Un padre, il figlio, la libertà
I Castellitto a confronto sulla difficile arte di vivere e fare cinema
“Enea” è un apologo sull'amore e sulla nostalgia. Ma “la nostalgia è sopportabile solo se davanti a te hai la possibilità di nuovi ricordi”
E poi c’è la famiglia. Con le proiezioni e le angosce di un genitore, le verità che non si dicono, i sottintesi che si intuiscono. Sergio e Margaret, per esempio, sanno capirsi in silenzio
“C’è la mia vita fino a trent’anni. La guardo. Guardo quello che mi aspettavo ogni volta. Sono stata sola, ostaggio della mia volontà, mai all’altezza di niente, alla fine. Ballo nel buio. Sono malata d’incompletezza, di illusioni”
da “Venuto al mondo”, Margaret Mazzantini
Sergio: “Pietro non si è uniformato a nessun punto di vista: è diventato il suo punto di vista. A mio tempo ho fatto lo stesso anche io, ma in maniera più disperata, confusa e nevrotica. Lui è stato più consapevole”. Pietro: “Il pensiero costante della mia esistenza è stato riuscire a evadere dalla mia famiglia. E l’ho potuto coltivare proprio perché sono cresciuto in una famiglia libera che mi ha lasciato guardare oltre le mura di casa. Alla fine del liceo confidavo nel mondo che ancora non conoscevo perché è lì che la tua fiducia nel futuro diventa concreta e sempre lì che trovi le risposte che cerchi”.
Sergio ha settant’anni, Pietro trentadue. La somma delle stagioni restituisce esattamente il numero dei loro film. Enea, l’opera seconda di Pietro Castellitto, per Sergio è stato il centesimo set. “Gli ho telefonato a tarda notte: “Papà, che fai a settembre? Sei libero per caso?”. Mi ha mandato a fare in culo, ma sotto sotto era contento. Credeva avessi fatto altre scelte e in effetti, prima di chiamarlo, ho dubitato a lungo. Avevo paura che la sua presenza potesse divorare il film, riflettendo meglio invece ho capito che nessuno avrebbe potuto donare al suo personaggio, Celeste, le sfumature che gli ha dipinto addosso Sergio”.
Il vento di gennaio fa correre le nuvole più rapidamente. Il grigio rimonta l’azzurro e il cielo cambia aspetto al ritmo stesso della vita. A guardare nei ricordi sembra ancora ieri: “La memoria è un magazzino pieno di cassetti” dice Sergio. Con le mani cerca qualcosa, forse le sigarette che ha mollato da un pezzo, forse le parole. “Ora si è aperto uno di questi cassetti e mi sembra di vedere la scena. Io e Pietro siamo nel terrazzo condominiale. Per la recita scolastica gli è stato affidato il ruolo di Puck, il folletto malizioso del Sogno di una notte di mezza estate. Non sapeva dove mettere le mani. Lo aiutai a impostarlo e mi rivelò per la prima volta non dico una vocazione, ma una qualche competenza”. Enea è un apologo sull’amore e sulla nostalgia. Pietro dice che “la nostalgia è sopportabile solo se davanti a te hai la possibilità di nuovi ricordi, altrimenti, come suggerisce il film, meglio morire”. Una delle proiezioni, dei timori, delle angosce di Sergio: “So che non conoscerò i miei figli quando saranno vecchi e so anche che è un’ombra che attraversa ogni genitore, ma non avere idea della vita che avranno e se saranno felici è un pensiero che mi commuove comunque”. “Non me ne hai mai parlato” dice Pietro. “Non te ne ho mai parlato” risponde Sergio. Ci sono verità che non si dicono, atmosfere che si avvertono, sottintesi che si intuiscono.
