la recensione
La zona del narrare di Del Giudice
Gli scritti dello scrittore romano raccolti da Einaudi sono un’interrogazione sul perché dello scrivere letterario, sulle sue possibilità, sul suo dovere o poter essere
Nella scalpellata concisione degli “avvisi ai naviganti” Joseph Conrad ha riconosciuto una forma letteraria in grado di estrinsecarsi in una saggezza fatta pesare sul mondo fuori della letteratura, ma catturata nella letteratura: una “zona del narrare” di cui, sulla scorta di Conrad (ma non solo), Daniele del Giudice ha cercato di indicare coi suoi romanzi, interventi e saggi (dei quali ultimi oggi, grazie alle cure di Enzo Rammairone, si ha silloge, per i tipi di Einaudi, in “Del narrare”, pp. 296, euro 36) i frastagliati confini, provandosi in un’interrogazione sul perché dello scrivere letterario, sulle sue possibilità, sul suo dovere o poter essere. Un’interrogazione che non si sclerotizza, come non di rado è accaduto presso coloro i quali, di tale zona, si sono impegnati a studiare le leggi in una «patologica claustrazione», nutrita – come faceva notare Franco Fortini in uno dei suoi “pareri editoriali” (da poco apparsi presso Quodlibet) a proposito di Blanchot – di «molta dialettica appena verbale», d’una «scrittura involuta e oracolare».
Quella dello scrittore romano non è un’elucubrazione ermeneutica – rispetto ai cui pensosi e macerati splanamenti egli s’avverte quale «presenza ingiustificata» –, ma il tentativo di offrire con calviniana chiarezza, e dunque con una perspicuità che non raggiunge mai un cristallino nitore, perché tutto è rigoroso, ma nulla è immobile, tutto è lì, benché non possa toccarsi, un racconto della realtà capace di interagire con essa.
Affinché ciò possa trovare realizzazione occorrerebbe coniugare una wittgensteiniana “rappresentazione perspicua”, così da mettere in luce la funzione formalizzante del linguaggio, con le prerogative di quanto appare confuso allo sguardo. Le parole d’uno scrittore opererebbero infatti – sostiene Del Giudice – «sulla soglia fra visibile e invisibile», ed anzi costituirebbero la sostanza di questa soglia. Del resto è proprio la visione oculare – l’ha posto in evidenza Birgitte Grundtvig – il cardine della narrativa di Del Giudice, se è vero che ne “Lo Stadio di Wimbledon” l’ambizione del protagonista è di cogliere un momento di simultaneità tra il mondo e la rappresentazione di esso attraverso la macchina fotografica; in “Atlante occidentale” ambedue i protagonisti, uno scienziato e uno scrittore, sono assorbiti dai loro progetti visivi; e per il pilota di “Staccando l'ombra da terra” la vista è una questione di vita o di morte. Ma trae pure da ciò ragione l’ammirazione di Del Giudice per la funzione testimoniale svolta dall’opera di Primo Levi, epitome d’un fare letterario la cui la parola si incarica di raccontare quanto si è visto, cercando di farsi ascoltare e d’ottenere credito dopo essere sopravvissuti: «di raccontare l’inaudito, nel senso letterale della parola, e che per coerenza semantica potrebbe anche restare tale, non udito, respinto all’ascolto». Come Levi stesso appunta in “Decodificazione”, «trasmettere in chiaro, esprimere, esprimersi e rendersi espliciti» è una necessità tanto più urgente nel tempo presente, affetto dalla malattia dell’indistinzione che impregna le frasi d’una pienezza di significato che le rende tutte equivalenti.
Lo si trarrebbe in modo esemplare – osserva Del Giudice chiosandone l’asfittico e martellante dettato – dai romanzi di Thomas Bernhard, il cui ritmo narrativo intenderebbe fungere da (almeno momentaneo) anticorpo a quel potenziamento di senso che si esplica in un “ordine di discorso” conferito del compito di padroneggiare l'evento aleatorio, scongiurandone i poteri e i pericoli. Nelle opere dell’autore austriaco, autentiche partiture di voci del pensiero articolate polifonicamente, Del Giudice coglie una prossimità a quanto Hans Blumenberg ebbe a definire come “pensosità”, volendo in tal modo indicare il gesto che sottrae ciò che si racconta ad una morale, ad una frase conclusiva e comodamente trasferibile, in favore d’un diverso e più complesso sentimento delle cose; un sentimento capace di illuminarle, e che lo scrittore alimenta creando attorno ad ogni parola che trasceglie un cono di luce che reca con sé, allo stesso tempo, una zona d’ombra attraverso la quale passa anche quello che si sta raccontando, ma che sfugge ad ogni controllo dell’interpretazione.
Parrebbe potersi cogliere in tale dichiarazione di poetica un’intenzione di intendere l’atto narrativo, in quanto nato da «ossessioni ed immagini che corrono veloci, mentre lento e dilatato è il tempo in cui la sensibilità elabora dolore, memoria, fantasia», come indissolubilmente legato ad un orizzonte imperscrutabile entro cui si dispiega il corso del mondo, rivelando, in un casuale alternarsi di espansioni d’energia senza freno e di dense concentrazioni interiori, la materia ora «torbida e putrescente» ora «linda e confessabile» che lo informa. Il prendere ciò che si narra dall’esperienza implica infatti penetrare – rivendica Del Giudice in sintonia con la lezione delle “Cosmicomiche” – «in uno spazio-tempo in cui l'implicito, l'inespresso non perdono la propria forza, in cui la pregnanza di significati non si diluisce, in cui il riserbo, la presa di distanza moltiplicano l'efficacia di ogni atto».