Un'opera di Mark Rothko alla fondazione Luois Vitton di Parigi - foto Ansa

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La mostra di Mark Rothko alla fondazione Louis Vitton di Parigi: tra la vita e la morte

Giulio Silvano

Non solo grandi tele colorate: nella capitale francese vanno in mostra anche le prime opere dell'artista e pittore ossessionato dall'idea del sonno eterno

"Non esiste nella realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti", diceva lo storico dell’arte Ernst Gombrich nel suo bestseller “La storia dell’arte”. C’è coda tutti i giorni alla Fondazione Louis Vuitton, a Parigi, per vedere la grande mostra dell’anno di cui parlano i parigini e non solo. La ospita fino ad aprile il gigantesco coleottero tech disegnato da Frank Gehry, un’astronave griffata LV nel Bois de Boulogne. Il titolo è solo “mark rothko”, tutto minuscolo, e non c’è bisogno di sottotitoli, non c’è bisogno di spiegare niente, perché tutti oggi sono attratti dalle grandi tele colorate del pittore morto suicida nel 1970, basta il nome. Grande mostra perché occupa vari piani, si prendono scale mobili per passare dalle opere degli anni 40 a quelle degli anni 50, ma grande soprattutto perché mai dalla morte dell’artista sono state raccolte così tante sue opere in un solo posto. La provenienza dei quadri esposti crea un’ampia mappatura, dalle collezioni private ai musei di Stoccarda, San Francisco, Tucson, Taiwan. E anche le salette speciali che contengono le sue tele, quella della Phillips Collection di Washington o quella della Tate di Londra, è come se fossero state ricostruite qui (seppur l’atmosfera sia diversa, meno raccolta).
 

Le mostre celebrano le opere o celebrano l’artista? Il dubbio ci assale nell’èra "dell'icona", termine che dall’ambito religioso è entrato in quello dello show business e dell’arte. Icone non sono più i quadri, le immagini, ma le persone. Rothko lo è diventato, anche a causa dei numeri da Guinness nel mercato. Negli ultimi anni compaiono spesso fra le notizie le cifre da record che le sue opere raggiungono nelle aste. Offerte da centinaia di milioni, cifre che per qualche motivo fanno sempre notizia. In una puntata di “Mad Men”, la serie sui pubblicitari americani degli anni 60, un quadro di Rothko diventa il protagonista di un intero episodio. In ufficio non si fa che parlare della nuova opera d’arte comprata dal capo dell’agenzia. Quando alcuni impiegati riescono a vederla, di nascosto, si chiedono se dovranno far finta di apprezzare la tela per far colpo sul capo, dato che l’ha pagata diecimila dollari, una cifra notevole per l’epoca. Quando uno di loro finalmente gliene parla, impaurito dal dire la cosa sbagliata sull’opera d’arte, il capo dice: “Quel coso dovrebbe raddoppiare di valore prima di Natale”. Per tornare alla frase di Gombrich potremmo parafrasarla così: “Non esistono solo gli artisti, esiste anche il mercato dell’arte”. E la mostra alla fondazione LV celebra in questo anche Bernard Arnault, l’uomo più ricco di Francia e, ad anni alterni, uomo più ricco del mondo (primato che si bisticcia con Elon Musk). La mostra celebra anche il proprietario di una fetta maggioritaria dell’industria della moda e del lusso perché solo qualcuno con tutto quel cash può organizzare una retrospettiva di questo tipo, facendo volare nel “bosco delle ragazze”, come chiama il bois il Narratore della Recherche, opere da ogni angolo del mondo.
 

