Il personaggio
Il mago della luce. Intervista al direttore della fotografia Dante Spinotti
Dagli esordi con Sergio Citti ed Ermanno Olmi alle pellicole con Michael Mann. Più di cinquanta film tra Usa e Italia. A breve di nuovo al cinema con Robert De Niro. Da Tolmezzo a Hollywood
Nel nuovo film di Barry Levinson “Alto Knights”, in uscita l’anno prossimo – un gangster movie anni 50 che racconta lo scontro tra i due boss nemici della mafia italoamericana Vito Genovese e Frank Costello – c’è una scena ambientata nel cortile di un ospedale: una grande folla di reporter è accalcata in attesa di Robert De Niro (che interpreta straordinariamente entrambi i personaggi). La ripresa è fatta dall’alto, con una grossa gru, e da un operatore con un’altra macchina da presa per filmare l’assalto dei giornalisti. Ma tra le comparse c’è un signore con gli occhiali che nasconde una telecamera Sony moderna sotto un ampio cappotto vintage per filmare De Niro da vicino senza dare nell’occhio. Stacco. De Niro in piedi davanti alla porta di casa nel pianerottolo del suo palazzo. Lo stesso signore stavolta è rannicchiato per terra, maglione azzurro e cappellino da baseball rosso. Dietro di lui tutta la troupe. Qui regge la cinepresa e dà indicazioni a Bob su come muoversi e come cadere sul tappetino posizionato sotto di lui che non verrà inquadrato. Il signore col cappellino non è il regista – Barry Levinson, già alle prese con film del calibro di “Rain Man”, “Sleepers” e “Sesso & Potere” – ma Dante Spinotti, nato a Tolmezzo nel 1943, professione direttore della fotografia. Queste immagini, ancora non del tutto ufficiali, me le fa vedere di straforo al Tucson Film Festival in Arizona sul suo iPhone durante una cena il filmmaker Daniele Colombera, uno dei collaboratori più stretti di Spinotti. Il film di Levinson ha avuto una lunga lavorazione, causata anche dallo sciopero di Hollywood, e sbirciare in azione De Niro e Spinotti, seppure sul monitor di uno smartphone, è una primizia assoluta.
E’ proprio Colombera a mettermi la pulce nell’orecchio: Dante ha appena pubblicato la sua biografia e verrà in Italia per le feste natalizie. Il libro “Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta” (La Nave di Teseo), scritto insieme a Nicola Lucchi, lo leggo d’un fiato appena rientro in Italia e il giorno di Natale, come regalo, ricevo una chiamata dal suo autore, che è a casa nella sua amata Carnia, tra figli e nipoti.
Ma cosa fa esattamente il direttore della fotografia, gli chiedo per sentire la sua versione dei fatti: “La questione non è tanto cosa fa il direttore della fotografia, ma cosa fa il regista!”, esordisce con una battuta dissacrante questo signore garbato ed elegante che, nella sua lunga carriera, tra l’Italia e soprattutto Hollywood, ha usato la luce, piegandola e trasformandola a piacimento, per illuminare e inquadrare star del calibro di Michelle Pfeiffer, Anthony Hopkins, Russell Crowe, Kim Basinger, Lady Gaga, Sharon Stone, Cate Blanchett, giusto per fare i nomi più celebri. “E’ chiaramente una battuta. Noi che facciamo? Studiamo la sceneggiatura, ne parliamo con il regista, vediamo i posti, ma va studiato il linguaggio per girare un film. Ci sono mille modi di farlo, mille modi di fare le luci, di costruire le atmosfere. Usando i toni freddi o quelli caldi, usando la macchina a mano, i teleobiettivi, i campi larghi, i costumi, persino i capelli degli attori. Tutte scelte che vengono fatte in funzione di una narrazione. Come in un libro tu stai molto attento a ogni parola che usi”. Lo pungolo ancora, perché nelle foto del mio amico Colombera l’ho visto con la macchina da presa in mano. “Sì, a volte la camera la teniamo noi, ma in realtà il film è diretto dal regista, è lui che sa bene che storia vuole raccontare. Non è fondamentale che sappia dove mettere la macchina da presa. Per quello possiamo aiutarlo noi. Però è fondamentale che sappia esattamente quello che vuole raccontare. Io lo dico spesso: posso cambiare l’idea di un regista, convincerlo a girare la scena dall’altra parte, però deve essere sicuro che sa cosa ha in testa. Se cambio il suo film vuol dire che non c’è il film”.
