facce dispari
Marco Arcieri, l'ingegnere pianista innamorato di Chopin
Per anni si è definito "un pianista mantenuto da un ingegnere". Poi ha deciso di dedicarsi completamente al pianoforte. Ora si esibirà al teatro Olimpico di Roma con un omaggio al grande compositore polacco
Per un quarto di secolo, a chi gli domandava di cosa vivesse, Marco Arcieri rispondeva con una boutade: “Sono un pianista mantenuto da un ingegnere”. Undici anni fa però l’ingegnere s’è stufato e ha lasciato che il pianista se la sbrigasse da solo. Con piena soddisfazione di entrambi, soprattutto perché sono la stessa persona. Romano, sessant’anni compiuti il 19 dicembre scorso, poliedriche passioni (le automobili d’epoca, la struttura dei labirinti), Arcieri smentisce tra l’altro il “crucifige” dei nemici del web. Ha raccolto da giugno a oggi quasi diecimila follower su Instagram con i suoi video dedicati al pianoforte e al musicista del cuore: Fryderyk Chopin, e vi fioccano commenti che riconciliano col pubblico virtuale.
In un Elogio del “dilettante” in senso puro, cioè di chi spicca in un’arte che non esercita per vivere, gli spetterebbe senz’altro un capitolo. Per ora culminerà con un concerto il 30 aprile al Teatro Olimpico di Roma, dove Arcieri presenterà un vinile doppio in fase di ultimazione mentre scriviamo: ‘Chopin at home’ (sarà disponibile anche sulle piattaforme online). È una riproposta del genio polacco in tutte le nuances del suo timbro, spesso stravolte dalla voga del virtuosismo pianistico d’effetto, che strappa gli stessi applausi dei palleggiatori da fermo quando rallegrano i passanti con giocolerie di punta e tacco.
Perché Chopin?
Da piccolo mi portarono a lezione di piano, ma subito lasciai perché mi annoiavano gli esercizi. Volevo eseguire direttamente i pezzi, sicché chiesi a una zia che suonava di imparare qualcosa senza leggere le note. Memorizzai il Notturno opera 9 numero 1 e 2 di Chopin dall’inizio alla fine, ma lì finiva il suo repertorio amatoriale, così mi trovarono un’insegnante molto paziente e finalmente arrivò il giorno che fui costretto a leggere la musica. Feci il percorso alla rovescia: riconoscevo sulla carta ciò che già suonavo alla tastiera. Poi a quattordici anni una prestigiosa accademica di Santa Cecilia mi prese come allievo e conseguii da privatista il diploma di pianoforte al Conservatorio.
Un enfant prodige?
Mia nonna non sopportava gli enfant prodige, perché diceva che col tempo non resta l’enfant né il prodige. Ma forse un po’ enfant lo sono ancora.
Però diventò ingegnere.
Mi interessavano la matematica e la fisica. Scelsi ingegneria pensando che lo studio delle scienze pure avrebbe consentito pochi sbocchi.
Rimpiange di non essersi dedicato solo alla musica?
Magari sarebbe diventata una routine. E poi l’ingegneria mi piaceva: ho guidato uno studio professionale di successo per la progettazione di opere pubbliche. Era un’attività che soddisfaceva la mia sete di curiosità: progettare un acquedotto, il restauro di una chiesa o di un palazzo gentilizio mi consentiva di cambiare. Come in musica davanti a un pezzo nuovo.
Come convivevano ingegnere e pianista?
Meravigliosamente. Quando mi chiedevano che lavoro facessi mi piaceva dire: il pianista. Poi mi resi conto che questa domanda serve più a classificarti sotto il profilo economico e sociale che a sapere quale tipo di persona sei. Così optai per quella battuta: sono un pianista mantenuto da un ingegnere.
Perché i due si separarono?
Lasciai il lavoro perché il lavoro aveva lasciato me. Sempre più informatica e meno sensibilità personale, troppa burocrazia e poca libertà creativa. Fu un atto di coraggio e di liberazione. A marzo del 2013 chiusi lo studio. M’incoraggiò mia moglie: per lei sono sempre stato un pianista.
Quanto s’identifica in Chopin?
Non credo certo di essere la sua reincarnazione, al più sarò stato il suo pianoforte, perché con quello era tutt’uno. Non ci si deve sedere al piano per dominarlo, ma immaginare lo strumento come parte di se stesso. Il mio rapporto con Chopin è basato solo sulle opere, non sulla sua biografia.
Come mai?
Non ho mai voluto approfondirne la vita temendo che potesse intaccare la conoscenza della sua anima, espressa tutta nella musica. Non desidero appurare le circostanze per cui scrisse un certo pezzo triste: lo capti quando lo suoni, e tanto basta per amare profondamente l’autore.
Qual è la sua caratteristica esecutiva?
Il timbro, il tocco. Chopin non amava i concerti nelle grandi sale e chi si sedeva in fondo si lamentava di non sentire. Lui si esprimeva meglio nella dimensione intima, perciò ho intitolato il mio vinile ‘Chopin at home’. La sua tavolozza sonora e le sue dinamiche sono state talora stravolte dal pianismo muscolare, così frequente nella seconda metà del Novecento.
Su quale strumento suona?
Ho lo Steinway per i concerti ma anche un Pleyel coevo di Chopin. Era il suo piano preferito: lo comprai a un’asta per un milione di lire e lo riparai da solo, da buon ingegnere, in ottanta ore di lavoro. Su quel Pleyel i timbri di forza eccessiva e la velocità olimpionica non risultano piacevoli. Questo fa capire quanto fosse delicato quel suo arcobaleno di suoni, che ho riprodotto nel progetto discografico con uno strumento odierno, perché non è tanto questione di filologia quanto di filosofia dell’approccio. Un modo di vivere quel tipo di musica e di esperienza emotiva.
Lei insegna?
Non ho mai insegnato. I miei video sui social non hanno scopo di profitto, ma condivido un’esperienza e una passione.
Un commento ai suoi post che più l’ha colpita?
Tanti che proprio non saprei, anzi sì, ci metta questo: “Mio padre non mi vuole iscrivere al Conservatorio, lo puoi convincere tu?”.