facce dispari
“L'antidoto di papa Benedetto XVI al fondamentalismo laico”. Intervista a Mariano Fazio
"Il suo pontificato è stato un lungo commento all’enciclica ‘Fides et ratio’ del predecessore. Ratzinger denunciò la dittatura del relativismo e ne propose l’antidoto: riconquistare la fiducia nella persona umana a riconoscere la verità", ci dice il vicario ausiliare dell’Opus Dei
Dissolta è a quanto pare l’illusione che uova pasquali e pandori natalizi griffati Ferragni calassero, nella vistosa vetrina dei social, una ‘Caritas in veritate’ sebbene del più laico rosa pastello. Il disincanto, sommato a una imminente ricorrenza – il 31 dicembre cade un anno dalla morte di Joseph Ratzinger – raddoppia l’occasione per ricordare quella terza enciclica di papa Benedetto XVI, in cui avvertiva che “non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica”.
La riflessione riaffiora alla memoria dalle pagine in cui la richiama Mariano Fazio, autore del libro ‘Benedetto XVI – Il Papa della fede e della ragione’, uscito per le Edizioni Ares quasi come manuale d’avviamento alla vita, agli atti e al Ratzinger pensiero.
Nato a Buenos Aires 63 anni fa, vicario ausiliare dell’Opus Dei, Fazio è stato a lungo rettore della Pontificia Università della Santa Croce a Roma, e la prima volta che vide di persona l’allora cardinale bavarese rimase colpito “dalla sua semplicità, dalla sua vicinanza, dai suoi modi gentili e da una sorta di fragilità fisica che suscitava un senso di protezione nei suoi confronti”. Né Kardinal Panzer né Rottweiler di Dio.
Perché ha voluto dedicargli un libro?
Mi sembrava una sintesi utile a rivendicare i frutti del suo pontificato, che sono stati copiosi per il magistero della Chiesa. Un bilancio e un omaggio a un papa talvolta incompreso.
Incompreso perché?
Non fu facile succedere a san Giovanni Paolo II, che ci aveva abituati a un papa a tutto campo, con grandissima capacità comunicativa e di personalità travolgente. Ratzinger era una persona riservata, un professore di teologia tedesco che poteva apparire freddo e su cui, da ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, gravava anche l’immagine del grande inquisitore. Eppure, malgrado gli handicap di partenza, riuscì a guadagnarsi l’affetto della Chiesa.
Come ne riassumerebbe il pontificato?
Il nucleo centrale è nel suo motto: Cooperatores veritatis, ossia la capacità dell’uomo di conseguire la verità tramite la fede e la ragione. Si potrebbe dire che il suo pontificato è stato un lungo commento all’enciclica ‘Fides et ratio’ del predecessore. Papa Benedetto denunciò la dittatura del relativismo e ne propose l’antidoto: riconquistare la fiducia nella persona umana a riconoscere la verità. Fede e ragione sono le sue due ali: per credere non bisogna smettere di pensare.
Benedetto puntò l’indice sull’approccio che “porta a considerare certe solo le affermazioni che derivano dalla correlazione tra matematica e metodo empirico”. Le domande fondamentali sull’esistenza umana non trovano più posto nella modernità.
Questa è la malattia culturale del relativismo, un atteggiamento prosperato soprattutto nel ventesimo secolo dopo le due guerre mondiali, quale reazione alle ideologie totalitarie che imponevano le rispettive presunte verità con la violenza. Si diffuse così la convinzione che fosse più salutare per l’umanità dire che non c’è una verità, o se c’è non è possibile conoscerla. Meglio accontentarsi della piccola verità di ognuno, dal pensiero stanco di Bataille a quello debole di Vattimo fino alla rinuncia dei postmoderni.
Come risponde la Chiesa?
Con la massima evangelica: la verità vi farà liberi. È una tensione naturale verso la trascendenza che diventa anche un obbligo morale: cercare la verità grazie alla libertà riconosciuta alla dignità umana. Lo Stato deve consentirla con una sana laicità, che riconosca l’importanza della dimensione religiosa e a ciascuno di poterla professare senza condizionamenti. In alcuni Paesi si può parlare pubblicamente di tutto ma non di Dio. C’è un fondamentalismo laicista grave quasi quanto il fondamentalismo islamico.
