La riflessione
Cara Viola Ardone, il “Don Giovanni” parla di libertà. Non di patriarcato
Nel dramma l’amore è descritto come ribellione all’ordine sociale, scelta di libertà, eversione dalle regole. Prima di parlarne, le opere sarebbe meglio ascoltarle, o almeno leggerle
Ecco, il “Don Giovanni” come espressione della “natura predatoria del patriarcato” ci mancava. Ha provveduto ieri Viola Ardone sulla prima pagina di Repubblica, prendendo spunto da una ripresa del vecchio, bellissimo e incolpevole spettacolo di Mario Martone al San Carlo. Ardone fa la predica a Da Ponte e Mozart per interposto Leporello: “Nell’epoca del #MeToo”, come rileggere il famoso catalogo “senza che quella lista di prede erotiche risulti sinistramente simile a quella che enumera le vittime di femminicidio?”. Già come? Forse perché c’entra niente? Le donne che il Don seduce sono consapevoli di farsi sedurre, a partire proprio da Donn’Anna, ufficialmente “sforzata” e in realtà, si direbbe, talmente consenziente da avvinghiarsi al presunto stupratore: “Non sperar se non m’uccidi / Ch’io ti lasci fuggir mai”.
Ardone mi ricorda uno sventurato baritono che interrogai a un concorso dopo che aveva cantato la serenata senza un accento che fosse uno. Scusa, caro, secondo te chi è Don Giovanni? “Mah, boh, uno che gli piacciono le donne”, sic. È un po’ più complicato di così, anche perché nessun’opera ha mai suscitato tante interpretazioni, e tanto diverse. Intanto, bisognerebbe forse riflettere sul fatto che, durante tutta l’opera, a Don Giovanni va sempre male. Non “conclude” mai, né con Anna né con Zerlina né con Donn’Elvira (forse con la sua serva, non sappiamo): il seduttore va sempre in bianco. E poi il burlador non è un bagnino romagnolo a caccia di tedesche. È un seduttore affascinato dal fatto stesso di sedurre, un innamorato dell’amore, di cui gli piacciono il gioco, l’incantamento, la scommessa molto più che l’atto in sé: il contrario dello stupratore. Un libertino, certo; ma anche e forse soprattutto in senso filosofico. L’amore come ribellione all’ordine sociale, scelta di libertà, eversione dalle regole: “Il padron con prepotenza / l’innocenza mi rubò”, canta Leporello, ma non ditelo a qualche regista tedesco, sennò li mette subito a letto insieme.
Prima di parlarne, le opere sarebbe meglio ascoltarle, o almeno leggerle. “Dopo la punizione del reo […], tutti gli altri protagonisti si uniscono in coro e cantano: Viva la libertà!”, scrive Ardone. Ciao, core. Dopo la punizione del reo, che è poi una deliberata, eroica scelta di morire pur di restare fedele ai propri ideali, nessuno canta “Viva la libertà!”, ma tutti fanno progetti di vita, e di vita banale: Elvira andrà in convento, Donn’Anna sposerà Don Ottavio senza amarlo (dopo Don Giovanni, si sente come Concetta con Cavriaghi al posto di Tancredi: come bere acqua dopo aver gustato il marsala), Zerlina e Masetto vanno a casa e Leporello all’osteria “a trovar padron miglior”. Chi canta davvero “Viva la libertà”, in una solenne frase prescritta “Maestoso” da Mozart (info per Ardone: nelle opere liriche c’è anche la musica) è Don Giovanni nell’ultima scena sì, ma del primo atto. Ed è poi la ragione per la quale quando il #MeToo, Rep. e ll foglio, Ardone e il sottoscritto saranno spariti, il “Don Giovanni” sarà ancora lì, a parlarci non di patriarcato, ma di libertà.