A sentirlo raccontare come funziona la scatola meravigliosa chiamata cinema sembra che fare un film sia una cosa facile. Divertente pure. E, certo, farlo con lui alla macchina da presa è quasi sicuro che, dal punto di vista formale, gli attori, le attrici, il paesaggio, brilleranno di una luce speciale. Dopo aver piazzato i suoi fari, dopo averne calcolato i riflessi e i riverberi su volti e oggetti, dopo aver deciso come inquadrare l’attrice o l’attore, il regista dà l’azione. Ma è il direttore della fotografia ad aver creato una sorta di magia: “Un legame che avviene attraverso l’obiettivo e che si imprime indelebilmente sulla pellicola”, scrive Spinotti, “Chi sta davanti all’obiettivo sa che, una volta chiamata l’azione, la sua immagine verrà congelata nel tempo”. Il libro è sia una lezione di cinquant’anni di cinema che un racconto appassionato e divertito di bizzarrie e stravaganze di registi e star planetarie, dagli esordi con Sergio Citti, Ermanno Olmi e Lina Wertmüller, all’incontro con il grande Dino De Laurentiis che gli spalanca le porte di Hollywood. Essendo lui a dare luce al volto delle star, con molte di esse diventa amico e complice sul set. Gustosissimi sono gli aneddoti sulle fragilità di Barbra Streisand sul set del film “L’amore ha due facce” (1996); o Michelle Pfeiffer, che per “Paura d’amare” (1991) raccomanda a Dante di non farla troppo bella con le luci. O, ancora, la scelta di Michael Mann di usare proiettili veri nella scena finale di “Manhunter - Frammenti di un omicidio” (1986).
Niente male per un ragazzo “mediocre alle medie”, come mi racconta lui, che però aveva il talento di disegnare gli oggetti con luci e ombre molto articolate. L’incontro con la fotografia avviene che non ha ancora dieci anni, complice una macchinetta della mamma: “Andavo in campagna, nel Polesine, a fotografare la fattoria, la natura, i familiari”. Poi il padre gli regala una Zeiss Ikonta 6x6, e il giovane Dante, ancora minorenne, diventa fotografo ufficiale della squadra di calcio del paese: “Mi mettevo dietro la porta e fotografavo i goal, i tiri, le azioni. Avevo già costruito la mia camera oscura in casa, che per me era un luogo magico. A scuola andavo male con latino, greco e matematica, e dopo aver ripetuto il terzo anno di liceo classico mi mandarono in Kenya, con la disperazione di mia madre, per lavorare con il mitico zio Renato, che si era trasferito lì a fare l’operatore di film e della caccia grossa”. A 17 da poco compiuti Dante lavora come operatore per la United Press e vive quell’avventura per un anno: “Dopo aver appreso i rudimenti mi mandavano in giro a fare le riprese come se fossi un veterano”. Oggi, a ottant’anni portati benissimo, racconta la sua vita con tono serafico: “Il cambiare è sempre stato determinato da eventi drammatici: non andare bene a scuola, una storia d’amore finita mi spinse a cercare un altro tipo di vita altrove”. Prima c’è l’assunzione alla Rai di Milano, dove può sperimentare, e anche molto, su macchine da presa e luci. Poi i primi film a Roma, con Sergio Citti per “Il minestrone” (1981), “Sogno di una notte d’estate” (1983) di Salvatores, a Napoli con Luciano De Crescenzo per “Così parlò Bellavista” (1984). Una carriera in costante ascesa che punta a un’unica ovvia destinazione: Hollywood. “E’ come andare a correre in Formula 1: se ti accorgi che guidi bene l’unico modo è misurarsi con quelli bravi, ma non tanto per competizione. C’era una passione in me, favorita anche dalla storia del cinema italiano. Pensa ai nostri grandi direttori della fotografia come Peppino Rotunno, Vittorio Storaro, Tonino Delli Colli, grandi maestri che erano una ispirazione per me. Tutto questo portava a una spinta, a un cambiamento, favorito anche dalla mia conoscenza della lingua inglese acquisita in Africa”. Dante Spinotti si racconta oggi con il candore e l’umiltà dell’eterno ragazzino della Carnia che ama sperimentare per il gusto di sorprendere se stesso e il suo pubblico. Fino all’ennesimo turning point della sua carriera, il giorno fatale in cui Dino De Laurentiis gli presenta il giovane e coetaneo Michael Mann, lo scienziato del cinema, come lo chiama Spinotti, che sta per girare il suo film cult “Manhunter - Frammenti di un omicidio” (1986). Dante si presenta all’appuntamento con una decina di inquadrature del film di Salvatores e otto di “Interno berlinese” della Cavani. Alla fine della proiezione Michael è perplesso ma decide lo stesso di affidargli il lavoro facendogli vedere una stampa del dipinto “L’impero delle luci” di Magritte: una casa avvolta dall’oscurità notturna e illuminata da un lampione, sotto un cielo azzurro macchiato da qualche nuvola. “‘Questo è il nostro film’, disse Michael. Ah… grazie al cazzo, pensai. ‘Chiaro’, risposi”.