Un dialogo fulminante in “Enea”. Castellitto padre si rivolge al figlio: “Io vengo da una famiglia povera, tu no. E’ questa la differenza tra me e te”
Ancora Sergio: “Io e Margaret, ad esempio, sappiamo capirci in silenzio. Nella nostra intimità, l’ottanta per cento delle cose che ci accadono e alle quali reagiamo avvengono senza un sibilo, quasi per telepatia”. Conoscersi è un viaggio. All’epoca in cui Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini lo affrontavano in A 112 mettendo in scena Cechov nei teatri del nord Italia e ribaltandone il senso: “Non bisogna sposarsi. Non bisogna, ci si annoia troppo” i due avevano l’età di Pietro. Venne il matrimonio, vennero quattro figli. Il primo, nato a dicembre del 1991, è quello che gli siede di fronte. “Se ci fossimo incontrati adesso in un sogno, davanti a una birra, in un pub, entrambi trentenni, ci saremmo stati sicuramente antipatici. Non ci saremmo capiti”. In Enea c’è un dialogo fulminante, quasi una tautologia. Castellitto padre si rivolge al figlio: “Io vengo da una famiglia povera, tu no. E’ questa la differenza tra me e te”. Pietro giura che la frase ogni tanto venga ripetuta anche nella realtà. Sergio conferma: “Le condizioni di partenza contano, pesano, incidono”. Sergio nato in periferia, a Tor Dè Schiavi. Sergio romano per caso, figlio di emigranti abruzzesi e molisani. Sergio che guardando da bambino il santo tra i mattoncini color granata della chiesa del quartiere si era convinto fosse “la raffigurazione fisica di Dio”. Sergio che a pranzo, un giorno lontano, dice “voglio fare l’attore” e i suoi fratelli che lo riportano a terra: “Che ha detto? Attore? Avrà detto dottore”. Sergio che ha cercato la sua strada senza concentrarsi su quella degli altri: “Non abbiamo mai odiato chi era più ricco di noi. Nella nostra povertà brillava una certa dignità. Mio fratello sognava di comprare la 500 Abarth, ma non bucava le ruote di chi ce l’aveva e per possederla, per conquistarla, faceva tre ore di straordinario quotidiane. Oggi l’odio verso chi ha ottenuto qualcosa di materiale lo puoi respirare”.
Pietro: “La differenza tra ciò che sei e ciò che gli altri pensano tu sia crea scompensi, malinconie e difficoltà, ma ormai non me ne importa niente”
Pietro è figlio di un’altra storia e con l’odio, spiega, ha una lunga consuetudine. “E’ da quando sono bambino che ogni tanto qualcuno mi detesta in maniera viscerale. Il perché? Non lo so. E’ come se qualcuno non volesse conoscermi: la cattiveria dell’ozioso. Persino quando non lavoravo, il mio primo film, I predatori, era a uno stato men che embrionale e avevo smesso anche di fare l’attore, ricevevo messaggi di una violenza assoluta. La differenza tra ciò che sei e ciò che gli altri pensano tu sia crea scompensi, malinconie e difficoltà, ma ormai ci ho fatto la scorza e non me ne importa niente. Così come non me ne frega veramente nulla di fare la vittima né di giocare al perseguitato, ma il punto di vista di chi mi critica un’analisi la merita. Dicono che sono un borghese. E per provenienza sociale ed economica, sicuramente lo sono Ma per forma mentis sto agli antipodi. Ho sempre nutrito un istinto animale e una grande curiosità verso tutto e tutti. Non ho mai avuto un’impostazione ideologica, però resta il fatto che me ne attribuiscono una. La condizione ontologica ai limiti dell’etnico da cui non posso smarcarmi. Un peccato originale che, è il sottinteso, mi vieterebbe la possibilità di esprimermi. Quasi come se tutto ciò che ho da dire non fosse degno di essere raccontato. Poi però irrompe un paradosso: i figli poco brillanti di quegli intellettuali che magari mi criticano sono proprio quelli che hanno dato vita al politicamente corretto, il cui primo comandamento recita che ognuno, senza indebite appropriazioni culturali, può raccontare soltanto quello che conosce. Secondo i loro figli quindi io non posso raccontare la periferia e secondo i loro padri non posso raccontare quello che ho vissuto. Dunque dovrei tacere ed esistere solo come bersaglio”. Gli vengono in mente gli studi di filosofia, la possibilità che ogni ragionamento sia il manifesto di un moto del pensare: “La loro è una visione metafisica della vita: esiste un’interpretazione corretta dell’essere e tutto ciò che non è aderente a quella interpretazione deve essere eliminato: più o meno, a spanne, l’assunto di ogni guerra di religione”.
