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tra cinema, libri e tv

La critica televisiva è morta e persino il docufilm su Gaber ne è rimasto vittima

Alfonso Berardinelli

La critica culturale è quasi del tutto sparita a vantaggio dell’informazione, per lo più ridotta a pubblicità. Giudicare è diventato un tabù

Ci si spreca nell’uso della parola “cultura”. Ma poi non se ne parla, non se ne discute. La critica culturale è quasi del tutto sparita a vantaggio dell’informazione, per lo più ridotta a pubblicità. Non esiste la critica filosofica, nel senso che non vengono discussi i libri di filosofia italiana da parte di chi insegna, studia e pratica la filosofia. La critica d’arte, quando si tratta di arte contemporanea, è ridotta a descrizione avalutativa e interpretazione apologetica: mai che si parli di non riuscita e di fallimento, perché sembra che l’etichetta meglio applicabile al presente sia quella di “estetica del fallimento”. Con le recensioni di letteratura, narrativa e poesia, ci si fanno soprattutto dei favori e se in tv si invita e si nomina uno scrittore, lo si definisce “grande scrittore” per chiedergli opinioni politiche che potrebbe dare un qualunque tassista: i tassisti filosofeggiano volentieri sulle nostre sventure pubbliche.

La critica cinematografica è sparita e gli spettatori guardano e approvano i film senza dire perché. Ma forse è ancora più grave che manchi la critica televisiva. Ricordo i tempi, solo apparentemente remoti, in cui Beniamino Placido la esercitava con passione e competenza. Tempi nei quali perfino io, da semplice spettatore neppure molto assiduo, arrivai a chiedere a un giornale una rubrica di critica televisiva che non mi venne mai concessa. Se ben ricordo lo feci perché fare il critico televisivo mi sembrava un modo per parlare di tutto e di come si parla di tutto al pubblico più largo e indifferenziato. Insomma, stancamente, distrattamente e senza reagire si consumano prodotti culturali da cui si è spesso annoiati o nauseati, eppure la cosa rimane un fatto privato che nessuno renderà pubblico. Questo è irrilevante? Forse sì e forse no. La cultura, meno la si giudica e più la si rende indifferente e prossima a un vizioso nulla a cui ci si rassegna come a una fatalità ineluttabile di cui la nostra vita deve sopportare inutilmente il peso. 


Solo un piccolo esempio. Abbiamo aspettato per un mese la trasmissione su Giorgio Gaber andata in onda la sera di Capodanno. Ma poi il programma annunciato e preliminarmente pubblicizzato così a lungo è stato una lunga delusione. Più si andava avanti e più Gaber spariva. Si vedevano delle immagini, ma sempre per meno di un minuto o poco più. Non si è riusciti a riascoltare neppure una delle sue canzoni più famose e amate (“La ballata del Cerutti”, “Il Riccardo”, “Torpedo blu”, “Lo shampoo”, “Far finta di essere sani”, ecc.). Si parlava di lui, erano molti i convitati a parlarne (sempre e solo con un paio di frasi). Ma poi, ogni volta, questo serviva a interrompere una canzone cantata che veniva bloccata dopo qualche battuta. Ricompariva così uno dei tanti, troppi testimoni, amici, commentatori, interpreti dell’uomo Gaber e di tutta un’epoca con i suoi problemi, a proposito dei quali sappiamo già quasi tutto e su cui sono stati scritti centinaia di articoli e libri ben più approfonditi e attendibili. Il vero e miglior Gaber, il cantautore naturalmente, veniva metodicamente cancellato. 


Ma neppure sulla Milano degli anni Sessanta e Settanta si è visto e sentito molto. Fo, Jannacci, Celentano, Mina: tutti nominati e mai ascoltati. Si vedevano i volti pensosi e commossi dei testimoni invitati, da Jovanotti a Fabio Fazio, da Capanna a Bersani. La cosa è andata avanti per due ore. Bersani, da assennato ex amministratore piacentino, ha toccato il punto che forse voleva essere centrale e dolente nella vicenda di Gaber artista: “Il problema esistenziale non te lo risolve la politica”. Questione dibattuta nel secolo scorso almeno dal tempo dei surrealisti e di Brecht fino a Fortini e Pasolini… Non si poteva parlare di questo limitandosi al caso Gaber, che pure è stato piuttosto eloquente. L’ultimo Gaber politicamente arrabbiato e deluso è un cantante che non vuole più cantare: parole urlate ma senza musica, perché la musica consola. Su questo non c’era molto da dire. Anche moralmente, se non politicamente più interessante, era la memorabile, inconfondibile atmosfera delle sue prime canzoni, le migliori. Per un momento si è sentito Gaber che ringrazia Capanna e il Sessantotto. Non doveva ringraziare. Ne era stato più danneggiato e confuso che altro.   
 

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