Confronti
Il gioco di cantare la morte tra passato e presente
Contro una cronaca morbosa che ci getta nello sconforto e nella solitudine, la tragedia greca offre la sua catarsi. Un rito collettivo che ricuce i legami squarciati dal male radicale. Racconti dall’allestimento alla Scala di “Medea”
Durante le prove di “Medea” che in questi giorni sono iniziate al Teatro La Scala, ho incontrato i bambini che interpreteranno sul palcoscenico la coppia dei figli di Medea e Giasone. Hanno 7 e 9 anni. “Sapete un po’ di cosa parla questa storia?”… “Si, ci uccide nostra madre!”. Mai risposta fu più rapida e concisa, accompagnata da un fiero sorriso. Questo mi ha fatto subito pensare che noi adulti ci facciamo troppi problemi: una storia così crudele, addirittura un infanticidio, come poterlo proporre a dei bambini, quelli che poi dovranno essere in scena? Invece per loro, far finta di essere i due figli che vengono uccisi è eccitante: ogni volta che li incontro mi chiedono se finalmente arriveremo a provare la scena finale, non vedono l’ora di arrivare a quel momento dell’opera e in questo c’è sicuramente anche un aspetto esibizionistico, perché sanno bene che in quella scena tutto il pubblico sarà concentrato solo su di loro. Giocare a fare i morti, come ad Halloween quando si truccano il viso come degli zombie, dei cadaveri ambulanti, con occhiaie profonde, spade conficcate in testa, sangue disegnato attorno alle labbra. L’apparato della finzione, dei trucchi, del “fare finta che…” permette di poter arrivare ovunque, senza pericoli.
È la bellezza del teatro, cioè il gioco di una immedesimazione per poter raccontare anche i traumi, fare esperienza della vita prima che la vita possa sbatterti in faccia la sua brutalità. La tragedia, in questo senso, è una possibilità di allenamento che il pubblico riceve. Un allenamento alla vita. Del resto il significato della parola “cultura” è, a mio avviso, sostanzialmente questo: offrire una possibilità di attenzione e sensibilità alla vita. Riuscire a distinguere più colori, più sfumature, più emozioni. Questo vuol dire avere cultura. Perciò leggere una tragedia greca, come “Medea”, ha un grande valore, perché “cantare” la morte è necessario.
In questi anni prevale la tendenza a psicologizzare ogni aspetto della vita. Ci sono termini e parole per diagnosticare esperienze umane che nel passato sarebbero state vissute come eventi a cui far fronte con il buon senso o il consiglio di qualche anziano. La tragedia fa proprio questo: non rende spettacolare la morte, non la vuole sbattere in prima pagina, non la vuole diagnosticare. Fa un’altra cosa: la canta.
“Cantare” la tragedia e condividerla in una visione catartica è quello che manca nel mondo d’oggi, dove si collezionano quotidianamente episodi di cronaca nera (assassini, incidenti, guerre, stragi), di cui i giornali indagano gli aspetti più minuziosi e raccapriccianti. Del recente femminicidio di Giulia Cecchettin, la cronaca continua a offrire dati meticolosi: il numero di coltellate, i centimetri di profondità, il punto in cui il colpo fu fatale con tanto di referti legali, esami ematici, autopsie, radiologie. Assistiamo nei talk show a una vivisezione del dolore che, a livello emotivo, provoca disagio. Il disagio è come un’acqua stagnante che ammuffisce, come l’odore acido di una stanza in cui non entra più la luce del sole, un frigorifero in cui sono stati dimenticati cibi avariati.
La tragedia greca invece non vuole creare nessun disagio: vuole creare consapevolezza. Il compito della tragedia, nel raccontare i traumi più atroci ed efferati, è quello di arrivare alla catarsi, cioè alla liberazione dalla sofferenza attraverso una condivisione collettiva del trauma. E’ di per sé un approccio quasi terapeutico dove non c’è nessuna cronaca, nessuna spettacolarizzazione, nessuna esibizione. Il contrario esatto di quello di cui ci nutriamo oggi, dove la grande massa di informazioni, condannate da una competizione affannosa, si riduce spesso a una speculazione sul trauma facendone mercanzia.
