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Cent'anni di blu. Perché "Rhapsody in Blue" è ancora attuale
Broadway ed ebraismo, jazz e classica. La “Rapsodia” di Gershwin, ci parla di diversità: caleidoscopio di un’America meticcia
Dice lei, che è l’attrice Margaret Livingston reduce dalle riprese di “Aurora” di Murnau: “O perdi almeno una ventina di chili o io non ti sposo!”. Il pretendente, che è il corpacciuto bandleader Paul Whiteman, invece di gridare al body shaming accetta le condizioni e sulla sua dieta ci costruisce un business. Dapprima informa i giornali dell’impresa, i quali voracemente si premureranno di scrivere della progressiva perdita di peso, poi raccoglie le sue ricette dimagranti nel libro Il fardello di Whiteman. Sarà un bestseller. Il musicista, che per inciso sposerà la Livingston nel 1931, sapeva come trasformare le avversità in trampolini per la sua fama, le situazioni complicate in opportunità. Era un impresario terribilmente sicuro di sé, un uomo di successo che non aveva paura di niente. Ci vuole quindi un bello sforzo di immaginazione per figurarselo mentre trema come un gattino indifeso in un angolo del camerino dell’Aeolian Hall di New York, pronto a svignarsela dalla porta sul retro dando forfait a pochi minuti dall’inizio del concerto. Eppure, il pomeriggio del 12 febbraio del 1924, il Nostro era in quelle condizioni. Che fosse il Lincoln Day evidentemente non gli restituiva alcun conforto, assalito com’era – è sua l’espressione – da una “fifa nera”. Prima di dire delle ragioni di tale strizza consegniamo il povero Whiteman con le gambe che gli fanno giacomo giacomo a una dissolvenza e riavvolgiamo la pellicola.
È il 1° novembre del 1923, il luogo è sempre l’Aeolian Hall. Sul palco vi è la soprano canadese Eva Gauthier che dopo aver interpretato delle pagine classiche canta alcune song americane, tre sono di George Gershwin che è anche il pianista accompagnatore di quella porzione del programma. Whiteman, che è seduto in platea, ha una folgorazione: organizzare un concerto che avrebbe impegnato la sua big band in una gincana tra classica e musica sincopata. Un tragitto tortuoso ma dalla rotta chiaramente tracciata: il programma avrebbe delineato la storia del jazz, dai suoi ruspanti primi passi sino a quello del futuro. Gershwin è da subito scritturato per occuparsi dell’avveniristico epilogo. Per quel gran finale il songwriter si sarebbe cimentato nella sua prima opera classica. Una pagina che durante la gestazione fu appellata “American Rhapsody” ma poi fu battezzata “Rhapsody in Blue”. Anche l’evento trovò titolo, data e sede della première: “An Experiment in Modern Music”, Aeolian Hall, 12 febbraio 1924. Whiteman mise a disposizione cifre importanti per quel concerto. Oltre a Gershwin coinvolse altri rinomati musicisti, quali il grande maestro dell’operetta Victor Herbert o il virtuoso del pianoforte Zez Confrey, stampò lussuosi programmi di sala, acquistò centinaia di biglietti omaggio per giornalisti e pezzi grossi di New York. Il suo problema, a ogni buon conto, non era tanto rientrare dell’investimento quanto scongiurare un insuccesso dopo tanta dedizione, dopo tante speranze riposte. Per di più il bollettino metereologico per quel giorno dava forti raffiche di vento e neve. L’uomo delle previsioni del tempo ci azzeccò in pieno.
È quindi con la massima indulgenza che ci accingiamo a tornare sul terrorizzato Paul Whiteman il quale quando venne a sapere che nelle prime file, assieme ai patroni della città e ai giornalisti più influenti, stavano prendendo posto anche star della classica quale Rachmaninoff e Stokowski si infilò il cappotto e puntò l’uscita. Alla fine desistette. Gli applausi dopo i primi pezzi gli dimostrarono che rimanere era stata la scelta giusta; la tonante ovazione alla fine di “Rhapsody in Blue” gli suggerì che forse quell’evento sarebbe rimasto segnato sul taccuino della Storia. Non è un caso che il capo orchestra rivale Vincent Lopez si affrettò, nel novembre dello stesso anno, a organizzare un concerto al Metropolitan con una “sinfonietta in stile jazz”, “The Evolution of the Blues”, scritta da W.C. Handy, quale fulcro della serata. Lo stesso Handy nel 1928 ne architettò uno simile: il pubblico della Carnegie Hall sarebbe stato condotto dagli antichi spiritual alla sinfonica “Yamekraw A Negro Rhapsody”. Ancora alla fine degli anni Trenta i celebri live “From Spirituals to Swing” mostreranno il loro debito nei confronti della trovata di Paul Whiteman. Dal decennio successivo i concerti didattici rivolti a restituire l’epopea della musica (afro)americana persero il loro appeal. La rapsodia del giovane Gershwin al contrario continuò ad infiammare.
