Napoli canta malafemmena. Patriarcato? Sì, ma anche le matriarche non scherzavano
Ce n’è di materiale per la censura corrente: corna, corteggiamenti sfrontati, violenze. Ma l’ironia partenopea sa anche sdrammatizzare: “Ma pecché ce tiene ancora si chist’ommo è senza core… pecché?”
Cuori ingrati e malefemmine. Reginelle, lazzarelle e maruzzelle. Amate e idealizzate oppure deprecate e offese per ripicca dopo un rifiuto, per un paio di corna o per eccessivo indugio sentimentale. C’è abbondante materiale d’accusa perché la ghigliottina della correttezza s’abbatta sulle canzoni napoletane, decapitando nella tomba poeti e parolieri assieme ai musicisti che concorsero al reato. Neanche scamperebbero alla pena gli epigoni viventi fino al più o meno misterioso Liberato, che assurse a notorietà lamentando il tradimento subìto un Nove maggio, questo il titolo del brano, e che ancora se la prende con Partenope, archetipo di femminilità vorace, Sirena mangiatrice di un ragazzo goduto dappertutto e piantato all’improvviso, secondo la modalità che oggi i migliori della classe definiscono “ghosting”.
Già la storia di un patrimonio ricchissimo, addirittura sterminato, di note e di parole comincerebbe male per la censura corrente, perché ai primordi della canzone classica napoletana si colloca per convenzione Michelemmà, ballabile secentesco che racconta di un’incursione piratesca dal mare e della figlia di un notaio giocata tra gli stupratori turchi. È per mero caso che su questo spartito, un tempo falsamente attribuito a Salvator Rosa, non si siano puntati ancora gli indici di qualche studentessa di musicologia, mentre le loro colleghe di storia dell’arte bollano l’esposizione genovese di Artemisia Gentileschi per la narrazione biografica del suo stupro quale “pornografia del dolore”, denunciando la mostra per la “problematicità” (vocabolo che andrebbe sottoposto a tassazione). Da Michelemmà a scendere si prosegue con struggimenti e palpiti, disillusioni e dispetti, nostalgie e sfottò, con testi e melodie che oscillano tra odi et amo, carnalità e platonicità, fra l’introversa atmosfera di gelide mansarde vista mare e il desiderio di una spiccia relazione al pianterreno vista vicolo. “E levate ‘a cammesella” potrebbe essere lo slogan degli innamorati meno diafani, come l’invito della celebre canzone duettata tra una finta timida e il fomentato pretendente, che la convince a spogliarsi fino al massimo consentito dalle squadre buoncostume nei teatri degli ultimi due secoli. Tra molestia e tentazione (perché non solo i maschi son fatti di carne), tra la tagliola del Codice penale e un corteggiamento sfrontato, c’era una volta un passo assai più lungo di adesso.
Cantarlo non è ancora diventato sconsigliabile, ma è forse già nella sospetta lista un classico come ’E spingule francese. Parole di Salvatore Di Giacomo su musica di Enrico De Leva, ha per protagonista un venditore ambulante di spille che rivolge proposte oscene a un’acquirente: “Si tu mme daje tre o quattro vase, / te dongo tutt’e spingule frangese…”. L’invito osé – baci in cambio di spille – non è mitigato dalla rassicurazione che “pizzeche e vase nun fanno pertuse”. Le dita e le labbra non producono buchi, saggio viatico che un tempo (non molto tempo fa) i padri consegnavano ai giovani maschi, e le madri alle femmine, affinché non si compromettessero prima del matrimonio con più intimi azzardi. Società patriarcale? Ebbene sì. Ma neanche le matriarche scherzavano. Se i padri amministrarono le apparenze, chi vigilava sul sancta sanctorum della probità filiale, la custode dei pertugi era lei. Era mammà. Non siamo più nell’Ottocento ma nel secondo dopoguerra, 1955, sicché un decennio è trascorso da quando “’e ssegnurine ’e Capodichino / fanno ammore cu ’e marrucchine”, come recitava un’apocrifa strofa aggiunta a Tammurriata nera. La “nottata” che nel 1945, secondo Eduardo, doveva passare, era passata o quantomeno albeggiava. Le peccaminose settimane della Tammurriata, coi figli “nire” come souvenir delle truppe di colore, si dovevano dimenticare in virtù del ricomposto perbenismo, sicché possiamo citare almeno una generazione di lettori a testimoni che la canzone Io, màmmeta e tu, opera del duo geniale Riccardo Pazzaglia-Domenico Modugno, non fu caricatura ma puro neorealismo borghese: i fidanzati passeggiano per la centrale via Toledo però con “màmmeta arreto”, con la madre di lei alle calcagna, “sempe appriesse, cos’e pazze, / chesta vene pure a ’o viaggio ’e nozze: / jamm’o cinema, a ballà… / si cercammo ’e ce squaglià / comme a ’nu carabiniere, / chella vene a ce afferrà”. Nemmeno una febbre inibisce la matriarca, perché si farà supplire nella sorveglianza dalla sorella più piccola della scortata (con conseguente esasperazione del represso fidanzato). Se l’occhiuta guardianìa s’allentasse, accadrebbe il paventato patatrac, malgrado i “quattro schiaffi” che il padre ha appioppato alla figlia quando le ha scovato un bigliettino di “chillu llà”. Questa è già un’altra storia, sempre del duo Pazzaglia-Modugno, e sta in un’altra canzone, Lazzarella, che diventerà l’appellativo per le ragazzine dall’indole più incauta costrette – a “guaio” avvenuto – a passare dai banchi del liceo classico Genovesi all’altare della contigua chiesa del Gesù per celebrare un frettoloso matrimonio.
Padri schiaffeggiatori e fidanzati violenti emergono qua e là dietro un accordo o un intervallo di quinta, incerti fra coltello e mandolino, supplicando un bacio a Maruzzella dalla “vucchella”, la boccuccia, “ca, pe’ mm’avvelenà, / ’e zuccaro se fa…” (qui il tandem autoriale è Bonagura/Carosone). Sessismo e maschilismo. Forse sì, ma non sempre garantiscono la reputazione. Non fa bella figura il mammasantissima di Libero Bovio nella famosa Guapparia, il quale ha perso l’autorevolezza a furia di implorare la riottosa a suon di serenate e svergognato esclama: “Cacciatammenne ’a dint’a suggità!”, cioè “espelletemi dalla consorteria camorristica”. Non offre miglior prova ’O guappo ’nnammurato di Raffaele Viviani: trattato da “uomo di paglia” dalla sua adorata, per preservare la faccia nell’ambiente della malavita minaccia di tagliare quella di lei.
Catartica è la canzone quando sdrammatizza la violenza con l’ironia e rilegge la cronaca con gli occhiali delle parodie. Seduti ai Caffè, verseggiatori e musicisti commentavano assiduamente le gazzette ma poi le riscrivevano. Il guappo di Viviani o quello della Serenata ’e Pulecenella (ennesimo tough guy ridotto a “pupo” per amore) gemmarono dalle colonne di “nera”. Accadde per esempio quando morì il mitizzato capintesta Ciccio Cappuccio e la società criminale elesse a successore transitorio tal Giuseppe Chirico, detto “il granatiere” perché superava il metro e novanta, ma per indole pavida non aveva mai affrontato un duello. S’incaricò di riabilitarlo la stessa sposa nel giorno delle nozze, quando al fatidico istante pronunciò un sorprendente “no” invece del “sì”. Inevitabile fu la reazione dell’uomo “d’onore”, per quanto allampanato come “il granatiere”: uscito dalla chiesa si procurò un rasoio e la sfregiò davanti a tutti. Era il gesto desiderato: “Adesso sì che ti voglio sposare”, dichiarò la vittima sanguinante. “Un capintesta deve sapere come comportarsi”. Trasposta in musica, la dimensione femminile si manifesta in tutta la sua “ambivalenza”, nota lo storico della canzone Pasquale Scialò. Se si scrolla di dosso i panni della succube, la donna scivola da santa a sciantosa, da madonnina a malafemmina. Qui ti volevo: la correttezza arcobaleno, che prende ogni metafora alla lettera, è miope circa le sfumate tinte della metafora, del sottotesto scherzoso, dell’amorosa iperbole. Sicché la Malafemmena par excellence, firmata da Totò, già invoglia a far le punte alla matita rossa e blu: “Si avisse fatto ’a n’ato chello ch’hê fatto a mme, / st’ommo t’avesse acciso / e vuo’ sapé pecché? / Pecché ’ncopp’a ’sta terra / femmene comme a tte / nun ce hann’a stà pe’ n’ommo / onesto comme a mme!”.