La tragedia dei miei conterranei Giulia Cecchettin e Filippo Turetta meriterebbe di essere cantata. Il femminicido, così come l’infanticidio per Giasone e Medea, merita di essere cantato, condiviso sofferto insieme, in quella preghiera laica che è l’epica teatrale, in grado di accogliere e condividere la sofferenza umana. La tragedia è un viaggio per raggiungere la conoscenza, non per raggiungere il disagio. Nella tragedia il dettaglio morboso, lo scoop, l’indagine televisiva è del tutto assente perché il momento stesso in cui avviene la morte non è mai presentato sulla scena, c’è un senso del pudore che feconda l’immaginazione del pubblico.
Coltivare l’immaginazione è il senso di tutto il percorso scolastico, non solo in ambito artistico e letterario, ma già nei primi problemi di matematica: se la signora Maria acquista tre cassette di mele dal fruttivendolo e ogni cassetta contiene 15 mele…. In quel “se”, c’è un’immagine che nasce. C’è, per dirla con Leopardi, un pensiero che si finge qualcos’altro. Porre dei “se” e creare delle realtà. Ora, le realtà poste dalle tragedie greche sono ricche di sfumature. Euripide scrive dialoghi in cui emergono conflitti e posizioni opposte e dove l’ascolto dell’altra voce si mantiene saldo fino all’ultimo verso in cui il Coro conclude sigillando la storia: “Molti eventi si compiono contro ogni speranza”.
La tragedia si muove empaticamente verso i protagonisti, accusa e difesa cozzano in un tribunale aperto al confronto dove il giudizio non è mai limitato e univoco. Questo è del resto, il senso dell’azione politica, intesa nel suo gesto più nobile, l’azione di una polis che cerca l’equilibrio della misura interrogandosi, ad esempio, sui dilemmi della giustizia. Per questo è necessario avere un Coro, un pubblico, una voce che accolga e rifletta. Per quanto riguarda la trama, gli interventi del Coro nelle tragedie greche si potrebbero tranquillamente eliminare: non servono a mandare avanti la storia, sono narrativamente inutili. Non servono all’azione, ma servono alla meditazione. Sono isole di pensiero, domande necessarie per creare empatia con il pubblico. Non a caso il Coro parla spesso con espressioni che nascono dal buon senso, invocano gli Dei o utilizzano dei modi di dire: “Tremenda è l’ira quando tra i congiunti scoppia una contesa”. Se Medea racconta il rapporto complicato di uno straniero che arriva in un nuovo paese, la difficoltà di sentirsi accettati, la nostalgia verso la propria patria, la solitudine, il peso del giudizio altrui, ecco che il Coro espone il suo pensiero legato al buon senso: “Certo, è necessario che uno straniero si adatti alla città che lo accoglie, ma l’arroganza e l’ignoranza del cittadino viene condannata”.
Così come si partecipa a un funerale, perché è un rito d’addio, così si partecipa al rito della tragedia. Oggi i funerali sono rimasti uno dei pochi momenti in cui la partecipazione può essere sorprendente, e così è stato anche per quelli di Giulia. A Padova la piazza era sovraffollata perché è fortissimo il bisogno di commozione. Il bisogno di piangere. Questa è la catarsi, la liberazione attraverso un dolore che viene condiviso. Perciò una società che coltiva il valore della condivisione è una società umana, empatica, in grado di offrire comprensione. Quali parole usare per chi è rinchiuso nel proprio buio interiore? E’ una domanda che spesso ci facciamo, incapaci di incontrare l’altro nella sua sofferenza. Nel momento in cui nessuno sa come rivolgersi a Medea ecco il Coro che arriva limpido e preciso con le parole più semplici e forse necessarie che ogni persona ha bisogno di trovare nel dolore: “Non le farò mancare il mio affetto. Falla venire qui, dille che le vogliamo bene”. Che le vogliamo bene, non c’è altro che serva per poter iniziare un contatto.
