La Cuoca, olio su tela di Bernardo Strozzi

Dal 500 al 900

A cena con il potere: viaggio gastronomico nelle corti italiane

Michele Magno

La mostra alla Reggia di Venaria racconta le tavole dei sovrani italiani. Specchio di una civiltà gastronomica, dall’antipasto al caffè

L’acclamata serie televisiva “The Crown”, che narra le vicissitudini della famiglia di Elisabetta II, è ambientata quasi esclusivamente a Downing Street e nei piani alti dei castelli di Windsor e Balmoral. Un’altra fortunata serie televisiva, “Downton Abbey”, mostra invece al grande pubblico che tutto ciò che avviene nei più dimessi locali di servizio di un palazzo nobiliare, tra maggiordomi e camerieri, cuoche e sguattere, ha lo stesso rilievo narrativo degli intrighi che si dipanano nella sontuosa dimora dei Crawley al tempo di Giorgio V, tra duchi e marchesi, sovrani in visita e parvenu alla finestra. Con ruoli ovviamente assai diversi, sono tutti protagonisti di quei pranzi, banchetti e ricevimenti che fin dal Medioevo erano simboli del potere del monarca. Già alla metà del VI secolo il senatore romano Cassiodoro scriveva nelle Variae (537-540) che “il ricco apparato della mensa reale è un ornamento di non poco conto per lo stato, perché è normale credere che il signore della casa abbia tanto potere quante sono le vivande insolite che sono presenti nei suoi banchetti”. Quasi un millennio più tardi gli ambasciatori veneziani a Londra registravano con meraviglia lo sfarzo delle mense giornaliere allestite alla corte di Enrico VII Tudor (1457-1509), dove si sfamavano non meno di ottocento persone, peraltro prosciugando le casse della Corona.

 

Già Cassiodoro scriveva che “è normale credere che il signore della casa abbia tanto potere quante sono le vivande insolite ai suoi banchetti”

 

Purtroppo, mentre conosciamo i cerimoniali di corte grazie a una vasta e minuziosa documentazione cartacea, le testimonianze iconografiche – quadri, disegni, incisioni – sono piuttosto rare. Così, quando nell’Ottocento il “re che mangia”, metafora di una avidità contrapposta all’indigenza delle classi popolari, diventa un soggetto di successo nei romanzi storici e nelle opere liriche, molti pittori rimediarono a questa assenza con dipinti di fantasia. Non a caso la mostra “Sovrani a Tavola”, curata nella sabauda Reggia di Venaria da Andrea Merlotti, Silvia Ghisotti e Clara Goria, si apre e si chiude con due immagini. La prima risale al 1926, ed è il disegno di un re che si ingozza di spaghetti; la seconda è una pubblicità del 1904, in cui due figlie di Vittorio Emanuele III – Iolanda e Mafalda – reclamizzano la pastina da brodo Buitoni. Quella che sembra vera è falsa,  mentre quella che sembra falsa – due principesse influencer ante litteram – è vera. Questo e molto altro raccontano le oltre duecento opere esposte in quattordici sale della Reggia. Compongono un ritratto della civiltà gastronomica delle corti italiane, tra la metà del Cinquecento e l’inizio del Novecento, che rivela uno straordinario patrimonio di arte e cultura: il cibo e i rituali del suo consumo, la celebrazione dell’ordine politico e la sua dissacrante caricatura; le bizzarrie, l’effimero, la convivialità dei regnanti nelle loro multiformi manifestazioni.

 

Nelle corti rinascimentali, nonostante l’ingordigia carnivora, scompare il coltello, sostituito dal trinciante che suddivide le porzioni

 

Nel passaggio dalle corti medievali alle corti rinascimentali, la carne non cessa di rappresentare la forza, la potenza, la salute. Ma quella bovina richiedeva spazi enormi, appannaggio dei grandi latifondisti, per il pascolo o per la coltivazione di foraggi da trasformare in fieno. La carne suina, macellata e conservata prevalentemente nei monasteri, diventa perciò un alimento irrinunciabile sia nelle campagne che nelle città. Riservata alle tavole aristocratiche era invece la selvaggina. Venivano cucinati e serviti volatili di ogni taglia, catturati con trappole diaboliche. Molto apprezzati erano cigni, pavoni, gru e aironi spiumati e cotti interi, poi decorati con le loro stesse piume impreziosite da gemme di oro e argento, mentre dai loro becchi fuoriuscivano fiamme. Nonostante questa ingordigia carnivora, su quelle tavole avviene un fatto curioso: scompare il coltello, sostituito dal trinciante. Posto in un tavolo separato e visibile agli astanti, vigilato dallo scalco (il soprintendente alle cucine), spettava a lui il compito di suddividere il cibo in porzioni anche esteticamente gradevoli. Una volta pronto, il piatto veniva consegnato a un cameriere che lo porgeva al commensale. Come lo scalco, questo abile e elegante maneggiatore di lame era di solito un uomo colto, la cui erudizione non di rado sconfinava nei campi della filosofia e della medicina. Dopo lo scalco e il trinciante, figure apicali del servizio a tavola erano il bottigliere e il coppiere addetti alla mescita delle bevande, a cui per la coppia reale provvedeva invece un fidato “contrôleur de la bouche” (un sommellier, diremmo oggi).

