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A mensa con le Kessler. La mitica Telescuola raccontata da chi la frequentava

Pierluigi Battista

Quando il servizio pubblico mandava in onda vere lezioni per alfabetizzare l’Italia del Boom. L’esame riparatore di Arte, l’autografo di Corrado e una Rai che non c’è più

A mensa andavamo con le gemelle Kessler, e con il Quartetto Cetra. Era la mensa della Rai, alle spalle di via Teulada. Muniti di vassoi di fòrmica e fogliettini di diverso colore, uno per i primi, uno per i secondi, uno per la frutta, anche noi ragazzini di Telescuola, vigilati dalle “signorine” Rai che sovrintendevano al buon andamento del nostro iter scolastico, trascorrevamo la pausa pranzo sui tavoli occupati da tutte le categorie della televisione pubblica: dalla gran folla di tecnici e funzionari ai grandi attori e alle grandi attrici, dai protagonisti degli show nazional-popolari come “Studio uno” ai mezzibusti del tg, a tutti i dipendenti della tv di stato che in regime di assoluto e regale monopolio aveva cominciato a trasmettere i suoi programmi nel 1954, esattamente settant’anni fa. In mensa c’era anche il maestro Alberto Manzi che con il suo leggendario “Non è mai troppo tardi” insegnava i primi rudimenti della nostra lingua agli anziani di un’Italia ancora immersa nelle tenebre dell’analfabetismo e si impiastricciava le dita con il gessetto nero per scrivere sulla lavagna di carta bianca le lettere del nostro alfabeto, con calligrafia inappuntabile. Tra il 1965 e il 1967 c’eravamo noi di Telescuola, tre maschi e tre femmine per ogni classe, dalla prima alla terza media.


La domanda è: che diavolo ci facevo lì? Apro una breve parentesi storiografica per dimostrare che non sedevo alla mensa Rai come un abusivo. Nel 1962 era passata una riforma tra le più civili (e più scioccamente dimenticate) della storia repubblicana – ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui – detta anche della “scuola media unificata”, che innalzava l’obbligo scolastico fino ai 14 anni di età, il passo decisivo per l’imporsi della scolarizzazione di massa nell’Italia travolta dal boom economico. Solo che tantissimi piccoli paesi, borghi e villaggi, ancora inchiodati a un passato non vivificato dai benefici della modernità, non disponevano in quegli anni delle strutture necessarie per accogliere in apposite aule collocate in appositi istituti scolastici tutta la folla dei baby boomer ignari di scuola media. Ma a questa mancanza sopperì per un certo numero di anni la Rai, che a quel tempo faceva davvero servizio pubblico (monopolistico), che lavorava come servizio pubblico (monopolistico), e dava una mano all’alfabetizzazione nazionale come un servizio pubblico (monopolistico) e perciò meritevole di uno specifico finanziamento pubblico detto “canone” che oggi, in regime di spinto e inarrestabile pluralismo, non merita più, non svolgendo più decentemente il suo ruolo di servizio pubblico. E così, un numero elevatissimo di autisti rigorosamente Rai, a bordo dei loro pulmini rigorosamente Rai, battevano ogni giorno strade, viottoli e sentieri d’Italia per raccogliere tutti i neo-studenti della scuola media e condurli, una volta raggruppati, nella più vicina sede Rai dove, con la supervisione di professoresse e professori, tutte le mattine i ragazzi si sintonizzavano con la tv di stato per seguire le lezioni di Telescuola. Lezioni vere, con professori veri, con libri di testo veri, con veri compiti assegnati, ogni lezione di circa quaranta minuti (veri) cinque mattine alla settimana senza pubblicità (servizio pubblico vero), orario scolastico vero. Una grande impresa: mettevi insieme Alberto Manzi e Telescuola, gli sceneggiati tratti dai grandi romanzi e un intrattenimento lontano dal trash, e l’Italia cambiava volto accompagnata dalla Rai. I soliti intellettuali apocalittici facevano i sussiegosi, ma allora come oggi non ne azzeccavano una e perciò non capirono che l’alfabetizzazione degli italiani passava anche, anzi soprattutto, dal piccolo schermo. E se ne offendevano, malmostosi come sempre.