Caro principe de Curtis, perdonate chi censurerebbe le parole con cui sfogaste il dolore per l’abbandono – giustificato o meno – di Diana Bandini Rogliani, che voi stesso non avevate più voluto per moglie ma che non tolleravate moglie di nessun altro. La canzone ottenne lo straordinario successo che sappiamo, però a Totò quelle royalties non interessavano, come rivela l’epilogo della vicenda descritto da sua figlia Liliana. Una sera, sei anni dopo l’uscita del brano, lui telefona a Diana, che si è intanto separata dal secondo marito, per invitarla a visitare il nuovo appartamento dove è andato a vivere con Franca Faldini. Completato il giro delle stanze, il principe sfila da un album lo spartito: “Questa è tutta tua”, le dice. “Sei stata tu a ispirarmi. Le canzoni mi hanno reso molto e in un certo senso mi sento in debito con te. Dimmi, ti piacerebbe avere una casa di tua proprietà? Non c’è bisogno che risponda, perché ho già deciso di comprartela con i soldi che ho guadagnato con Malafemmena”. Magari patriarcale, sicuramente principe, non toccateci Totò. S’infuria se solo ci pensa Marisa Laurito, che alla direzione artistica del Teatro Trianon Viviani custodisce il repertorio napoletano e ha appena lanciato una canzone, scritta per lei da Lorenzo Hengeller, dall’esplicito titolo Nun se po’ cchiù parlà, esilarante manifesto contro gli abusi del politicamente corretto: non si può più dire mamma e papà, non si può mangiare un filetto, un fischio per strada è già molestia sessuale, il principe azzurro non può baciare Biancaneve perché lei non è consenziente. E ancora: “Per non fare body shaming i sette nani comme l’aggia chiammà?”. “Non chiamarmi femminuccia, neanche donna con le palle, ma puoi dire gay bisex gender queer pansessuale…”.
“Per adeguarsi a certi parametri ridicoli o cretini bisognerebbe cancellare la maggior parte delle canzoni napoletane, che trattano d’amore ma anche di possesso della donna, e come tanti capolavori del passato vanno inquadrate nel periodo in cui nacquero anche per imparare dagli errori”, avverte Marisa Laurito. “Malafemmena è stupenda, e se Totò così la scrisse in un momento di dolore, forse è perché neanche le donne sono sempre state tutte stinchi di sante. Quando penso a lui, o ai testi di Pazzaglia, mi viene da paragonare quella leggerezza intellettuale, che non significa superficialità, alla pesantezza dei censori di adesso, incapaci di farsi una bella risata, che s’attaccano al bilancino delle parole come se, cambiando queste, si potesse modificare il senso delle cose”. Laurito non crede che oggi sussistano gli effetti postumi del patriarcato: “Per l’orrore dei femminicidi non cerco le radici della colpa nella società patriarcale, ma nella rottura di certi equilibri famigliari e nella perdita di autorità della scuola. I ragazzi che si macchiano di violenza neanche hanno idea di cosa sia il patriarcato, piuttosto non hanno le spalle tanto solide da reggere una delusione o l’abbandono, e reagiscono come se la realtà fosse quella che hanno appreso sulla PlayStation o dalla tv”. Le canzoni non c’entrano: “Il mio suggerimento è smetterla di concepire la vita come se fosse una di quelle gare di cui traboccano i palinsesti televisivi. Tantomeno è una competizione tra uomini e donne che qualcuno deve vincere. Considerando gli effetti, direi che non si dovrebbe alimentare questa guerra di genere. Più che la lotta, va sviluppata la capacità di camminare insieme”.