Il compositore, divorato da un tumore al cervello, morirà l’11 luglio del 1937 senza aver compiuto il suo trentanovesimo genetliaco, eppure nei pochi anni in cui rimase in vita ebbe l’opportunità di vedere la sua creazione farsi largo nella cultura americana. Mentre già circolavano diverse registrazioni discografiche, di cui tre con lo stesso autore al pianoforte, Gershwin la ascoltò quale colonna sonora di tre film tra i quali “The King of Jazz”, dedicato a Paul Whiteman, già in technicolor nel 1930. La guardò coreografata in due balletti, che non lo entusiasmarono particolarmente benché uno recasse la firma di Anton Dolin. La vide trasposta in tre quadri d’avanguardia, un acquarello di Earl Horter e due dipinti di Arthur Dove. La (ri)studiò analizzata in un saggio musicologico, che apparve nel 1929 sulla rivista musicologica Music Teacher. La rintracciò tra le pagine di due opere letterarie, appena accennata nel Grande Gatsby, dove c’è un ellittico riferimento all’“Experiment in Modern Music” e chiaramente citata, con tanto di frammento di spartito incastonato nel testo, nel romanzo di Ursula Parrott Ex-Wife.
Nel mentre i compositori statunitensi in bilico tra musica leggera, jazz e classica fecero la gara per confrontarsi con l’invenzione di Gershwin. James Price Johnson ci provò con la già menzionata “Yamekraw A Negro Rhapsody”, Ferde Grofè con “Three Shades of Blue” (1927) e “Metropolis A Blue Fantasie” (1928), Domenico Savino con “A Study in Blue” (1928) – tutte e tre messe su da Paul Whiteman –, Duke Ellington con “Creole Rhapsody” (1931). Intanto l’originale era espatriato. Già dalla fine degli anni Venti anche il Vecchio Mondo si sentiva in sintonia con quella musica. Il primo corso di jazz in un conservatorio è aperto a Francoforte nel 1928. Al saggio di fine anno gli allievi, preparati dal compositore ungherese Mátyás Seiber, suonano “Rhapsody in Blue”. Il pubblico va in solluchero sin dalle note introduttive del clarinetto. Persino la provinciale Italia, zavorrata dall’autarchica cultura fascista, non si trattiene dal manifestare il proprio entusiasmo. Gorni Kramer, ad esempio, il finale dell’“Experiment in Modern Music” l’aveva in repertorio, in una versione arrangiata per fisarmonica sola, già dagli anni Trenta. Dal dopoguerra la partitura è sulla piazza in (almeno) tre fogge: per pianoforte solo, per jazz band e per orchestra sinfonica, tutte arrangiate dal quel Ferde Grofé che si occupò di orchestrare la rapsodia per la “prima” del 1924. Le versioni discografiche, abbattendo le barriere tra i generi, si moltiplicano. È portata in studio dal severo Arturo Toscanini (che apprezzò come regalo la partitura rilegata in pelle con il suo nome inciso – “Non potevo ricevere dono più bello”) e dal mercuriale Leonard Bernstein. Henry Mancini la riarrangia traendo una registrazione di una grazia unica; il disco di Glenn Miller non è da meno. In quella di Duke Ellington il clarinetto è sostituito da un sax baritono così che la famosa arrampicata d’apertura lungo un ripido glissando, che il clarinetto aveva sempre fatto in una volata, è percorsa dal bolso sassofono in tre tappe: che sottilissima ironia!