“I figli poco brillanti di quegli intellettuali che magari mi criticano sono proprio quelli che hanno dato vita al politicamente corretto”
Pietro non ha voglia di indossare armature e non riesce a prendersi così sul serio. “Sono così circondato da gente che mi vuole bene che ormai trovo meritate persino le aggressioni. Poi i pregiudizi aiutano ad andare avanti, ti costringono a preservare l’euforia e a rintracciare ogni volta dentro sé stessi un punto di vista nuovo sulle cose”.
Sergio annuisce. Viene in mente l’incipit di Enea con Pietro che disegna il bivio esistenziale di qualunque essere umano: “Le alternative per me sono due: il percorso individuale o il percorso clanico, nel senso di un gruppo di persone strette da interessi comuni che hanno uno scopo e schiacciano anche i sassi per raggiungerlo. Se la famiglia è un clan allora ha un senso”. Clanico, da clan, la delicata mostrina che qualcuno, in questi anni, ha appeso alle giacche della famiglia Castellitto. Quasi una risposta implicita, uno sberleffo, un autoscatto ironico.
“Mi pare che la famiglia che descrive ‘Enea’ non sia un clan, ma una zattera alla deriva dal punto di vista psicologico e affettivo”
Sergio dissente: “C’è stato in passato qualche eccesso di bile, ma mi pare superato dall’affetto che sento intorno a me e da molto tempo ormai ho capito quanto faccia bene alla salute vedere il bicchiere mezzo pieno. Per quanto riguarda Enea mi pare che la famiglia che descrive non sia un clan, ma una zattera alla deriva dal punto di vista psicologico e affettivo, poi il film, che è una tragedia divertentissima, rivelerà che i clan sono altrove, nelle redazioni dei giornali, nelle discoteche, fantasmagoriche e cimiteriali o tra gli intellettuali o sedicenti tali”. Dice intellettuali e gli viene in mente Machiavelli: “Ci sono uomini che sanno tutto, peccato che questo è tutto quello che sanno”. Ridono. E’ un suono liberatorio. Cercano un altro rumore che dia senso alle cose. Trovano quello di un bicchiere. Versano l’acqua, mancano il bersaglio. Il bicchiere si inclina, insegue un impossibile equilibrio. Poi cade, ma non si rompe. Stupore. “Peccato, non s’è rotto”.
Ricomincia Pietro: “Io mi sento figlio di una famiglia che per molti versi è speciale, nelle dinamiche familiari che ha creato, nell’aver saputo crescere i figli senza mai nascondere la durezza della vita, le loro delusioni, le loro fragilità, i loro momenti più difficili. Penso che i miei genitori sacrificandosi nell’unione ci abbiano concesso la possibilità di essere liberi perché l’unione, inutile negarlo, è comunque un sacrificio che richiede impegno, dedizione e generosità. Io vengo da quell’esempio. Quella struttura alle spalle mi ha permesso di essere coraggioso anche nella vita”.
“Come tutti abbiamo compiuto qualche errore da genitori” dice Sergio. “Abbiamo sacrificato troppo la nostra vita intima e personale, la nostra vita da fidanzati, perché tutto quello che abbiamo fatto e immaginato lo abbiamo sempre fatto per i figli e condiviso con loro. Ci è piaciuto? Ci è piaciuto molto. Ce li siamo tenuti vicini, in maniera anche un po’ ossessiva e quando non c’eravamo lo abbiamo fatto con il pensiero perché anche il pensiero conta e conta tanto. Ma visto che i figli ti rimproverano in ogni caso, che tu sia santo o manigoldo, altruista o egoista, tanto valeva farsi qualche cena in più per conto proprio”.
Anche Sergio aveva una struttura alle spalle: “Sono figlio di persone molto semplici che non avevano su di me un’influenza psicologica e culturale significativa, ma ce l’avevano dal punto di vista emozionale e amoroso. Non ho mai rischiato il padre maestro o la madre che controlla la tua vita se non in termini puramente quotidiani. A Pietro invece sono capitate due figure extra ordinarie e questo gli è apparso del tutto naturale. Per me era diverso: consideravo l’ambiente del cinema come un luogo magico nel quale mi era stato concesso di entrare quasi per miracolo divino. Il tempo mi ha poi insegnato che è un luogo nel quale incontri un certo numero di miserabili e capirlo mi ha sicuramente aiutato a riderne e a smitizzarlo”. Il padre di Sergio Castellitto lavorava alla previdenza sociale e nelle ore libere suonava la chitarra e si dilettava nel disegno: “Faceva, benissimo, le caricature dei suoi dirigenti. Con quelle raccontava il suo punto di vista sul mondo: osservare significa veramente imparare, se sai osservare hai fatto metà del lavoro”.