Ridacchia ancora divertito, il Maestro, che con Mann, oltre a “Manhunter” e una grande amicizia, ha firmato altri quattro capolavori: “L’ultimo dei Mohicani” (1992), “Heat - La sfida” (1995), “Insider - dietro la verità” (1999) e “Nemico Pubblico” (2009).
Alla fine di una lunga telefonata non potevamo non parlare di Lei, la Star delle Star, ovvero la luce della città degli angeli che lui ha “catturato” non solo per i film di Mann ma, uno su tutti, per l’altro capolavoro noir che è “L. A. Confidential” (1997) di Curtis Hanson. Spinotti sospira prima di rispondere: “La luce della California è tersa, tecnicamente abbastanza speciale, perché è una luce che può essere molto trasparente e ha una qualità azzurrina, forse per la presenza dell’oceano”. Gli chiedo ancora di Los Angeles e delle riprese di “Heat”, film particolarmente travagliato: “Fu molto difficile girare per dieci ore al giorno l’attacco alla banca. L’abbiamo girato in 4-5 fine settimana, in condizioni di luce mutevoli. Piazzai 3-4 enormi proiettori in cima ai palazzi dove avviene la scena per cercare di avere qualche lama di luce quando il sole andava giù”. E, ancora, Robert De Niro che nel film si incontra per la prima volta, faccia a faccia, con Al Pacino: il primo spietato rapinatore di banche, il secondo instancabile poliziotto ossessivo. Per la scena del loro incontro – il bene e il male seduti allo stesso tavolo in un ristorante affollato – Mann scelse il design del celebre locale Kate Mantilini per la sua semplicità: “Le luci sono tenute in uno schematismo molto semplice, non ci sono elementi di distrazione, molto concentrato sul volto dei due attori. Su una ventina di ciak Mann usò quasi per intero il numero 11. Girammo con due macchine da presa su ognuno dei due attori, allo stesso tempo. Con un’illuminazione che funzionava su entrambi contemporaneamente”. “Difficilissimo dunque?”, gli chiedo io. Spinotti è imperturbabile: “Beh, abbastanza complicato. C’ho dovuto pensare un po’ prima. Ecco il grande valore di lavorare con geni come Michael Mann. Dovendo risolvere questioni difficili, poi impari”. Il libro si chiude con qualche pagina malinconica sulla sua vita apolide, nonostante i suoi successi a Hollywood: “Una realtà divisa non solo tra due parti geografiche, ma fra due vite, quella in una famiglia adorabile spesso ‘abbandonata’ per mesi, e quella in una troupe, ogni volta diversa, in cui ritrovare umanità per sentirsi un po’ casa. La mia forza. La mia debolezza. Tutto questo non mi fa sentire né italiano né americano, ma una sorta di apolide, cittadino di due mondi che non sempre, da un punto di vista culturale e sociale, riescono a toccarsi”. Ma alla fine, malinconia a parte, ritorna sempre sul set, il suo habitat naturale. L’ultimo film, “Posso entrare. An Ode To Naples”, per la regia della sua cara amica Trudie Styler (la moglie di Sting), è un bel ritratto di Napoli: “Abbiamo girato con una piccola troupe di dieci persone con due macchine da presa molto serie. Però durante i sopralluoghi, con la mia piccola Leica, ho girato da solo un terzo del film, compreso uno straordinario tramonto a cui assistemmo io e Trudie tornando in hotel, davanti a Castel dell’Ovo, in cui c’era un Vesuvio mai visto prima. Il sole arancione, gli arcobaleni, le nuvole nere”. Ancora una volta Dante Spinotti cattura la luce con la sua macchina da presa nascosta sotto il cappotto, e la trasforma in un sogno senza tempo.