Alla fondazione LV si inizia dal principio, cioè da quelle opere di Rothko che in pochissimi conoscono. Nato nel 1903 in uno shtetl in Lettonia, che ancora era parte dell’Impero russo, Mark Rothko, che allora si chiamava Markus Rothkowitz, arriva nel 1913 a Ellis Island, il portale dell’immigrazione novecentesca americana. La famiglia ha paura che i tre figli vengano coscritti e mandati in guerra dallo zar. Con la madre, Mark raggiunge il padre, un marxista che comunque gli ha fatto studiare il Talmud, in Oregon, dove è arrivato da qualche tempo in avanscoperta con gli altri due figli. Il giovane Rothko, come dice lui stesso, da ragazzo era più interessato al teatro e alla politica che all’arte: voleva diventare un sindacalista, frequentava circoli di sinistra e serate di anarchici, e con lo scoppio della Rivoluzione russa organizza dei dibattiti sul tema. Ottiene una borsa di studio a Yale, ma se ne va poco dopo infastidito dall’elitismo dell’ambiente Ivy League. Arriva a New York, sono gli anni 20, quelli del Grande Gatsby, e lui lavora, come ha sempre fatto per mantenersi, ma inizia a interessarsi alla pittura e frequenta delle scuole d’arte. Le prime opere rappresentano scene di vita newyorkese e sono apparentemente lontane dal color field, da quelle estensioni di colore che lo faranno diventare così “iconico”. Ma a guardarle bene, queste rare tele giovanili, che molti visitatori nemmeno sapevano esistessero, hanno già l’energia di morte, di profondità e di ipnotica totalità delle opere successive. E ricordano – sarà l’ebraismo – quei momenti di America di Kafka, che originariamente doveva chiamarsi Il disperso. Le sproporzioni mostrate dal protagonista del romanzo incompiuto del praghese sull’immigrato europeo che arriva nel Nuovo mondo assomigliano alle figure del giovane Rothko, figure umane allungate tra i pilastri della metro, persone sempre in movimento o in attesa di salire sul convoglio sotterraneo, e c’è già un ragionamento sulla massa canettiana. All’inizio di America Kafka ci racconta che il protagonista, arrivato via nave a New York, si trova davanti alla Statua della Libertà, un’immagine che potrebbe aver colto anche il giovane Rothko: “Il braccio con la spada sporgeva come appena sollevato e attorno alla figura spiravano libere brezze. ‘Quant’è alta’ si disse, e poiché ad andarsene non pensava affatto, a poco a poco fu sospinto fino al parapetto dalla moltitudine crescente dei facchini che gli passavano davanti”. Si intravede nei volti delle prime tele l’animo grottesco degli espressionisti tedeschi, ma con una maggiore pace, una pace che assomiglia alla rassegnazione rispetto alla condizione umana. Vediamo che già qui è iniziato il grande ragionamento sulla morte di Rothko.
 

Il quadro che colpisce di più, e che si può portare via in formato cartolina nello shop della fondazione, è l’autoritratto, l’unico di cui siamo a conoscenza. È del 1936. Gli occhiali scuri coprono gli occhi e i colori sono già sfumati nel modo delle grandi opere successive. Poi, in una tela dall’atroce malinconia urbana, a una finestra vediamo un anziano che guarda il vuoto, dietro di lui c’è un mappamondo – si chiama Contemplazione, ed è uno dei pochi quadri ad avere un titolo esplicativo. Poi c’è un periodo che potremmo definire surrealista – e infatti una di queste opere farà poi parte della mostra Dada, Surrealism and their Heritage al Moma, parecchi anni dopo. Uccelli, piante, figure vorticanti che hanno qualcosa di totemico e alieno. E si intravede anche un interesse per la rappresentazione della tragedia greca. Di nuovo, anche qui, la morte.
 

In entrambe queste fasi meno note, ci sono delle notevoli differenze rispetto alle opere color field con cui poi diventerà “iconico”, ma è comunque presente già la tragedia che Rothko vuole rappresentare, quel dolore originario che diventerà il suo trademark. “Metto in discussione l’arte surrealista e l’arte astratta allo stesso modo in cui si mettono in discussione il padre e la madre”, scrive in un testo del ’45, “mi considero allo stesso tempo uno di loro e un essere completamente indipendente da loro”. L’anno dopo si iniziano a vedere i risultati di una transizione verso il Rothko che più conosciamo, quello delle grandi, o gigantesche, tele e dei colori. Anche se l’identificazione con il colore diventa forse semplicistica per un pittore che diceva: “Non sono interessato al colore. Sono interessato all’immagine che viene creata”. In una delle varie e grandi sale alla fondazione Louis Vuitton, una signora francese guardando uno dei grandi quadri senza titolo dice “è costruito bene”, e socchiude gli occhi come si fa davanti agli impressionisti.
 

Come ricorda lo storico dell’arte Riccardo Venturi in uno dei testi del catalogo della mostra, davanti al regista John Huston che gli chiedeva cosa dipingesse, Rothko rispondeva: “L’infinito della morte, l’infinita eternità della morte”. La tragicità che già vedevamo nelle prime opere trova la sua massima espressione nelle tele senza esseri umani, fino agli anni 60 in cui tutto è sempre più scuro e più grande, come se ci si avvicinasse al fondo di un abisso. Prima del suicidio è il nero a diventare protagonista. In una delle ultime sale le grandi tele dark sono, per la prima volta, accompagnate da alcune statue di Giacometti. Le figure umane tornano, per mano di un altro artista, ed è come se fossero uscite dai quadri. Rothko è il pittore della morte e in questa mostra ne vediamo l’evoluzione. Rothko era sorpreso, quasi infastidito, quando qualcuno trovava serenità nelle sue opere, perché, ci teneva a ricordare, i suoi lavori “nascono dalla violenza”. Ricorda, in modo più intellettuale e composto, ciò che diceva Michelangelo del suo lavoro, qualche secolo prima: “Nelle mie opere cago sangue”.
 

