Che tempo triste quello in cui i cattolici rinunciano a porsi domande esigenti
Che ne pensano i cattolici delle guerre del nuovo secolo? Sul bene e sul male, sulla vita e sulla morte, sulla contemporaneità e sull’eternità? Per ora, non c’è risposta. Disorientamento in un cambiamento d'epoca
Che ne pensano i cattolici delle guerre asimmetriche che stanno sconvolgendo il mondo e segnando indelebilmente il nuovo secolo? Bella domanda, risponderebbe l’intellettuale di turno all’intervistatore pensoso, prima di apparecchiare una non risposta. La realtà è che a quella domanda, per ora, non c’è risposta. Non solo perché c’è un Papa più comunicatore che pensatore, più antropologo che teologo, più pastore che moralista. Ma soprattutto perché i cattolici hanno smesso di porsi le domande più esigenti. A cominciare da quelle sul bene e sul male, sulla vita e sulla morte, sulla contemporaneità e sull’eternità.
Solo per esercizio dialettico basta provare a farle quelle domande. Per ricavarne una lunghissima, infinita teoria di non risposte. O se volete, più semplicemente di silenzi. Se colpevoli o innocenti non lo sappiamo e soprattutto non possiamo chiedercelo, altrimenti cadremmo nel peccato più stigmatizzato da Francesco: il giudicare l’altro. Dunque le domande. Da osservatore del mondo cattolico, piacerebbe porre tante domande, visto che sino a qualche tempo fa i cattolici erano convinti di poter esprimere un giudizio su tutto. Magari al termine di un sano discernimento e con gli strumenti della “coscienza ben orientata”, come si diceva una volta, senza immaginare di peccare di presunzione. Comunque, prima di quel fatidico “chi sono io per giudicare?” che nei cattolici ha come irretito, se non castrato, la via della ragione che illumina la coscienza.
La convinzione di poter giudicare, maturata nei circoli associativi del post Concilio, aveva indotto generazioni di cattolici (soprattutto laici) a credere che nessun aspetto della vita sociale e comunitaria fosse estraneo alla valutazione da parte della comunità cristiana. Tanto da dare corso a un’espressione comune nel mondo cattolico: “Ma noi cosa ne pensiamo?”. Seguita dall’inevitabile: “Noi che cosa diciamo?”. Una dinamica di domanda e risposta che molto spesso nasceva proprio da quella catechesi esperienziale, sintetizzata nel trinomio “vedere, giudicare, agire” che ha contraddistinto la primavera della Chiesa post conciliare. Con la conseguenza immediata della legittimità, anzi della necessità insopprimibile, di partecipare alla vita pubblica e al confronto culturale (non necessariamente allo scontro). Applicando, in questa dinamica virtuosa, uno dei capisaldi dell’insegnamento del Vaticano II: “Essere nel mondo, ma non del mondo”. Dove l’alterità non era vissuta né come superiorità né come separazione, ma come ricerca di un’identità capace di costruirsi attraverso una “lettura dei segni dei tempi” e dunque in grado di farsi proposta, prima culturale e sociale, e infine politica.
Ecco, questa attitudine del laicato cattolico a farsi domande impegnative e a tentare di dare risposte universali, comunque realistiche, sembra andata perduta. Rispetto a questa eclissi, grande è stato il ruolo del relativismo e dell’individualismo (limiti indicati con lucidità dal pontificato di Ratzinger), ma sarebbe inopportuno sottovalutare il peso della disintermediazione che ha contagiato la Chiesa cattolica sin nelle sue più profonde articolazioni. Al punto da rendere irrilevanti tutte le forme della intermediazione che nei secoli precedenti avevano costituito la specificità del cattolicesimo italiano, al punto da farne un esempio (vedi in particolare l’Azione Cattolica) per il mondo intero. Erano luoghi le associazioni (e poi i Movimenti) in grado di agitare le domande e le risposte per incanalarle non solo nel tessuto ecclesiale, ma anche in quelli sociale e culturale. Ma oggi per tutto il cosiddetto laicato cattolico la principale preoccupazione è un’altra: non cadere nella trappola dello gnosticismo denunciato severamente dal Papa come una forma di tradimento della carità e della misericordia di Dio. Inutile dire che per un’indebita ma forse inevitabile estensione, il solo tentativo di pensare la fede o il solo fare domande e/o chiedere risposte espone al rischio di un sospetto di gnosticismo. Figuriamoci il solo ipotizzare che sia legittima la strada che dalla ragione porti alla fede o la renda plausibile e percorribile!
Oggi basta affacciarsi in una qualunque parrocchia italiana per leggere gli avvisi riguardanti ogni tipo di azione caritativa. Il che, ovviamente, è un gran bene per la Chiesa “ospedale da campo” indicata da Papa Francesco come modello per tutti i credenti. Così come è inutile attendersi qualsiasi sguardo critico sul territorio o una qualunque forma di apertura al dibattito sociale e culturale. Meno che meno politico, perché una cosa è certa: il pontificato di Francesco ha tagliato (in Italia) tutti i ponti dei cattolici con la politica. E dunque la possibilità dell’impegno politico dei cattolici è sempre più diventata residuale. Comunque non essenziale per dirsi cristiani. Del resto è complicato, anche per le persone di buona volontà, fare politica senza pensare politicamente. Ma questo, lo abbiamo capito bene, non è in cima alle preoccupazioni delle comunità ecclesiali. E neppure in capo ad associazioni e movimenti, svuotati della loro missione di protagonisti della intermediazione. Con buona pace della retorica del “fare rete”. Praticata per oltre un decennio dal mondo cattolico e poi accantonata come un vecchio arnese.
Dunque, scoprire cosa pensano oggi i cattolici italiani su un qualunque aspetto della vita comune che non siano i poveri e i migranti (unici temi distintivi nell’agenda del comunicatore globale), è una piccola impresa. Ovviamente saremmo felici di essere apertamente smentiti. Pur nella sgomenta consapevolezza che fra un po’, visto il numero dei credenti in drammatico e costante calo, frse anche queste domande non interesseranno più a nessuno. Persino agli stessi sondaggisti, freddi come sono dinanzi alle percentuali da prefisso telefonico…