Va bene, ma torna impellente la domanda: io, allora quasi undicenne, che diavolo c’entravo con l’alfabetizzazione dell’Italia? C’entravo. Perché nelle case di un po’ di studenti delle scuole situate nei paraggi di via Teulada, studenti e studentesse che potevano vantare un curriculum senza troppe macchie e avevano superato brillantemente l’esame della quinta elementare, arrivò in estate una lettera in cui si chiedeva cortesemente di consentire alle proprie figlie e ai propri figli di sottoporsi a un provino per Telescuola. Nessuno in famiglia sapeva cosa fosse “Telescuola”, però mia madre, molto incuriosita, mi accompagnò al provino, che poi consisteva in un po’ di domande generiche per soppesare lo stato della mia parlantina e della mia disinvoltura e qualche primo piano davanti a una telecamera per valutare se il candidato per caso fosse anche telegenico e non telerepellente, secondo criteri assolutamente misteriosi. Non so perché i commissari preposti alla selezione abbiano scelto proprio quel ragazzino, cioè me, che proveniva dalla scuola elementare “Ermenegildo Pistelli” (nella mia vita non ho mai conosciuto nessuno che si chiamasse Ermenegildo) a un passo da Viale Mazzini, con i capelli tagliati a spazzola come i marines nella guerra del Vietnam e una gigantesca montatura nera a far da cornice alle spesse lenti di precoce ipermetrope astigmatico. Fatto sta che scelsero me per la prima media dell’anno ‘65-’66, insieme ad altri due compagni maschi, Enzo e Virgilio, e tre compagne, Elisabetta, Gianna e Alessandra (una fuoriclasse nelle parole crociate di cui ero innamorato, non ricambiato). Io ne ero fiero, anche se i miei amici presero male la cosa perché sostenevano che, complice il piccolo schermo, mi sarei avviato sulla deplorevole strada del fighettume, parola onnicomprensiva che alludeva squadristicamente a tante altre cose che non sto qui a specificare. Mio padre, avvocato molto severo che teneva religiosamente alla propria rispettabilità e ai suoi occhi la scuola in tv non era sufficientemente rispettabile, si mostrò sulle prime risolutamente contrario: “Pierluigi si monterà la testa” (vabbè, Pigi). Mia madre era blandamente contraria, ma le sue amiche entusiaste la fecero virare per un sì condizionato. In una famiglia mediamente patriarcale il sì incondizionato era solo quello del padre, e mio padre alla fine dovette cedere: Con un però: “Alla prima sensazione che ti sei montato la testa, ti faccio tornare subito in una scuola normale. Mi hai capito bene Pierluigi?” (vabbè, Pigi).


E così entrai a Telescuola, che era una scuola normalissima, nel senso della serietà. Tanto è vero che alla fine di ogni anno scolastico dovevamo affrontare gli esami di idoneità per metterci in pari con la scuola pubblica: fui promosso a pieni voti a quelli della prima media, ma a quelli della seconda fui rimandato in Educazione artistica e i miei – soprattutto mia madre che teneva le redini della disciplina – invece di sostenermi mentre subivo un’ingiustizia suprema, mi costrinsero a passare l’estate disegnando nature morte e profili di catene montagnose che facevano da maestoso sfondo alla nostra casa sulle Dolomiti. Gli esaminatori motivarono l’atroce sentenza con la mia presunta colpa di averli presi in giro. Il tema della composizione era “Cosa vedi da casa tua la notte” e io a pennellate dense avevo riempito tutto il foglio con un blocco compatto di nero, con qualche puntino giallo a rappresentare le stelle e un minuscolo spicchio, sempre giallo, a rappresentare la luna, senza traccia alcuna di luminosità che potesse schiarire quel pozzo di nero. Ma io non volevo prendere in giro nessuno: era solo l’ambizione di dare un tocco avanguardistico alla mia totale inettitudine nelle pratiche artistiche manuali.


