la recensione
"Sul tetto c'è Mendelssohn" di Jirí Weil, scrittore vero
La Storia, la vita e l’assurdo che si rincorrono tra commedia e tragedia
Einaudi mette le mani avanti. Prefazione alle intenzioni: perché mai – ci chiedono retoricamente a pag. V – dovresti, oh lettore, leggere uno come Jirí Weil, Carneade di una lingua impervia e remota (il ceco), Carneade del quale, per recuperare altri romanzi prima di questo (“Sul tetto c’è Mendelssohn”, 304 pp., 20 euro) bisogna fendere le nebbie del tempo e sbucare in un bigio 1970, quando a cura di Gianlorenzo Pacini vennero pubblicati – collana “Biblioteca di cultura moderna”, Laterza – due titoli come “La frontiera di Mosca”, suo esordio, e “Il cucchiaio di legno”, suo seguito? Per carità, volendo c’è anche il 1992, anno recente ma in realtà no, anzi, anno che sfiammella fatuo come un fuoco e appartiene ormai al Pleistocene (“gli anni Novanta bisogna averli vissuti per capire,” ha detto Alessandro Baricco nel podcast Wild Baricco), anno in cui, per una forma di scellerato ottimismo editoriale, venne pubblicato e copertinato afflittivamente “Una vita con la stella”, la provocatoria saga di un vigliacco che assomigliava a Weil – la critica stroncò entrambi, autore e proiezione narrativa – tradotta dal medesimo valoroso Giuseppe Dierna che, trent’anni dopo, si sarebbe occupato anche dell’edizione Einaudi che, oh lettore smarrito, ti trovi tra le mani e ti ha fatto viaggiare nel tempo editoriale come nemmeno H.G. Wells.
La risposta è scontata: perché Weil è uno scrittore vero. E la sua non solo è letteratura, ma della migliore. Cioè quella che sa tenere insieme ogni aspetto della vita e della Storia in un gesto rotondo e felice. Sì, Weil appartiene agli scrittori agili e felici, non tanto nel senso delle risate che pur ci regala senza avarizia e in cui, spesso, leggendo, ci si incaglia con gioiosa gratitudine, ma nel senso che la sua prosa, semplice e antimanieristica, è viva e galoppa e fila via sorridendo sulla superficie pattinabile della vita, quella in cui le cose accadono e non possono non accadere, mosse da una necessità imperscrutabile venata – però – sempre di assurdo. L’assurdo e le sue note, i suoi stridori, i suoi diesis.
La Storia e la vita: ecco in sintesi l’opera di Weil, un’opera che rende conto dei piccoli squilibri e delle grandi incongruenze, dell’inverosimile sempre al lavoro, tanto a minare le esistenze dei singoli ometti (sembrano tutti ometti, e più sono gallonati e più sono ometti) quanto quella dei cosiddetti grandi eventi. Ci perdoni Philip Roth ma qui, più che Babel’, c’è molto Kafka, il più grande scrittore comico di sempre. E ci sono nazisti ripugnanti e fatui, Praga occupata, tragedie che sembrano commedie e commedie che risolvono in tragedia, la deriva ilare delle cose tremende. C’è una statua dell’ebreo Mendelssohn da rimuovere e un affaccendarsi semi-slapstik intorno al busto del musicista sbagliato. C’è Rudolf Vorlitzer e i suoi giorni tutti contro il soffitto – ore a fissarlo in un letto d’ospedale dopo che il suo corpo ha deciso di ammalarsi e di “diventare come pietra”; non così il cervello, che intanto viaggia avanti e indietro tra la gita sul fiume con l’amico Jan Krulis conosciuto anni prima in un caffè alla moda in cui gli avventori leggevano Rimbaud e il solito girotondo luttuoso di amici in visita, e poi dottori e studenti di medicina venuti a vedere lui e la sua rarissima malattia, e le notizie di tutto ciò che gli sarà per sempre estraneo, il mondo di fuori, di fragori e deportazioni, mentre Rudolf trema di preoccupazione per le figlie della sorella, cui aveva garantito, anzi, giurato, tutela. E sorride, ogni tanto, Rudolf, perché “il viso non gli si era ancora pietrificato”, ma fino a quando? C’è Krug, lo Scharfuhrer. E c’è il portiere Reisinger. Ci sono pletore di superiori e sottoposti, il formicaio inane delle Waffen-SS e degli uffici dello Zentralamt, uffici in cui “la morte è in agguato”, insediata nelle firme e nelle iniziali, nei timbri e nei questionari. Ci sono ordinanze e ladrocinio, brutture che irrompono e delicatezze strappate al precipizio – e un Mozart di cui frega niente a nessuno e vite in scadenza, su decine e decine di convogli piombati che non torneranno mai più indietro.
Per una volta, senza tentennamenti: un romanzo che bisogna leggere.