Quando domandi a Pietro di scegliere un termine per descriverla questa famiglia in cui si scrivono libri, si recita, si inventa, si trasforma ciò che non esiste in ciò che esiste e viceversa, il primo che gli viene in mente è “autentica”. C’è chi nei due film di Pietro Castellitto ha visto ironia e chi ci ha scorto una consapevole demolizione del proprio passato. Sergio dice che suo figlio “non ha demolito proprio niente. Ha scherzato sulle nostre miserie, simili a quelle di tanti altri nuclei, ma lo ha fatto con un amore sconfinato e infantile. Amore per la commedia e per la critica anche feroce, ma senza dimenticare la pietà”.
Pietro: “Mia madre dice sempre ‘alla peggio muori’ e con questa idea che nulla, neanche la dipartita, è una tragedia siamo cresciuti”
Pietro spiega di non aver mai avuto paura di ciò che sarebbe diventato: “Mia madre dice sempre ‘alla peggio muori’ e con questa idea che nulla, neanche la dipartita, è una tragedia siamo cresciuti. Quando intorno ai vent’anni capii che forse avrei voluto fare il regista i miei erano prudenti e molto più realisti di me: “Prova con qualche scuola di cinema” dicevano. Non volevano illudermi. Sapevano quanto quel destino fosse fortuito, legato al caso, alla pratica e alle conoscenze. Ma anche se dirlo può far sorridere, io non conoscevo nessuno”. Pietro ha sempre scritto. Da bambino e da adolescente. “All’inizio, come è normale che sia, non c’era un produttore che mi desse retta. Qualcuno cestinava, altri magari facevano lo sforzo di leggere. ‘Non male’ mi facevano sapere. Però poi non succedeva mai niente. A ventidue anni sei felice con poco, basta una parola gentile, un complimento, una carezza. Poi capisci che le parole non sentite costano meno di zero e lentamente ti arriva in faccia, come uno schiaffo, la realtà. Avevo molte idee ed essendo un po’ mitomane, come tutti i registi, mi sussurravo che mi sembrava di scrivere cose che avrebbero meritato una scommessa”.
Al suo primo set, Tre fratelli di Francesco Rosi, nel 1980, Sergio Castellitto si presentò con una busta di plastica. Si era portato i jeans per recitare. Mentre stringeva una giacca a vento tra le dita gli fecero sapere che esistevano la sartoria, gli abiti di scena, il mondo del cinema. Pietro ha visto un altro pianeta ed è stato anche fortunato. Domenico Procacci gli ha prodotto l’esordio. Lorenzo Mieli il secondo passo. Due produttori visionari per un visionario. Sergio ha fatto un’altra strada: “Ma forse sono stato più risoluto nell’ottenere le cose che volevo proprio perché partivo dalla precarietà”.
Ora si guardano negli occhi e all’improvviso si fa silenzio. C’è questo padre che osserva il figlio. Sul tavolo, Turgenev. Padri e figli. Un passo a scelta: “Il nichilista non s’inchina davanti all’autorità di nessuno e non accetta nessun principio, anche se si tratta di un principio cui tutti obbediscono”. Sembra il ritratto di Enea, ma forse è solo un caso. “Io spero che quello che racconto sia una metafora universale nella quale si possa riconoscere chiunque perché lo slancio vitale di Enea abbraccia tutti”. Enea era un azzardo e il giovane Pietro lo sapeva. “Ho sempre sentito, sempre saputo che non potevo sbagliare e quindi, semplicemente, ho fatto quello che mi piaceva e mi sembrava potente”.
