una prima curiosa
Semplificare fino ad annullare. “Simon Boccanegra” alla Scala
In un mondo nel quale tutte le esperienze devono essere facili, veloci, consumabili, l’opera ci sospinge in una sorta di metaverso che, anche solo per poche ore, consente di riflettere (anche) sul valore delle parole
In un mondo nel quale tutte le esperienze devono essere facili, veloci, consumabili, l’opera ci sospinge in una sorta di metaverso che, anche solo per poche ore, consente di riflettere (anche) sul valore delle parole. Ma andiamo con ordine. Alla Scala va in scena il Simon Boccanegra di Verdi e la sera della prima accade una cosa curiosa: a un certo punto il protagonista (il doge Boccanegra, appunto) comunica al consiglio un messaggio del Petrarca che invita Genova e Venezia a far pace; questo Petrarca, ribattono subito in modo stizzito, farebbe bene a farsi gli affari suoi (“attenda alle sue rime il cantor della bionda Avignonese”). Ora, Verdi e Boito, questa comunicazione del Doge la scrivono precisa, certo allusiva, ma decisamente chiara: “Ecco un messaggio del romito di Sorga”.
Alla Scala evidentemente temevano che nessuno capisse chi fosse (o cosa fosse) questo romito, e allora decidono che Verdi e Boito l’avevano fatta troppo difficile e cambiano la frase in un più basico “ecco un messaggio di Francesco Petrarca”. Così finalmente tutti sapranno che nei pressi del fiume Sorga romitava tal Francesco Petrarca. Benissimo. L’intento maieutico è sempre apprezzabile. Però nella frase successiva si pone immediatamente un problema serio: chi sarà mai questa “bionda avignonese” di cui il suddetto Petrarca sarebbe il cantore? Dico, avete idea di quante bionde ci saranno state ad Avignone a quei tempi? E tra tutte le bionde, quante poi si chiamavano effettivamente Laura? Ma non è finita qui: nella scena successiva si parla di un certo “tosco”. Gelo in sala: cos’è mai questo “tosco”? Sarà il marito di Tosca? Bene sarebbe stato aggiornare il linguaggio con un più intellegibile “veleno”. E ancora in altro passaggio si riferisce di una “pinta effige”: sguardi smarriti tra i palchi. L’acme però è un paio di scene dopo, quando invece di un più accessibile “ti taglieranno la testa” uno dei protagonisti se ne esce, tapino, con un davvero incomprensibile “sei sacro alla bipenne”. Che sfrontatezza!
Ad averne lo spazio e il tempo si potrebbe continuare all’infinito, ma credo valga la pena di domandarci da dove origini questa esigenza (non nuova, peraltro) di alterare il testo originale. Verdi con i suoi librettisti ha sempre avuto un rapporto controverso, e tante volte ha cambiato i versi del libretto a suo gusto anche dopo la stampa, ma, come dire, era pur sempre Verdi! Oggi, a volerne prendere coscienza, il discorso sarebbe assai più ampio e complesso. Non si tratta più di cambiare una parola qui o di mettere un sinonimo più chiaro là. La triste verità è che a forza di servire omogeneizzati di cultura, finirà che non sapremo più usare i denti per masticare cibo vero. A forza di pensare che la continua ed estenuante semplificazione del lessico serva a rendere accessibile il messaggio, finiremo non solo per snaturarlo, il messaggio, ma per annullarlo. La straordinaria povertà terminologica e sintattica della narrativa contemporanea, il continuo ricorso a banalizzazioni lessicali più o meno ovunque ne sono la (triste) prova. Di questa deriva almeno il teatro d’opera non può e non deve farsi complice.
Della parte musicale basti dire di un immenso Luca Salsi: dopo anni passati ad ascoltare Sprechgesang di ultraottantenni sedicenti baritoni, finalmente un cantante vero. Il miglior Simone che oggi possa salire sul palcoscenico: cuore e tanta tanta testa per un Doge che non si dimenticherà facilmente. Eleonora Buratto è una Maria che non emoziona, ma sostanzialmente corretta. Quanto al Fiesco di Ain Anger è sufficiente ricordare l’ammonimento di Flora al barone Douphol: “Meglio fora se avesse taciuto”. Lorenzo Viotti è forse ancora giovane per quest’opera (che è complessa e bellissima, uno dei vertici assoluti del teatro musicale italiano), ma l’orchestra restituisce un suono magnifico e un impasto di colori autenticamente verdiano. Di lui si parlerà tanto in futuro.