Ogni religione si ritiene portatrice dell’unica verità.
Questo non dovrebbe impedire il dialogo né il vicendevole rispetto. Non bisogna degenerare nel fondamentalismo. Anche la tradizione islamica aveva per ali fede e ragione, tanto che abbiamo conosciuto i testi di Platone e Aristotele attraverso gli arabi. La grande differenza con la tradizione cristiana è che in questa il dialogo tra fede e ragione è proseguito, mentre nella musulmana fu bloccato temendo che non rispettasse la parola rivelata. Peccato, perché abbiamo perso tanti possibili tesori.
E la tradizione ebraica?
Come san Giovanni Paolo II, anche papa Benedetto testimoniò la grandissima continuità fra la tradizione ebraica e la cristiana con molti gesti concreti, tra cui la visita alle sinagoghe.
Non fu un papa troppo eurocentrico?
La sua non fu solo una posizione culturale, ma strategica. L’Europa gli si presentò come un malato terminale: il continente evangelizzatore par excellence aveva perso slancio spirituale e abbisognava di una rievangelizzazione. Ogni buon padre pone più attenzione al figlio che ne ha maggior bisogno in quel momento.
Oggi il dibattito sull’intelligenza artificiale coinvolge in misura ancora modesta la spiritualità. Come lo affronterebbe papa Benedetto?
Chi considera che l’intelligenza artificiale possa superare i limiti della natura umana ripete lo scientismo illusorio già proprio all’illuminismo. Il progresso della tecnologia è meraviglioso, ma solo se si fa strumento per lo sviluppo integrale della persona. Vale lo stesso per il mondo della virtualità: su internet ci sono il porno e le opere complete di sant’Agostino, può essere strumento di evangelizzazione ma non può soppiantare i rapporti personali diretti. Mille follower non sono mille amici. Il web può arricchirci o impoverirci se il suo uso è indiscriminato.
Come si pone, da accademico, verso la cultura woke?
È la conseguenza ultima del relativismo. Papa Ratzinger, da professore, l’avrebbe giudicata contraria innanzitutto allo spirito universitario, perché gli atenei sono luoghi di dialogo e di scambio dove non si deve discriminare chi la pensa diversamente. Invece questa ideologia sta assolutizzando la discriminazione attraverso la decontestualizzazione dei fatti storici. Ma senza contesto non si capiscono Colombo o Churchill e nemmeno che la schiavitù, di per sé un orrore, fu persino positiva rispetto all’uccisione sistematica dei vinti in battaglia. La cancel culture è rozzamente semplificatrice.
La Chiesa cattolica ne è un frequente bersaglio.
Poche altre istituzioni come la Chiesa hanno compiuto un esame di coscienza così approfondito e hanno chiesto perdono con la stessa forza per i propri errori, commessi in un percorso plurimillenario al servizio dell’umanità.
Un merito speciale di papa Benedetto?
Il prestigio che il suo altissimo livello intellettuale ha apportato alla fede cattolica, perché seppe confrontarsi a tu per tu con tutti i grandi filosofi, anche con gli atei. La Storia ha i suoi ritmi, e come papa Francesco ha riscoperto il pontificato di san Paolo VI, che sembrava quasi dimenticato, ci sarà magari fra qualche decennio una Ratzinger renaissance.
Come è proseguita la denuncia del relativismo con il pontefice attuale?
Con continuità malgrado la diversità dell’approccio, perché papa Francesco ne ha enfatizzato maggiormente le conseguenze politiche, sociali ed economiche. L’antidoto resta il dialogo tra fede e ragione, ma non deve essere solo un’operazione culturale. Richiede anche un atteggiamento evangelico di carità cristiana verso chi soffre, che testimonierà a tutti come chi aiuta gli altri creda nella verità di Dio.