A Giorgio Quarzo Guarascio, in Enea nei panni di Valentino, un cantante prestato al cinema che sta tra i volti pasoliniani alla Ninetto Davoli, Lucio Battisti e Tony Musante, Sergio Castellitto, il suo psicanalista, domanda se volare con il suo Piper sui parchi di Roma, sul ciglio del mare o sopra i circoli privati in cui al tavolo da poker bluff e dolo si danno la destra, lo faccia sentire libero: “No, non mi fa sentire libero stare in mezzo alle nuvole perché se cadi, muori”. Non tutto è metafora, ma il rischio di precipitare rovinosamente c’era. “Non mi sono preoccupato se girare un film simile fosse pericoloso, se piacesse agli altri o se consolasse qualcuno. L’ho girato come volevo girarlo, ho incontrato Lorenzo Mieli la cui ambizione mi ha sempre stimolato. E’ un uomo accanto al quale mi sono sentito a casa”. Proprio come gli è accaduto con l’altro produttore di Enea, Luca Guadagnino: “La persona che mi ha fatto conoscere Lorenzo Mieli. Luca volle incontrarmi per dirmi cosa non gli era piaciuto de I predatori. La sua sincerità schietta, brutale e generosa fu importante. Gli sono grato anche per questo”.
Charles Dickens avvertiva: “Non fare domande e non ti verranno dette bugie”. Castellitto le ha poste, ha ascoltato anche ciò che non somigliava a una carezza e poi, più forte, è andato in mare aperto: “Le ho già detto che sono un po’ mitomane? Ecco, lo sono stato anche girando Enea ed esserlo ha rappresentato una corazza contro le titubanze. Sono rimasto fedele alla mia idea di grandezza e l’ho trascinata sullo schermo”. Del risultato è contento. “Contento come può esserlo un inquieto. Da un lato sono una persona socievole e anche allegra, ma è come se fossi sempre in attesa di qualcosa che mi può deprimere terribilmente perché in alcune situazioni penso che la vita, se non è affrontata con coraggio, non sia degna di essere vissuta”. “Il fallimento” sottolinea “non c’entra niente: se fallisci rincorrendo il tuo ideale va bene, ma se fallisci inseguendo il compitino allora non puoi perdonarti”.
“L’unione tra me e Margaret, il più grande colpo di fortuna della mia vita, è stata l’unione di due fragilità che hanno saputo guarirsi a vicenda”
Enea non è un compitino. Enea è una storia senza ricatti sentimentali, pauperistici o moraleggianti. “A casa non siamo stati mai moralisti né invadenti. E’ sempre stato un porto aperto casa nostra. Se volevi un piatto di spaghetti o un consiglio, c’eravamo. Parlavamo di vita e quando parli di vita non ci sono professori o baroni, ma soltanto esperienze. Pietro ha osservato, criticato e ascoltato, ma tutta la crescita è avvenuta senza che noi sospettassimo nulla sulle sue inclinazioni. Un giorno, aveva quattordici anni, ho aperto la porta di camera sua senza bussare. Stava vedendo La notte di Antonioni. E io non sapevo se esserne spaventato o orgoglioso. Non ci ho mai più pensato fino ad oggi, ma adesso dico che almeno, con i loro errori, i nostri figli sono venuti su senza lezioncine e senza imposizioni con un’autorevolezza che non ha mai sconfinato nell’autoritarismo. L’unico schiaffo che ho dato a Pietro in vita mia gliel’ho dato in aggiunta a una rovinosa caduta casalinga perché aveva rischiato di farsi molto male cadendo da una libreria”. Maria, la sorella di Pietro, scrittrice, una ragazza silenziosa, misteriosa, enigmatica, nel film si occupava del backstage. Cesare, il fratello più piccolo, recitava e metteva in scena un tipo umano che in qualche modo deve somigliargli da vicino. Mancano Anna, l’altra sorella che si è laureata in Scienze politiche, e Margaret abituata a esserci quando è necessario e a chiudere la porta sul mondo quando l’esigenza è indifferibile.
“Mia madre sul set è venuta una volta sola, il giorno della scena del mio matrimonio. Lei non ama il set, ma dopo c’è sempre, ha uno sguardo lucido e umano ed è sempre onesta”.
Ancora Sergio. Si parla di qualcosa che conosce bene. “Pietro non ci ha mai rivelato nessun desiderio di seguire Margaret nella scrittura o me nella recitazione o nella regia: ha vissuto la sua passione in maniera molto solitaria e tutto ciò che ha appreso lo ha appreso di rimbalzo, come una palla da biliardo che tocca tutte le sponde del tavolo prima di fermarsi. Un cammino in solitaria, a nostra insaputa”. Nessuno si salva da solo, ma stare in compagnia non sempre aiuta a capire. “A me la solitudine piace e dopo gliene parlo, ma prima, prima che mi voli via dalla mente e a costo di apparire superato, una cosa voglio dirla. Mi pare che non esista solitudine più plastica di quella che vediamo nei social. Instagram e i suoi fratelli dovrebbero chiamarsi “solitude”: sarebbe più chiaro, più giusto, più onesto. E’ un mondo composto da milioni di pianeti solitari, da eremiti metropolitani, da clochard dell’intelletto. Una comunità che vive in tante celle di isolamento che fingono quotidianamente di comunicare tra loro. L’unione tra me e Margaret, il più grande colpo di fortuna della mia vita, è stata l’unione di due solitudini e di due fragilità che hanno saputo guarirsi a vicenda”.