Poi Woody Allen le avrebbe trovato posto nel suo “Manhattan” (1979) e un lustro dopo, durante la cerimonia inaugurale dei Giochi Olimpici di Los Angeles del 1984, sarebbe stata interpretata da 84 pianisti (tutti vestiti in blu, s’intende). E così, decennio dopo decennio, disco dopo disco, alla fine degli anni Ottanta la Nostra è ormai pronta a sfrecciare nei cieli. L’immagine suona atrocemente retorica ma in quale altro modo dire che l’Andantino della “Rhapsody in Blue” dal 1987 sarebbe diventato il jingle della United Airlines? Quando negli anni Dieci del nuovo millennio qualche alto papavero dell’azienda valutò di sostituirla in molti ebbero da ridire. Oggi, dopo quasi quarant’anni, è ancora la musica degli spot della compagnia aerea. Anche qui da noi, e proprio oggi, l’opera di Gershwin è sulla cresta dell’onda. E’ nelle librerie, protagonista del saggio Rapsodia americana (Bur Rizzoli, 2023) a firma di Marco Bardazzi. L’americanista prende la partitura di Gershwin, la arrotola a guisa di cannocchiale e poi ci guarda dentro per scrutare la società americana odierna. I capitoli dispari, collocati nel 1924, sono tutti dedicati a raccontare la vicenda dell’“Experiment in Modern Music” mentre quelli pari catapultano il lettore in avanti di cento anni e indagano le ricadute di quell’originale progetto dei Roaring Twenties sugli Stati Uniti di Trump e della filosofia woke. E in effetti l’immagine dell’America contemporanea appare più nitida se messa a fuoco attraverso la lente di “Rhapsody in Blue”. Un’occasione di riflessione così ghiotta il Conservatorio Verdi di Milano non se l’è lasciata sfuggire. Domenica 11 febbraio ore 20.00, alla vigilia del centenario di quel pomeriggio alla Aeolian Hall, Paolo Silvestri dirigerà la Verdi Jazz Orchestra nella “Rapsodia in blu” e in tre arie da “Porgy and Bess”. Incastonata tra i due tempi ci sarà una tavola rotonda alla quale parteciperanno Marco Bardazzi, Mario Calabresi e, in qualità di musicologo, anche l’autore di questo articolo.
Gershwin, insomma, è sempre up to date. Da questa prospettiva, le interpretazioni delle sue canzoni sono lampanti cartine di tornasole. Le melodie di Stephen Foster sono squisitamente eloquenti ma sanno di Ottocento, nessuna rilettura potrà togliere quel sentore; mentre le ascoltiamo ci vediamo un bifolco che mastica tabacco e un tramonto nel Kentucky. Quando invece Brian Wilson canta “They Can’t Take That Away From Me”, che è una song degli anni Trenta, ci immaginiamo di essere su una spiaggia californiana a far baldoria assieme agli altri Beach Boys; quando Jon Bon Jovi attacca con “How Long Has This Been Going On”, che è del ‘27, ci pare plausibile pensare che quel pezzo sia stato scritto da Richie Sambora come ballad da inserire a metà live. “Rhapsody in Blue” condivide con le hit di Broadway la stessa darwiniana capacità di adattamento. E c’è di più. Il musicologo Ryan Raul Bañagale nel suo Arranging Gershwin (Oxford University Press, 2014) fa notare che non esiste un’edizione originale della partitura sostenendo che tutti gli arrangiamenti nel loro insieme sono “Rhapsody in Blue”. In altre parole, il capolavoro di Gershwin aveva tolto di mezzo il concetto di autenticità, di purezza, lasciando le porte aperte al meticciato. D’altra parte lo stesso autore aveva descritto la sua prima opera come un caleidoscopio dell’America. Immagini di grattacieli e brulicanti folle urbane, da decenni associate alla partitura, forse ci hanno mandato fuori pista. Il compositore intendeva altro. George, era un ebreo figlio di immigrati russi. Papà Moishe e mamma Roza nei loro primi anni a New York cambiarono casa innumerevoli volte (secondo il primogenito Ira almeno una ventina di indirizzi) stabilendosi ora nel Lower East Side, ora a Brooklyn ora ad Harlem. Porzioni della Grande Mela in cui aveva trovato posto un variopinto mosaico di ebrei, neri, latinoamericani, italiani e irlandesi. È questo il caleidoscopio che la rapsodia intende restituire. Non una fantasmagoria di grattacieli ma un melting pot di persone.
La “Rapsodia in blu” ci parla della diversità. Abbiamo la tradizione classica e il blues, le melodie di Broadway e gli aromi di un ebraico freylakh, l’amato Claude Debussy e gli altrettanto apprezzati maestri afroamericani dello stride piano harlemita. Ci convince che il crogiuolo è vitale o in ogni caso, piaccia o meno, è assolutamente inevitabile. Ci dà l’idea di quanto sia complesso tenere tutto insieme e comunque ci suggerisce dei modi per farlo, o almeno per provarci. Allora, dobbiamo ancora chiederci se la “Rhapsody in Blue” è attuale?