Il dibattito
Il mito del bambino politicizzato dalle favole ha distrutto fantasia e divertimento
C'era una volta il patriarcato. Ora il dibattito si riduce a una scelta della traccia del tema su Facebook dove ciò che importa è diventare i cocchi della Grande Maestra Collettiva
Nel grande liceo classico senza lavagne e senza banchi a cui si è ormai ridotto il dibattito delle idee in Italia, l’argomento del giorno è come la traccia del tema in classe. Forza, tutti chini su Facebook a mettere i pensierini in bella copia sperando di diventare il cocco della Grande Maestra Collettiva! Ora pare che si debba scrivere della ristoratrice del Lodigiano; ma io, che da quando ho abbandonato i social network arranco dietro agli altri compagni, ero già qui con il mio foglio protocollo pronto a sviluppare l’altra traccia, Paola Cortellesi e le favole, che nel frattempo si è rivelata una mezza bufala alimentata dal passaparola. Poco male: tanto avevo in programma di copiare sotto banco da un libro dell’aprile 1978, i giorni in cui Aldo Moro era intrappolato nella tana poco fiabesca di via Montalcini.
È un’antologia curata da Pietro Angelini e Cecilia Codignola che si intitola “Fiabe sui ruoli sessuali”, editore Savelli. La sezione finale si chiama “Dibattito”. No, il dibattito no, direte voi. E invece sì, il dibattito sì. Quanto deve saper di chiuso l’aria del nostro liceo, che pure si tiene all’aria aperta, per farci sentire fresca e rinfrancante una discussione avvenuta nel 1978 presso l’editore simbolo della sinistra extraparlamentare, probabilmente in una stanzuccia satura di fumo di sigarette! C’erano, oltre ai curatori, Elena Gianini Belotti, autrice del classico “Dalla parte delle bambine”, lo scrittore Enzo Rava e la femminista Mariella Gramaglia. Il filo conduttore del dialogo a più voci, sorprendentemente, non era ideologico, era tutto pragmatico. Certo, si parlava anche (senza troppi preconcetti) del contenuto manifesto e letterale delle favole, dei ruoli di Biancaneve, di Cenerentola o della Bella addormentata, degli stereotipi sessuali e di classe, tutte le cose insomma che ti aspetti in un libro Savelli del 1978. Ma l’accento era su altri fattori: chi ti racconta le favole, e come. Le cose più illuminanti le diceva Gramaglia: “Mia madre, credo, assumeva i significati letterali di alcune fiabe, tipo Cappuccetto rosso, e credeva davvero che quella fiaba servisse a insegnarmi a essere disciplinata e la viveva tutta concentrandosi sul significato morale e moralistico piuttosto che sul significato fantastico”. Il significato fantastico, appunto: perché il problema è che ogni fiaba diventa moralistica, se raccontata in modo moralistico, adottando cioè un letteralismo pedante e prescrittivo; e ogni fiaba, anche la più retriva e conservatrice, può diventare un’esperienza liberatoria se proviene da un lettore che sa venire incontro ai bisogni fantastici del bambino.
Le favole, così come sono, possono voler dire tutto e il contrario di tutto, si prestano a letture – sia nel senso figurato, l’atto di interpretare, sia nel senso letterale, l’atto di leggere a un bambino scegliendo di volta in volta la voce e le accentuazioni – anche platealmente contraddittorie. Tanto più che del bambino sappiamo molto poco: con quale personaggio si identificherà, quali dettagli accenderanno la sua fantasia, quali angosce la favola visiterà e lenirà dentro di lui? Certo, nulla vieta di riscrivere le fiabe o di scriverne di nuove: le tradizioni, specie quelle orali, sono fatte di continui emendamenti e rimaneggiamenti, di dimenticanze selettive che fanno sparire le parti caduche o divenute incomprensibili. Ma la chiave di tutto è nella relazione incantata tra chi racconta e chi si abbandona al racconto. E la relazione dev’essere ludica o fantastica, mai ortopedica o pedagogica: la cultura della nuova sinistra, dice ancora Gramaglia, farebbe bene ad abbandonare il mito del “bambino politicizzato”, il bambino adulto precoce che deve prendere coscienza tramite le favole delle contraddizioni del capitalismo, dell’oppressione patriarcale o del ruolo storico del proletariato. Altrimenti, la nuova sinistra rischia di trasformarsi in una versione progressista di sua madre (ossia della vecchia destra), il cui palinsesto serale “era composto dalla preghiera, dalla fiaba, dalla reprimenda per i capricci fatti durante la giornata: era cioè una specie di rito moralistico in cui la fiaba era uno degli elementi di un pot-pourri di riconferma delle norme”. Il guaio è che il nostro liceo classico a cielo aperto ha più maestri che alunni. Ho finito prima, professoressa, posso consegnare?