Il libro
Il sentimento dell'exeita secondo Giovanni Sallusti
Un manuale di ricordo e nostalgia del comunismo dal passato racconta fino alla più triste deriva della sinistra di oggi. Come rivalutare ciò che abbiamo tradito
Si parte dalla confessione blasfema di Giovanni Sallusti, giornalista e saggista: provare nostalgia per i comunisti di una volta. "Mi mancano i vecchi comunisti" (Liberilibri, 144 pp. 16 euro) è un viaggio dal Partito del passato alla più triste deriva della sinistra di oggi. Qui pubblichiamo la prefazione di Giuliano Ferrara.
Tanti anni fa raccontai e teorizzai il sentimento dell’exeità, al quale si erano dedicati i ben maggiori Silone e Deutscher e molti altri. Giovanni Sallusti vendica con questo libro curioso e inquieto il mio e nostro sentimentalismo di allora. E ne smentisce alcuni presupposti. Non esistono i convertiti tra coloro che hanno avuto una appartenenza vitale alle organizzazioni comuniste, quelle vere, col bollino, del secolo scorso. Marx, Engels, Lenin, Gramsci o Togliatti e perfino il travestimento ideologico del Realpolitiker sommo Ciu En Lai, cioè Mao Tse Tung, sono un lascito che non postula conversione, disappartenenza, apostasia. Sarebbe un po’ ridicolo il trasloco degli idoli. E che idoli. C’erano i circenses dell’ideologia, nel comunismo, ma anche il pane. Parise una volta mi disse, di ritorno dalla Cina, che i militanti del libretto rosso famoso gettavano via il contenuto e si tenevano la sua famosa copertina di plastica, per farne un portafoglio. Chi è stato comunista può solo tradire il suo passato, rinnegare i cosiddetti ideali della sua gioventù, e farlo tenendo conto, come suggerisce Sallusti, del fatto che il comunismo è stato violento e radicalmente nemico della pace liberale tra gli uomini, ma è stato anche una specie di Accademia di Pinerolo o di West Point che ha garantito una formazione politica e culturale abbastanza seria e organica, e anche un’educazione sentimentale, cioè un’apertura alla vitalità, passabilmente romantica e anche ironica (che cosa sarebbe il romanticismo senza la sua ironia se non una sconcezza melensa?).
In queste pagine si parte da un certo disgusto, da una certa nausea per il presente, quello che con pedanteria storicistica i comunisti chiamavano il presente stato di cose. Ci sono qui concetti condivisibili e no, espressioni controintuitive molto apprezzabili, idee, il che non guasta vista la penuria generale. Il centro del pamphlet è la nostalgia per l’ordine inteso come sistemazione consapevole delle visioni del mondo, inteso come professionismo o adeguatezza dell’intelletto alla cosa, tenendo sempre conto del famoso incitamento weberiano, in caso di visionarietà compulsiva, di ricordarsi di andare al cinema. Tradire è consegnare una tradizione, tradere, al passato, e abbracciarne un’altra di segno opposto. Lo si fa in seguito a un atto di dissociazione proditorio e magari opportunistico o a una trasformazione dell’intimo delle proprie convinzioni e dello stato della propria anima, una metanoia per parlar greco a tradimento. E la forza segreta del comunismo è di aver prodotto, come sa e lo si vede a ogni riga l’autore di questo libro, una controtradizione, quella appunto dell’exeità. Non è per caso che Silone, scrittore e capo comunista e forse spia, disse che la lotta finale sarebbe stata tra comunisti ed ex comunisti.
Come sia inciampato Sallusti nella rivalutazione di ciò che noi ex abbiamo tradito è evidente. È stanco. Stanco della leggerezza, questa categoria letteraria fittizia abbracciata da legioni di furbissimi e pesantissimi laudatori dell’epoca. Della scarsezza di fantasia creativa in politica. Stanco del peso del nulla tra i nuovi ideologismi del nostro tempo. La trasformazione della lotta di classe, un’abiezione forse, una trovata profetica forse, una componente ovvia della storia umana forse, in una guerra primitiva di moralismi insani e vacillanti, in un girotondo di per sé molto infantile ma non sempre giocoso e candido, è il fenomeno da cui vuole tirarsi fuori rievocando il lascito delle accademie comuniste nei suoi vari aspetti, con il tratto dell’analista e dello storico delle idee. Era nell’aria, si dirà.
Afferrare qualcosa che è nell’aria non è sempre come andare a caccia di farfalle sotto l’Arco di Tito. Non è sempre evanescenza. È anche intuito. Lo studio, il tirocinio, una struttura mentale che non ostruisce il riconoscimento dell’autorità e della gerarchia, il senso dell’organizzazione, la comunanza di interessi, una cultura che parte dall’economia e dalla considerazione mondiale della politica: ci sono cose che, scespirianamente, stanno saldamente tra cielo e terra, e non esorbitano, appartengono all’esperienza comune di popoli, nazioni, ceti, gruppi, individui. I vecchi ufficiali e cadetti di Pinerolo e di West Point, se hanno sbagliato tutto o quasi tutto dal punto di vista del carattere dell’uomo, delle radici della società, del corso delle forze dirimenti della vita delle generazioni, non hanno però ignorato del tutto la vecchia tecnica che prevede applicazione, conformità alla regola, una specie di sottomissione monastica agli affari del convento. A guardare la nuova o le nuove sinistre, che Giovanni Sallusti restituisce per contrasto con un occhio se non sprezzante parecchio disincantato, sembra davvero che tutto sia finito, e che dal momento in cui il privato si rivelò politico tutto il politico sia diventato una specie di insalata russa dei sentimenti e dei comportamenti privati. Il culmine dell’armocromismo si attinge nel pamphlet attraverso una riflessione seria sulla deriva che porta dagli errori sfavillanti e luccicanti e persino lucidi, alla fine, dell’ideologia internazionalista alle divertenti e futili risorse della sinistra queer. Aspettavo con qualche apprensione il momento in cui qualcuno avrebbe scritto questa rassegna del passaggio di consegne dell’esperienza politica a un mondo che mostra ogni giorno di aver bisogno d’altro, dell’inesperienza idealistica come falsa coscienza della realtà presuntiva e della atecnicalità prepolitica. Il giorno è venuto, e sigillo con imbarazzo il momento con questa piccola prefazione a un manuale di ricordo e nostalgia del comunismo più o meno immaginario che fu internazionalista e marxista e leninista e gramsciano e tante altre cose, pieno anch’esso di ironiche divagazioni, di momenti di promettente esame del reale.