 

Fu un veneziano, Pietro Della Valle, a inaugurare la prima bottega del caffè in Italia nel 1615. Un secolo dopo apriva i battenti il Caffè Florian

 

Un ruolo di rilievo aveva anche il servitore del caffè preparato “alla turca”, almeno fino all’invenzione del macinino brevettato nel 1818. C’era quello tostato nero o tostato marrone, nella Napoli ispanica chiamati rispettivamente “tonaca ‘e prevete” e “tonaca ‘e frate”. Il suo nome deriva dalla parola araba “Kahvé”, che indicava la bevanda fatta con i vegetali: quindi anche il vino. Ed è proprio come “vino d’Arabia” che arrivò in Europa agli inizi del Seicento, grazie ai commerci dei mercanti veneziani e grazie anche alla guerra. Nel 1683, infatti, dopo la liberazione di Vienna dall’assedio dell’esercito ottomano, gli austriaci festeggiarono la vittoria di Giovanni Sobieski su Kara Mustafà in una casa del caffè costruita all’ombra della cattedrale di Santo Stefano. Inoltre, fu proprio un veneziano, Pietro Della Valle, a inaugurare la prima bottega del caffè in Italia: era il 1615. Un secolo dopo, nel 1720, in piazza San Marco apriva i battenti il celebre Caffè Florian. Mentre Parigi dovrà attendere un gentiluomo palermitano, Francesco Procopio de’ Coltelli, per l’esordio  del locale “Le Procope” nel 1702, con netto anticipo sulla Roma del Caffè Greco. Milano tarderà un po’ a fornire il suo contributo al mito nascente; ma quando spunta il periodico “Il Caffè” di Pietro e Alessandro Verri con l’aria di imitare l’inglese “The Tatler” (“Il Chiacchierone”) di Richard Steele, era già chiaro il futuro progetto meneghino: proporsi come guida morale di un popolo indolente e retrivo. È nel Settecento, comunque, che il caffè diventa un consumo abituale dei sovrani, su impulso soprattutto di Vittorio Amedeo II di Savoia (1666-1732).
 

Non poteva certo esserlo al desco dei papi, che lo consideravano la “bevanda del diavolo”. Nell’età barocca i Palazzi Apostolici (Vaticano e Lateranense) furono teatro di sontuosi banchetti in cui i “trionfi”, sculture di zucchero e di burro, rappresentavano eventi e personaggi delle Sacre Scritture, allegorie e virtù cristiane spiegate in appositi libretti distribuiti agli ospiti. La tavola del pontefice, coperta da un baldacchino, si ergeva sulle  teste del suo gregge. Mentre le tavole degli invitati venivano disposte in un ordine stabilito dal maestro delle cerimonie: a destra quelle dei cardinali, dei vescovi e dei preti; a sinistra quelle dei diaconi, dei nobili e degli ufficiali di corte. Pranzi e cene, alle quali non poteva partecipare nessuna donna, erano regolati da un rigido protocollo. Tuttavia, ogni papa aveva personali inclinazioni e comportamenti di fronte al cibo. Ad esempio, Giulio III (1487-1555) era noto per la sua insaziabilità, Paolo IV (1476-1559), intransigente fautore della Controriforma, per la magnificenza della sua mensa, Pio V (1504-1572) per i suoi ascetici digiuni. Ma il cibo serviva anche a tessere e consolidare alleanze politiche, attraverso le imponenti spedizioni di raffinate derrate alimentari che partivano dai palazzi pontifici alla volta delle dimore delle dinastie amiche. Ma poteva servire anche a dileggiare quelle ostili, come “Li biscottini di Savoia”, soprannome dato ai cortigiani di Carlo Emanuele III dal cardinale Lambertenghi, poi papa Benedetto XIV (1675-1758), con evidente allusione ai savoiardi piemontesi.

 

L’eccezione del pranzo privato, pratica elogiata nel ’700: “Meno gente intorno ai sovrani, meno interessi e cabale”

 