I miei due anni di Telescuola, oltre alla routine quotidiana della mensa con le gemelle Kessler, prevedevano scadenze ed erano ordinati secondo orari precisi. Nell’edificio di via Novaro a fianco di via Teulada che ospitava gli studi (lo stesso edificio che oggi ospita quelli di La 7) venivamo convocati alle dirette delle lezioni. Nello studio c’erano i banchi per noi, una lavagna e una cattedra dove si alternavano i docenti di tutte le materie, italiano, matematica, inglese, storia, eccetera, come in tutte le scuole che mio padre avrebbe chiamato “normali”. Attorno al piccolo spazio illuminato dai riflettori appesi sul soffitto c’erano una lunga gru con il microfono da direzionare, detta “giraffa” (senza i microfoni individuali era impossibile sovrapporre le voci e incanaglirsi nelle risse verbali come accade nei talk odierni), due telecamere con i cameramen seduti su una seggiola per le (rare) riprese dall’alto e il direttore di studio che lanciava invettive per ogni minima imperfezione. Tranne noi studenti, fumavano tutti, tutti i tecnici e quasi tutti i docenti. Le lezioni più appassionanti erano quelle di italiano della professoressa Monelli, figlia del giornalista e scrittore Paolo Monelli, che, membro del primo gruppo degli “Amici della domenica”, fu tra i fondatori del Premio Strega. E qui la normalità finiva, perché la professoressa Monelli accompagnava le sue lezioni con letture dei versi di Dante e di Foscolo e dei passi salienti del Manzoni affidate ai protagonisti dei teatri di allora come Renzo Palmer e Nando Gazzolo. La normalità finiva anche per me, perché le dirette mostravano impietosamente debolezze, lacune, gaffe, imperizie. Per esempio il professore di Educazione artistica (sempre lui) chiamava le telecamere a indugiare con abili primi piani sulle teste di creta che noi sei allievi stavamo esercitandoci a formare con quel materiale appiccicaticcio, ma non appena la telecamera 2 si concesse l’inizio di un’attenta panoramica sul mio lavoro in fieri, dalla regia, con adeguato accompagnamento delle invettive del direttore di studio, venne imperiosamente disposto di spegnere la 2 e cambiare immagine con la 1: evidentemente la bruttezza della mia opera appariva troppo imbarazzante e diseducativa. Un’altra volta fu il docente di Educazione fisica ad intimarmi di togliere i miei poco atletici occhiali prima della corsetta di riscaldamento che consisteva nel girare in tondo nella parte illuminata dai riflettori: purtroppo per me e per Telescuola io andai a sbattere contro la giraffa e stavolta le imprecazioni furono due, quella del direttore e quella del docente imprudente. Finito il ciclo di lezioni si andava a mangiare in mensa e a fare incetta di autografi dei personaggi famosi (ne ho uno di Corrado, oltre a svariate foto con le Kessler). Poi, se era bel tempo e non faceva troppo tardi, un pulmino ci portava ai campi sportivi della Rai a Tor di Quinto. Infine a via Novaro per fare i compiti (veri) fino al tardo pomeriggio, con la prospettiva delle interrogazioni (vere) dell’indomani.


Oltre agli allievi raggruppati nelle sedi Rai di tutta Italia, Telescuola aveva molti spettatori: per esempio mia madre che controllava che rispondessi bene alle interrogazioni (vere) e  indossassi l’orologio che sostenevo di aver smarrito il giorno prima in classe; e i miei amici quando avevano l’influenza e dovevano restare a casa e che mi avrebbero preso in giro senza requie per il resto dei giorni. Qui e lì c’era qualche coetaneo sconosciuto che ci guardava e quando un giorno alla stazione di Bolzano una ragazzina mi indicò a sua madre dicendo “ma quello è Pier…” senza nemmeno far concludere l’agnizione mio padre mi strattonò via e dichiarò che mi avrebbe mandato via da Telescuola perché mi stavo “montando la testa”. Un’altra spettatrice molto severa e professionale era la mitica “signorina Boncompagni” (la chiamavano tutti così), l’insegnante di dizione, officiante di un rito prezioso in una Rai che nella missione di alfabetizzare gli italiani e di liberarli dalla prigione soffocante dei dialetti come unica forma di espressione non tollerava inflessioni localiste, difetti di pronuncia e sciatterie lessicali di un romano-centrismo che invece oggi è diventato molto di moda. Con lei ricordo interminabili sedute in cui ci ammaestrava a pronunciare correttamente “pasta e ceci” e “dodici”, “tredici” e così via mentre il nostro istinto capitolino ci trascinava a pronunciare “pasta e cesci”, “dodisci”, “tredisci” e via così. Alla fine la signorina Boncompagni vinse la battaglia della pasta e ceci, ma lasciati senza briglie saremmo tutti tornati in seguito alla “pasta e cesci”, perché come diceva Kant non si può raddrizzare il legno storto dell’umanità. Però nel frattempo era cambiata l’Italia. Erano arrivate le aule (e i doppi e i tripli turni) prima dell’inverno demografico che le svuoterà. Telescuola chiuse e io frequentai la terza media in una scuola normale, come voleva mio padre.


Questo è stato il mio fondamentale contributo all’alfabetizzazione degli italiani. Purtroppo dovete prendermi in parola perché negli archivi della Rai le bobine con le registrazioni di Telescuola ci sono ma andrebbero in frantumi al primo contatto e quindi resteranno eternamente invisibili. L’Italia si è alfabetizzata con la tv, la signorina Boncompagni insegnante di dizione aveva concluso con successo la sua missione, senza prevedere però che di lì a qualche decennio l’analfabetismo di ritorno avrebbe fatto passi da gigante e in televisione tutti avrebbero parlato un italiano sgangherato. Anche il servizio pubblico della Rai, a settant’anni dal 1954, non c’è più. E neanche gli autisti Rai che andavano a prendere con il pulmino Rai gli studenti della nuova scuola media che vivevano nei piccoli borghi. Oramai svuotati, come le aule scolastiche dell’inverno demografico.

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