Non occorre sentenziare “scurdammoce ’o passato” né rimettere la “cammesella” a chi se l’era tolta. Neppure trascinare i venditori delle spille francesi dinanzi al tribunale della Storia. Reginella, che appena diventata soubrette di successo pensa solo “distrattamente” all’antico innamorato, non sarà una paladina del #MeToo ma resterà un’ambiziosa pragmatica. La protagonista di Core ’ngrato, l’irremovibile Caterina – forse il nome più gettonato della canzone napoletana fra Otto e Novecento – non denuncerà per stalking l’ex amante cui oppone solo “parole amare”. E l’amante presto o poi si rassegnerà perché non tutto il male vien per nuocere e si consolerà con più disponibili amiche, come prescrisse Murolo padre (Ernesto) nelle liberatorie strofe di Penzammo ’a salute, raffrontando la generosità di certe ballerine alla parsimonia sensuale della ex: “Pe’ avé n’abbraccio ’a te nun pare overo, / avev’a fa’ n’esposto ’o Ministero… / me facive sperì!” (“me lo facevi agognare”). Spesso è di questo genere la vendetta evocata, una rivalsa ad abundantiam, perché a seconda dell’indole i salmi amorosi non finiscono in lacrime ma nella massima gloria (del maschilismo). Come insegna ’O malamente di Viviani, altro guappo deluso che non risponde con lo sfregio al tradimento purché non si risappia delle corna nel quartiere. Si procura piuttosto un’altra amante. Anzi, mica una sola: “Tengo a cinquanta femmene ’e riserva… / C’è l’avvenente, ce sta l’affascinante… / e ognuna ’e cheste me facesse ’a serva, / p’o sfizio ’e se vedé vicino a me”. Se così vanno le cose, avrà voglia di piangere l’emigrato di Michele Galdieri in Munasterio ’e Santa Chiara, guarda caso coeva della Tammurriata nera, al quale riferiscono che le ragazze quando perdono un amante “già ne teneno ati cciente / ca, ’na femmena ’nnucente, / dice ’a gente, nun c’è cchiù”. Per par condicio, o forse per “l’ambivalenza” della dimensione femminile sopra evocata, anche le donne si consolavano benché sfidando la riprovazione.C’era chi s’emancipava con la seduzione e chi con la ribellione, dai tempi della “mossa” di Ninì Tirabusciò e Lilì Kangy ai più recenti dell’èra neomelodica: Scialò cita a esempio, nella Storia della canzone napoletana, il brano ’A libertà di Stefania Lay, del 1996, in cui un’adolescente si sbarazza del fidanzatino manesco che le tiene “sotto chiave il sorriso” con un definitivo “vafanculo”. Esortazione che forse anche reginelle e maruzzelle spesso rimuginarono, ma non ebbero il coraggio (sociale e letterario) di profferire.
E’ sintomo di un retaggio culturale meno permeabile alle mode che a Napoli siano proprio le studiose a temperare gli eccessi del politicamente corretto. Sulla scia di Marisa Laurito l’accademica Simona Frasca, docente di Etnomusicologia all’Università Federico II e autrice del saggio Mixed by Erry, da cui è stato tratto l’omonimo film, crede che la canzone napoletana possa dare “un serio contributo all’indagine sulle dinamiche di genere e che gli stereotipi non siano una costante, anche se servirono a intercettare il gusto della maggioranza”. Frasca ricorda il caso di Ria Rosa, nome d’arte di Maria Rosaria Liberti, nata ai Quartieri Spagnoli ma che sfondò a New York negli anni Venti e Trenta diventando una star di Little Italy. Qualcuno l’ha definita protofemminista, altri solo un’antagonista comica senza pretese sociologiche. Certo fu, al di là delle etichette, una dissacratrice dei costumi borghesi e dell’egemonia maschile: “Una voce del dissenso popolare femminile che non si rivolgeva solo al rapporto tra uomo e donna”, ricorda Simona Frasca, “ma guardava anche agli eventi pubblici, prendendo posizione sulla condanna a morte degli anarchici Sacco e Vanzetti o contestando il mito americano”. Ria Rosa con le sue “macchiette” fu il simbolo della donna che esibisce in palcoscenico, invece della “mossa”, l’arma dello sfottò sfidando il pubblico maschile dei café chantant “senza particolare enfasi ideologica, ma in grande discontinuità con il modello femminile proposto dagli uomini”. Emblematica è la canzone Preferisco il ’900 del 1937: “La donna d’oggi, è inutile negarlo, / non è più la vile ancella…”, vuol fumare, abbronzarsi sulla spiaggia e indossare i pantaloni. Basta con la gonnella, quella “’a metto ’ncuollo a te!”, dice Ria Rosa al fidanzato che “non è moderno” e al quale piace ancora l’Ottocento. Nel 1940 con il brano Non mi seccare si spinge oltre, invitando al suicidio lo spasimante abbandonato. Che si spari o si getti dal Ponte della Sanità (luogo tristemente noto perché molti si uccidevano precipitandosi da lì): “Stupido! Stupido! Non sei per niente scaltro. / Io fra un mese mi sposo a un altro / e tu resti come un cretin. / Stupido! Stupido! / Sparati… sparati… / Si nun te vuò sparà / allora sai che hê ’a fà? / Ce sta ’o ponte â Sanità”. Qualora lo sventurato non avesse gradito le opzioni, pistola o ponte, gli suggeriva come terza scelta la morte per annegamento: “Sulo a mmare t’hê jettà!”. Con questo invito terminava l’atroce canzonetta, che oggi forse non passerebbe la selezione di Sanremo: la scabrosità del tema prevale anche sul taglio comico.