Il mercante e libraio fiorentino Baccio Tinghi, recatosi nel 1564 a Torino per una complicata trattativa commerciale, nel suo Zibaldone racconta che una sera nel salotto di Emanuele Filiberto, “mentre si sentiva una musica che ne rendeva una dolce armonia”, aveva cenato con un nutrito gruppo di dignitari, tre vescovi e l’ambasciatore di Venezia Girolamo Lippomano. Nella sua relazione al Senato della Repubblica, quest’ultimo aggiunge ulteriori dettagli. Ricorda che il duca a tavola “alcune volte si fa leggere sommari di istorie, delle quali ha grandissimo gusto, anzi ha anche questa buona parte di sollevare i virtuosi e particolarmente i letterati”. Egli stesso aveva assistito alla lettura dell’Etica di Aristotele. Più tardi, la tavola del sovrano assunse una dimensione più intima. Nel 1708, durante la guerra di successione austriaca, il messo del duca di Modena Orazio Guicciardini si recò nella capitale sabauda per cenare alla mensa di stato, dove “mangiavano li principi di Soissons, li capitani delle guardie, cavalieri di camera”. Quando chiese dove fosse la tavola del re, gli fu risposto che non cenava mai in pubblico. I viaggiatori stranieri del Grand Tour furono molto colpiti da questa scelta, che all’epoca aveva pochi eguali nel Vecchio continente. La pratica del pranzo privato fu elogiata dall’abate partenopeo Luigi Antonio Caraccioli, francese d’adozione, nel suo Voyage de la Raison en Europe (1772): “Meno gente intorno ai sovrani, meno interessi e cabale”. Dal canto suo, il poeta e drammaturgo Giuseppe Baretti in una lettera inviata nel 1771 all’erede al trono Vittorio Amedeo III, lo esortava a circondarsi nelle sue cene private di “gente capace di suggerire cose utili”. Sarà Carlo Alberto, sessant’anni dopo, a seguire il suo suggerimento.
 

“Se durante il desinare nasce qualche leggera contesa, si canterà. Se i canti non calmano l’effervescenza de’ commensali, si beverà; se si persiste a contendere malgrado Bacco e Apollo, ognun cioncherà [troncherà], riderà e soffocherà con clamorosi segni di gioia fin l’apparenza del cattivo umore”. Queste le frivole e divertenti raccomandazioni dettate dall’arguto e anonimo autore di un libricino del 1829, L’arte di dar da pranzo, di trinciar le vivande, di presentarle ai convitati. A esse si affiancava una molteplicità di ricette adatte a ogni palato e al suo presunto fabbisogno calorico. Una varietà che si rifletteva nei menu – termine che deriva dalla “minuta”, la lista stilata dal maggiordomo che teneva conto della disponibilità della dispensa – ora stampati su cartoncini. L’innovazione di collocare il menu accanto ai convitati si afferma intorno al 1810 con l’adozione del servizio “alla russa”, probabilmente a opera del principe Borisovich Kurakin, ambasciatore dello zar presso Napoleone Bonaparte. Il servizio “alla francese”, fino ad allora dominante, prevedeva che tutte le portate fossero sistemate sulla tavola prima dell’arrivo dei commensali. Nel servizio “alla russa”, invece, i piatti venivano serviti secondo l’ordine fissato dal menu. Un sistema giudicato più pratico e conveniente, perché riduceva sprechi e costi. Dal 1880 si imporrà ovunque
 

Il poderoso Trattato di Giovanni Vialardi (1854), per un trentennio chef e pasticciere di casa Savoia, subirà un lungo oscuramento dopo la pubblicazione della Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (1891). Ma a Vialardi va il merito di aver introdotto la carta dei vini e valorizzato il Barolo e il Grignolino. Strenuo difensore della tradizione gastronomica della Penisola, sosteneva che “[…] le zuppe o minestre sono l’annunzio foriero di un buon pranzo. Quando un convitato comincia con una bella, eccellente e buona zuppa, lo rende giojale”. Il suo menu reale esordiva con il “potage”, che non significava solo un semplice brodo o zuppa leggera, ma poteva includere anche i “macaroni de Naples”. Al “potage” o al “consommé” seguivano le “entrées”, pietanze rustiche a base di carne, pesce e verdure con salse, e gli “hors d’oeuvres”, piatti freddi e saporiti oggi consumati come antipasti. Il “punch à la romaine”, una sorta di sorbetto a base di agrumi, anticipava il piatto forte: di arrosto di bovino o di selvaggina. Il pranzo si concludeva con l’immancabile dessert, costituito da due tipi gelato
 

Nel 1863 Vialardi ricava dal Trattato un volumetto destinato a un successo ancora maggiore: Cucina borghese semplice e economica. Dopo aver messo un piede nelle cucine dei Savoia, ne metteva così un altro in quella di Monssù Travet, l’eroe della commedia di Vittorio Bersezio (1863). Fuor di metafora, negli alloggi di quel ceto civile, attento e oculato, di impiegati e funzionari pubblici, di commercianti e professionisti, che magari aveva a servizio appena una cuoca, ma aspirava al decoro e allo stile di vita delle classi superiori. E poco importa se Vittorio Emanuele II odiava i pranzi di corte e, appena possibile, scappava dalla “Bela Rosìn” per divorare gli agnolotti che gli aveva preparato con cura. L’innata curiosità di Vialardi lo spinse a tuffarsi nei bassifondi delle ricette di una cultura povera e periferica, scandita dai rintocchi secolari della fame: erbe di campo, parti anatomiche estreme, salami di tasso, carne di riccio, merlo, lontra e marmotta. Accanto ai consigli al “maestro di casa” comparivano così quelli a una figura nuova: la donna casalinga. Fra il servizio “alla francese” e quello “alla russa” spuntava il servizio “alla borghese”, in pratica la tavola moderna. Non solo una furba operazione di mercato, ma una studiata apertura verso un ceto in ascesa che, al giro di boa dell’Unità, si accingeva a gestire il paese.

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