Nei primi anni di carriera, la solitudine per Sergio era la regola: “Non mi sento più solo proprio perché ho imparato a stare da solo” e quella solitudine, adesso, a volte gli manca: “Mi sveglio all’alba ogni giorno e mi prendo un quarto d’ora per pulirmi da ogni scoria: dai programmi, dalle aspettative, dagli impegni, dall’imponderabile, da ciò che non possiamo controllare. Resto in una mia placenta immaginaria e nuoto con la testa in libertà, senza ansia, senza angosce. Da ragazzo non ce l’avrei mai fatta. Quando sei giovane ti agiti, soffri, vuoi farcela a ogni costo e non sai neanche da dove iniziare”. Enea lo sa. Non ce la fa e srotola una vittoria mancata, ma la festeggia come un trionfo. Balla da eroe pronto a sacrificarsi a modo suo, da Don Chisciotte, da personaggio minore di un polar francese che decide quando e come lasciare la scena dando retta soltanto ai suoi canoni. Anche se Francesco Guccini, in una canzone notturna, avvertiva: “La ragione diamo e il vincere ai coglioni”, Enea a voler vincere non si sente tale: “Enea vuole l’avventura e vuole la vittoria. Le vuole e non se ne vergogna. Sfido chiunque a voler perdere nella vita. Quando ti innamori di una persona la vuoi perdere? Quando vuoi fare un film, lo vuoi fare male?”.
Nella conversazione ricorre spesso la parola libertà. Di essere come si è e di non essere come gli altri vorrebbero che si fosse. Per Sergio “la vera libertà è complicata. Noi che viviamo in una condizione di libertà siamo veramente così liberi nei nostri pensieri intimi, nelle nostre inquietudini e nelle nostre frustrazioni? Io credo che la libertà sia la sincerità di parlare a sé stessi: un esercizio quotidiano in cui non si vince niente e non c’è una coppa in palio, ma il serio sospetto di poter retrocedere ogni santo giorno”. Per Pietro che, d’accordo con Camus, è davvero felice solo in uno stadio mentre undici persone provano a farsi clan con un pallone, la libertà è poter esultare quando ci si può guardare allo specchio: “Spero di restare chi sono, di fare le cose che mi convincono, di arrabbiarmi solo se ne vale la pena e di non diventare mai il megafono di qualcun altro”.
Pietro Castellitto è stanco. Gira l’Italia da due settimane e prima di ogni risposta prende il suo tempo, riflette, tenta di non buttare via nessuna frase. Ha lunghe occhiaie profonde. Per diventare uomini, si dice in Enea, servono proprio quelle. Per diventare vecchi c’è tempo. Ma a dar retta ad Adamo Dionisi, a quel punto, serve l’amore: “La vita è una e non dura un cazzo. La vita non dura tutta la vita. La vita dura finché sei giovane”. Pietro Castellitto quel dialogo l’ha scritto. Ci crede. Suo padre dice che la cosa più bella dei suoi settant’anni è “non dover dimostrare niente a nessuno. E anche se chiamato a rispondere di qualcosa sei sempre, a volte anche dopo che sei morto, ai miei figli che hanno un’altra età toccherà dimostrare chi sono ancora per tantissimi anni. Spero lo facciano senza provare rabbia del giudizio altrui, a testa alta, sorridendo”. Serve equilibrio? Pietro ha un’idea. Anzi, più d’una: “Serve energia. Ha presente le gocce quando scivolano sul vetro? Fermandosi ogni tanto? Che sembra che decidono tutto e che non decidono nulla? L’equilibrio tra libertà e assenza di libero arbitrio? Ha presente? La vita è così e va accettata. E per accettarla, mi va di ripeterlo, serve energia”.