“Ma per la Storia, anche quella della canzone napoletana, non si possono selezionare repertori e forme solo in quanto assecondino o compiacciano il pensiero odierno”, osserva Francesca Seller, docente di Storia della musica al Conservatorio Giuseppe Martucci di Salerno. “È necessario conoscere e illustrare tutto ciò che appartiene al nostro passato, su cui si fonda il nostro presente”. Seller cita il caso di Carosello napoletano di Ettore Giannini, che fu prima spettacolo di “teatro totale” e poi film campione di incassi dalle legittime ambizioni mondiali. Commentò il Times all’indomani della proiezione londinese cui assistette la regina Elisabetta, il 26 ottobre del ’54: “Sarebbe un accanimento trovare dei veri difetti in un film tanto prodigo di canti e di colore, così naturale nella sensibilità artistica, così spontaneo nell’allegria”. Seller lo ricorda come “un capolavoro, un caso esemplare. Eppure persino Carosello napoletano, alla luce della sensibilità attuale, potrebbe risultare improponibile per alcune scene che illustrano le canzoni. Il film si apre proprio con Michelemmà e nella versione di Giannini la ragazza non soltanto subisce violenza dai turchi, ma giunge al suicidio per la vergogna”. È difficile, in questo piano sequenza sulla peccaminosa storia della canzone napoletana, classica o recente, dire o tacere quante volte abbia sconfinato nella realtà o quanta realtà sia traboccata sul pentagramma. Certo, poeti e musicisti ricombinarono le antiche storie e le cronache dei giornali, ma non sempre quei confini risultano fissati con precisione. Forse la fanciulla stuprata dai turchi non s’ammazzò; forse Ria Rosa non indusse mai nessuno al suicidio, però la sua collega coeva Liliana Castagnola s’avvelenò col Veronal per amore di Totò una ventina d’anni prima che lui – stavolta nella parte dell’abbandonato – scrivesse Malafemmena. Né mancarono gli amori nati al pianoforte che trovarono tragico epilogo fuori spartito: il maestro Carlo Mirelli, invaghito della stellina del varietà Yvonne De Fleuriel (ma all’anagrafe Adelina Croce, nativa di Teano e non di Parigi), si buttò dal balcone perché venne respinto. Ci resta di quella vicenda stampato il nome del suicida sulla canzone La regina del contado, di cui qualche copia si può ancora reperire sulle bancarelle, se siete fortunati, con l’ingiallita fotografia di lei, che per accentuare il sorriso maliardo s’era fatta incastonare purissimi diamanti nei molari.
E i guappi, poi, non sono stati solo oggetto di canzoni, ma le suonavano e le scrissero. Quello più famoso della Belle époque, Teofilo Sperino, praticò il mandolino quanto il coltello e si esibì alle Feste di Piedigrotta. E tra i più grandi successi neomelodici di questo secolo, piaccia o meno, si elenca l’immancabile Chille va pazze pe’ te, brano scritto vent’anni fa da Luigi Giuliano che se non passerà alla storia come paroliere (ma non si può mai dire) ci è già passato come il boss più potente della camorra napoletana nell’ultimo scorcio del Novecento, ispiratore del personaggio ’O Sciarmante nella serie televisiva Gomorra. E’ il caso a questo punto di sapere come si comportò, nelle vesti di autore, un mammasantissima di quelli veri piantato dalla donna. Né sfregi né vendette: “Sta suffrenno”, esce di casa solo nella speranza di rivederla, non s’innamora di nessun’altra, la pensa sempre. Chiede solo di lei e la “sonna senza durmì”. La sogna anche da sveglio. Il maschilismo cede il posto alla tenerezza quando meno te lo aspetti.