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Minime note e calma musicale: il maestro Arvo Pärt
Dall’Unione sovietica alla "Grande Bellezza". Così il canto gregoriano e la polifonia rinascimentale hanno indicato la strada al compositore estone
Tra i molteplici motivi per cui considero “La Grande Bellezza” uno dei capolavori del cinema degli ultimi vent’anni – in pratica del nuovo secolo – c’è indubbiamente l’appassionantissima colonna sonora. Credo che la scelta dei brani, non so trovare un aggettivo migliore, sia molto eccitante, con capriole e circonvoluzioni a trecentosessanta gradi che sbalordiscono e, soprattutto, travalicano finalmente lo scontato “genere musicale” che di solito, per rassicuranti affinità tematiche, viene appiccicato alla soundtrack di un film.
Ciò che considero personalmente impagabile è la circostanza che, ascoltando allora (nel 2013) la colonna sonora, incappai in brani di autori che avevo solo sentito nominare, ma che non avevo mai approfondito, perché la musica, lo sanno tutti, è un mare magnum spessissimo in tempesta, tanto che diventa arduo seguire tutto ciò che si vorrebbe.
Così mi sono ritrovato improvvisamente ammaliato, appena iniziato il film, dal panorama dal Colle del Gianicolo che veniva accompagnato da “I Lie” di David Lang con le vocalità del Torino Vocalensemble, ma soprattutto ho ceduto ogni arma di fronte alle note delle “Beatitudes” di Vladimir Martynov e del Kronos Quartet, nonché a un brano straordinario come “My Heart in The Highlands” il cui testo è una poesia del 1789 del poeta scozzese Robert Burns, trasformata in un brano musicale dal compositore estone Arvo Pärt. È particolarmente suggestiva la scena in cui quest’ultimo brano sorge piano piano, accompagnando il ridestarsi di Gep Gambardella da una breve pennichella, per poi manifestarsi in tutta la sua solennità.
Toni Servillo, il protagonista del film, o, appunto, Gep Gambardella, dondola su un’amaca posizionata sulla celebre terrazza romana di Via Claudia che domina il Colosseo. Qualcosa attrae la sua attenzione, si sporge un poco dal muretto per osservare la ragione dell’acuto vociare e scopre il rincorrersi affettuoso di bimbi e monache biancovestite sui vialetti del sottostante giardino alla francese. Durante questi due minuti, su un’improbabile silenzio romano, sorge tutta la calma solenne di “My Heart in The Highlands”, così una vera e propria quiete ieratica s’impadronisce del film e, cimentandosi in un’impresa titanica, sconfigge il celebratissimo caos della capitale.
Se Arvo Pärt, attraverso Paolo Sorrentino, è riuscito a dominare, anche solo nella finzione, che è comunque influenzata dalla realtà, le centinaia di migliaia di imprecazioni che ogni giorno ascendono dalla sottostante Piazza del Colosseo e a infondere una clamorosa calma a Roma, allora ci si trova di fronte, oltre che a un grande musicista, pure a una sorta di stregone. Possono essere molteplici le ragioni per cui Arvo Pärt è in grado di interpretare sia il ruolo del mago che quello del portatore di una così grande calma e solennità musicale. Il tentativo di elencare questi motivi parte necessariamente da quello più naturale, che salta immediatamente agli occhi: la sua vetustà. Arvo Pärt è nato in Estonia nel settembre del 1935, ciò significa che è ormai prossimo ai novant’anni, ma solo fino a dieci anni fa era ancora attivamente coinvolto nella musica, visto che aveva scritto una sinfonia – “Sequentia” – appositamente per la parte iniziale dell’opera teatrale “Adam’s Passion” di Robert Wilson (opera che, tra l’altro, ha debuttato in Italia alla Nuvola di Fuksas nel marzo del 2023).
Verrebbe da dire che, a quella veneranda età, la questione della musica è del tutto depurata da ciò che chiamiamo “velocità”: un orpello che è un’esclusiva fissazione dei musicisti più giovinotti. Tuttavia in questo caso particolare non è affatto così. Se si risale, opera dopo opera, alle prime composizioni di Pärt (“Nekrolog” op.5 e “Perpetuum Mobile” op.10, che compose a 25 e 28 anni) ci si rende conto che, per rimanere nell’ambito della musica colta, il mozartiano “turbine della giovinezza” pare averlo molto poco coinvolto già all’inizio della carriera. Perché l’incedere di quei lavori giovanili è quasi analogo, anche se non del tutto, a quello di “Sequentia”, che è stata composta più di 50 anni dopo.
