tra arte e realtà
A Venezia in mostra le opere del fotogiornalista David Seymour
Dagli scatti della Guerra di Spagna al suggestivo Canal Grande, l'esposizione curata da Marco Minuz a Palazzo Grimani si muove attraverso vere e proprie stanze di senso che offrono al visitatore la forza espressiva dell'artista
Nella valigia ritrovata fortunosamente in Messico nel 1995, tra gli oltre cento rullini fotografici e gli oltre quattromila negativi è possibile sintetizzare la nascita del fotogiornalismo moderno. Quegli scatti mitici fatti durante la Guerra di Spagna tra il 1936 e il 1939 non solo mostrano per la prima volta la forza narrativa della fotografia che si fa sintesi coagulando il gesto artistico e il documento storico, ma l’originalità di un gesto che sta tutto nella rapidità di uno sguardo, quello che fu di Garda Taro, Robert Capa e forse del meno noto di loro – almeno al grande pubblico – David Seymour. Una grande mostra a Venezia, inaugurata a inizio dicembre a Palazzo Grimani e aperta fino a metà marzo, e dal titolo “David ‘Chim’ Seymour, Il Mondo e Venezia”, racconta con oltre duecento pezzi tra fotografie e documenti la fotografia di David Seymour, nato David Szymin a Varsavia (da qui il nomignolo “Chim”) nel 1911. Parigino di adozione, Seymour segue corsi di Fisica alla Sorbona e nel frattempo diviene freelance collaborando con giornali come Paris-Soir e Regards, ma sarà l’incontro con Henri Cartier-Bresson inizialmente e con Robert Capa successivamente a dare una svolta decisiva alla propria carriera. Con Capa fonderà l’Agenzia Magnum di cui diverrà presidente alla morte dell’amico, morte che coglierà Seymour appena due anni dopo, nel 1956 in Egitto, insieme al fotografo Jean Roy, durante la crisi del Canale di Suez.
La mostra curata da Marco Minuz a Palazzo Grimani si muove attraverso vere e proprie stanze di senso che offrono al visitatore la forza espressiva di David Seymour, capace di fondere uno sguardo originale e a tratti ironico, come nello scatto veneziano che vede in primo piano una stazione di servizio Esso sul Canal Grande: un benzinaio adagiato su una sdraio e una gondola in avvicinamento. Proprio la composizione di questa fotografia è rappresentativa di un pensiero fatto di equilibrio estetico e necessità documentaria. Un binomio che non abbandona mai Seymour sia negli scatti di guerra così come nelle immagini come quella veneziana che fanno parte di un progetto dedicato all’Europa del Dopoguerra. Uno scatto umano, per dirla con Mario Dondero che a figure come Seymour e Capa in particolare si è sempre ispirato, ovvero la capacità di tenere fortemente vivida una tensione tra l’arte e la realtà, un obbligo che diviene tanto morale quanto naturale. Un gesto per certi versi ovvio che produce relazioni e amicizie. Una curiosità dunque mai fine a se stessa e tanto meno utilitaristica. Si può vagare dentro Palazzo Grimani affondando nella luce dei giorni assolati dell’inverno veneziano cogliendo di volta in volta con assoluta divertita distrazione lo scatto di una celebrità, come ad esempio quello bellissimo di Audrey Hepburn del 1956 o i ritratti dei ragazzini, i bambini della guerra, un reportage fatto da Seymour nel 1948. Una distanza evidentemente abissale separa questi mondi, eppure lo stile di Seymour si pone come rivelatore di una verità sempre sostanziale che contiene nei suoi soggetti forza e fragilità in totale evidenza. Uno stile che diviene un filo, una connessione capace di legare ogni sua fotografia. Dimostrazione di come l’autorialità di un fotoreporter non possa mai escludere l’oggetto del suo sguardo se vuole farlo divenire il soggetto della sua fotografia. Un’unica fotografia replicata per tutti i giorni e gli anni della propria vita in nome di una storia umana di amicizia e solidarietà, di passione e rigore. Un discorso fotografico assoluto e penetrante.
Perché Leonardo passa a Brera