l'estratto
L'ultimo libro di Piero Angela e il senso della cultura
“La meraviglia del tutto” è una lunga conversazione con lo storico collaboratore Massimo Polidoro e un viaggio attraverso la conoscenza, guidato dalle parole di colui che meglio di tutti seppe raccontare la scienza agli italiani
Pubblichiamo un estratto de “La meraviglia del tutto”, l’ultima opera di Piero Angela da oggi in libreria (Mondadori, 540 pp., 22 euro). Si tratta di una summa del suo pensiero, frutto di un lungo dialogo con l’amico e storico collaboratore Massimo Polidoro.
L’importanza di acquisire conoscenza e consapevolezza del mondo in cui viviamo per potere trasformare anche la società è un punto centrale su cui credo ruoti da sempre il tuo lavoro. Eppure, le resistenze e i ritardi sono ancora tanti. Come mai, secondo te? “Hai detto bene: è un tema su cui mi interrogo da sempre. Dunque, non ripeteremo qui cose dette altrove. Però ci tengo a dire che mi riesce veramente difficile capire come una persona moderna, colta e curiosa non sia stimolata a interessarsi, e magari anche appassionarsi a queste tematiche per poi incorporarle nella propria cultura. Tu immagina di prendere un uomo moderno e di lasciarlo al centro della foresta amazzonica, senza cibo e senza armi: quante probabilità avrebbe di uscirne vivo?”. Molto poche, temo.
“Esattamente. In un ambiente tanto differente tutta la sua cultura, il suo bagaglio di conoscenze non gli sarebbero di alcuna utilità: in pratica si ritroverebbe analfabeta, facile preda di animali, insetti, malattie, sabbie mobili eccetera. Un indio, invece, se la caverebbe benissimo: saprebbe come orientarsi, dove trovare cibo, quale acqua bere e quale evitare, come difendersi dagli animali e dagli insetti, quali erbe medicamentose usare, come evitare i pericoli, come costruirsi delle armi e confezionarsi degli abiti e così via. Sarebbe cioè un individuo perfettamente adatto all’ambiente in cui deve vivere. La sua cultura, e tutte le cose imparate durante la sua esistenza, gli permetterebbero di agire con efficacia e di trovare la risposta giusta ai vari problemi. Naturalmente la situazione si rovescerebbe se l’indio fosse messo all’improvviso di fronte ai problemi posti dall’amministrazione di un’azienda industriale: sarebbe lui, allora, a non essere più adatto al nuovo ambiente, e verrebbe presto inghiottito dalle sabbie mobili dell’economia”.
Ciò che un individuo conosce, insomma, ha valore soltanto se gli permette di capire il mondo in cui vive e, eventualmente, di modificarlo a suo vantaggio. “Eh, sì, perché altrimenti è come se conoscesse perfettamente una lingua ma si trovasse in un paese in cui se ne parla un’altra: non riuscirebbe a capire e a farsi capire, sarebbe un semianalfabeta. Il problema è tutto qui: oggi tantissime persone, magari anche molto colte, sono semianalfabete quando si esce dall’ambito umanistico. Siamo diventati effettivamente degli analfabeti del nostro tempo. E degli analfabeti perversi, perché non solo non sappiamo usare le invenzioni di cui disponiamo, ma le usiamo male. E, invece, la cultura non può limitarsi a essere l’insieme dei romanzi, dei saggi, della musica, delle opere di storia, degli spettacoli teatrali o delle opere d’arte che un paese produce: questa rappresenta una parte del pensiero umano, nobile e meravigliosa, certo, ma pur sempre solo una parte”.
Invece la cultura, intesa come il frutto del pensiero umano, è qualcosa di più ampio. “Certo, è la capacità globale di rispondere in modo adeguato ai problemi di sopravvivenza che una società deve affrontare. A qualunque livello: energetico, industriale, educativo, mentale, comportamentale… Vale a dire, la capacità di capire il proprio tempo, di individuare le grandi leve che producono i veri cambiamenti e di utilizzarle per adattarsi, anche mentalmente, al proprio ambiente. O appunto, come dicevi, per adattare l’ambiente a sé. Forse ricordi un piccolo esercizio di simulazione mentale che proponevo in un mio vecchio libro. Supponiamo, dicevo, che l’Olanda sia colpita da un terribile tsunami che invade le terre basse, distrugge case e terreni, e due milioni di olandesi siano costretti a emigrare. Se emigrassero in una qualunque parte del mondo disabitata, dopo venticinque anni, andandoli a visitare, cosa troveremmo? Povertà e baracche oppure università e campi da tennis? Io propenderei per la seconda ipotesi. Perché questi olandesi avrebbero portato con sé il software: cioè la capacità di organizzarsi, la conoscenza, i valori, la competenza tecnologica ecc., in una parola, la cultura. Del resto, in un certo senso è proprio quello che è avvenuto in Germania nel secondo dopoguerra. Nel 1945, era un cumulo di rovine. Venticinque anni dopo era una potenza economica”.
È la cultura a fare la differenza. “Sì, ma spesso si dimentica che l’economia funziona (oppure no) proprio grazie al livello educativo di un paese. E’ questo stretto legame che ha reso possibili le varie rivoluzioni che si sono succedute negli ultimi due secoli: tecnologica, economica, demografica e non solo”.