Forse è questo l’effetto catartico che i numerosi visitatori ricercano, alcuni inconsciamente, nella grande mostra parigina. Avvicinarsi alla morte tramite un’immagine che non è esplicitamente quella della morte. Se le fotografie della guerra in Ucraina, delle vittime di Hamas trucidate nei kibbutz, o dei bambini di Gaza schiacciati dalle macerie polverose vengono normalizzate per via della loro capillare diffusione, oppure se le evitiamo, se ci convinciamo a sopportarle per non provare dolore, i quadri di Rothko, non essendo diretti, non avendo nemmeno un titolo, diventano il modo per guardare la morte, a volte senza nemmeno saperlo. Anselm Kiefer, l’artista tedesco, si chiede: “Un artista può impedire al male di diventare bellezza?”. Per tornare a quella puntata di “Mad Men”, uno dei più sensibili impiegati che vede di nascosto il quadro nell’ufficio del capo, dice che forse non è detto che il quadro debba avere un significato, “forse devi solo fare un’esperienza. Perché quando lo guardi senti qualcosa. E’ come osservare qualcosa di molto profondo, ci puoi cadere dentro”.
 

È per questo che Rothko ci piace così tanto? Perché nell’èra della vuotezza spirituale, dei miliardari californiani che cercano di diventare immortali, dobbiamo comunque trovare dei modi per osservare la morte? Oppure c’è qualcosa nei colori che ci attrae, a prescindere dal dolore che ci ha messo l’artista con le sue pennellate? Riccardo Venturi, che tra l’altro di Rothko ha curato gli Scritti per l’editore Donzelli, dice al Foglio che secondo lui ci sono tre motivi per cui oggi questo pittore è così amato. Il primo è che “non ha spiegato le sue opere, non ha lasciato istruzioni o detto in che modo vanno intese. Non vogliono essere documenti di un’epoca. Era attento piuttosto a come venivano esposte”. Il secondo è che Rothko “piace perché, davanti alle sue superfici astratte, è facile proiettare la nostra esperienza di spettatore, qualunque essa sia: quella lenticolare dell’esperto di pittura che cerca di cogliere queste pennellate sulfuree, quella di chi sceglie per un selfie il dipinto che cromaticamente si abbina al suo vestito”, armocromia museale, insomma, e infine perché il pittore “ha sempre pensato i suoi dipinti come corpi, come materie, come sostanze pulsanti, respiranti, in corrispondenza reciproca, e da anni siamo tornati a parlare di agentività delle immagini, di vita delle immagini, di immagini volitive. Insomma quelli di Rothko sono dipinti che s’impongono come presenze e vogliono farci vivere in rosso, in blu, in arancione… Vestono la nostra esistenza, si adattano o amplificano o entrano in sintonia con i nostri stati d’animo. Offrono una sorta di stato allucinatorio (Antonioni lo aveva capito in ‘Deserto rosso’) lontano da ogni lettura iconologica che si sforza ancora oggi di capire il significato di queste opere senza figure e senza simboli”. 


Questi motivi, e il desiderio di guardare nell’abisso, possono spiegare la folla che si accalca alla fondazione Louis Vuitton, davanti a questo ammasso di capolavori che, visti tutti insieme, permettono di orientarsi nel percorso artistico dell’autore, ma dove è difficile davvero lasciarsi andare. Il desiderio corporate di accumulare, di creare un evento blockbuster, fa arrivare all’ultimo periodo rothkiano, quello che precede il suicidio a sessantasei anni, stanchi, proprio perché ogni tela ha quella qualità ipnotica che invita a una vita riflessiva. Servirebbe un’ora davanti a ogni tela, ma l’elemento monumentale della mostra non lo permette del tutto. È come entrare in una cattedrale piena di fedeli con l’iPhone, di anime alla ricerca di un significato in qualcosa che trovano misteriosamente attraente, in un labirinto di riflessi di tragicità ben illuminati, ma difficili da digerire tutti insieme. In un’intervista degli anni 50 il pittore, davanti al giornalista che chiedeva spiegazioni, rispondeva: “Veda i dipinti. Li osservi e rifletta su di loro. È questo che mi interessa”. È questo che facevano i fedeli davanti alle icone quando il mondo funzionava con ritmi diversi? E forse il termine “iconico” non è mai stato così corretto

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