Medea, distrutta dal dolore per l’abbandono, l’ingratitudine e il tradimento del marito, riceve dal Coro un consiglio: “Se il tuo sposo onora un’altra donna non consumarti in lacrime per lui”. Non consumare il tuo tempo per chi non merita la tua attenzione. Perché lei non riesce a seguire questo consiglio? Ci insegnano che le tragedie greche debbano essere recitate con pathos e voce stentorea, roboante. A me pare che invece necessitino la sottigliezza di un bisturi, per la loro capacità di analizzare l’animo umano con eterna luminosità.
Povera è quella società che non sa cantare i propri morti e il proprio dolore. Oltre alla cronaca c’è bisogno della lirica. Che utilizza, appunto, la lira, strumento del canto: pizzicare le corde con un plettro, affinché messe in vibrazione risuonino con le nostre corde, quelle degli affetti dell’animo umano. Impariamo a cantare il dolore per trovare un’armonia, in mezzo alle dissonanze di voci e rumori, in mezzo alle liti, ai contrasti, alle grida che offuscano lo sguardo dell’animale umano. La commozione, di cui abbiamo bisogno per non sentirci soli, è proprio nella sua radice un muoversi insieme, un con-muovere. Le molecole immobili sono fredde e il calore si compie con il movimento; dove non c’è vibrazione, non esiste empatia, non esiste calore.
Giasone (cacciato poi da Dante nell’Inferno della Divina Commedia) è l’uomo presuntuoso e arrogante, ingannatore e seduttore, egoisticamente concentrato sul proprio tornaconto, lesto a sposare la figlia del re per garantirsi un lussuoso futuro. Allo stesso tempo il suo obiettivo è anche quello di garantire un futuro sicuro ai propri figli: “Vostro padre ha cercato di darvi il maggior bene possibile”. Si tratta di un vile, infame, impudente, traditore, come lo definisce Medea o di un uomo abile e saggio come si definisce lui stesso? Medea è pazza e cinica, oppure è una donna abusata e annichilita dal dolore che prova? Il Coro non sa rispondere: “O Zeus, perché mai ci hai concesso di capire con certezza se l’oro è falso e tra gli uomini invece non esiste un marchio che segni il corpo del malvagio?”.
Si, bisogna avere la capacità di “cantare” le tragedie del nostro millennio, trasformarle in epica attraverso un rituale che permetta la conoscenza, la memoria e la catarsi, ovvero la liberazione dall’angoscia, la purificazione dalla pece in cui i traumi fanno precipitare l’animo. La nostra società digitale e artificiale sta parcellizzando e isolando il tempo della condivisione umana. Visori sempre più sofisticati: doppio microfono, riduzione del rumore, cancellazione dell’eco, ultra-grandangolare e accessoriato da un’infinita libreria di applicazioni a disposizione. Una virtualità che delega l’immaginazione a un algoritmo. È molto comodo e soprattutto molto veloce. Vogliamo essere sempre più rapidi (come dice Chaplin nel discorso finale de “Il grande dittatore”) ma è la nostra immaginazione che fa la differenza. Non priviamo i nostri figli e i nostri studenti di questo sforzo, non rendiamogli la scuola un apprendimento di tecniche. Impariamo ad apprezzare la parola lirica, la parola tragica. Un ultimo consiglio per gli insegnanti: far leggere gli alunni a voce alta. In un’epoca dove tutto è microfonato, leggere a voce alta sembra quasi anacronistico, eppure è un modo sano e semplicissimo di sentire il proprio corpo e farlo vibrare. Leggere la tragedia greca, per scoprire che il gesto di portare le mani al capo quando si percepisce un pericolo, non è né antico né moderno. Siamo noi, gli uomini che trascorrono l’esistenza su questo pianeta, uniti ora come 2.500 anni fa da paure ed emozioni che non sono mai cambiate.