandava: “Sappi, lo fai per te. E fallo in modo esemplare”.
Nel suo libro Ricolfi, oltre alla varietà degli argomenti filosofici e letterari (da Bourdieu, Rawls, Hayek a Piero Calamandrei, don Milani, Orwell, Vonnegut) fa ricorso al common sense contro un presunto “politicamente corretto” per il quale una sinistra accecata dalla sua impotente faziosità aggrava la propria situazione regalando alla destra la difesa del merito a scuola e nella vita.
La questione però credo che non vada giudicata solo dal punto di vista del successo e dell’ascesa sociale (reddito, potere, prestigio). Merito, talento, lavoro ben fatto hanno un valore in sé, non sono soltanto mezzi per arrivare a scopi ulteriori. Il lavoro ben fatto, secondo alcuni psicologi, è un importante fattore di felicità personale.