Perciò se la solennità e la maestosità delle composizioni di Pärt non possono essere giustificate dall’avanzare dell’età, è necessario affidarsi all’altra principale fonte di ispirazione: la peculiarità dei luoghi dove il musicista è cresciuto, cioè a Rakvere, in Estonia, territorio che fino al 1991 è stato parte dell’Unione sovietica. L’Estonia è un luogo particolare, una tutto sommato piccola porzione di terra incastrata tra due giganti: l’originaria Madre Russia – San Pietroburgo si trova a meno di duecento chilometri dal confine con l’Estonia – e, giusto a due ore di traghetto, la Finlandia. Ciascuno di questi mondi musicali è stato dominato da fortissime personalità, che, per quanto riguarda l’ampiezza delle composizioni di Arvo Pärt, potrebbero ricondursi a Rimskij-Korsakov e Jean Sibelius, ma ancora una volta l’esercizio di classificare le ispirazioni circoscrivendole alla geografia è votato al fallimento.
“Certamente ai tempi del conservatorio di Tallin ci si rifaceva molto all’arte compositiva di Rimskij-Korsakov, ma tutti quegli insegnamenti non ressero il confronto con la visita e gli incontri musicali in Estonia di Luigi Nono. Era la prima volta che ci confrontavamo davvero con un compositore occidentale e, grazie a lui, potevamo parlare compiutamente, per esempio, della dodecafonia. Fino a quel momento gli stimoli provenienti dall’ovest arrivavano solo attraverso delle musicassette registrate che erano completamente illegali, perciò c’era un grande desiderio di confronto tangibile con ciò che avveniva Oltrecortina. Tutto questo fermento artistico-musicale era chiamato ‘l’avanguardia sovietica’ e magari si poteva credere che esistesse davvero perché Nono ricevette accoglienze sorridenti, persino entusiastiche, dalle autorità.
Ma quell’entusiasmo serviva solo a fare in modo che al suo ritorno lodasse l’apertura mentale che gli alti esponenti culturali del partito avevano dimostrato. Per quanto mi riguarda la realtà emerse quando nel 1961 pubblicai ‘Nekrolog’: allora ero ancora studente del conservatorio di Tallin e quel pezzo dodecafonico creò diversi problemi con gli alti gradi musicali dell’Urss. Non c’era niente di più offensivo e ostile in Unione sovietica che la musica dodecafonica, perché veniva considerata un’influenza occidentale molto dannosa per le giovani generazioni. E’ chiaro che chi desiderava davvero esplorare la musica doveva andarsene e per me abbandonare l’Estonia sovietica è stata una scelta inevitabile”.
Ma neppure il desiderio di confronto con le nuove concezioni musicali dell’occidente e gli ostacoli frapposti dalle autorità riescono a spiegare che cosa indicò la direzione ad Arvo Pärt, che, a un certo punto della sua vita, invertì completamente la propria rotta artistica. “A un certo punto della mia carriera non credevo più di essere in grado di comporre qualcosa di davvero profondo con le tecniche musicali che avevo adoperato fino ad allora. La modernità che avevo sperimentato mi apparve all’improvviso inadeguata. In realtà non so cosa mi capitò, credo una sorta di esaurimento nervoso musicale. Così, quasi angosciosamente, decisi di tornare molto indietro nel tempo. Ho cominciato a studiare il canto gregoriano e la polifonia del Rinascimento e lentamente ho ripreso a scrivere musica che ritenevo avesse ancora un senso”.
Così, al termine dello studio e del temporaneo ritiro, apparve nel 1976 il suo nuovo stile musicale, caratterizzato da una straordinaria semplicità e battezzato con un nome che pare, proprio per questa ragione, un gioco da bambini: “tintinnabuli”. Si tratta di un solenne minimalismo che colpisce e conquista gli ascoltatori, proprio come è accaduto quando “My Heart in The Highlands” è emerso pian piano dalla colonna sonora de “La Grande Bellezza”.
Proprio a causa di questo evidente minimalismo fino a poco tempo fa credevo che tutto ciò che si ascolta, per esempio, in “Tabula Rasa” o nella famosissima “Cantus In Memory of Benjamin Britten” fosse null’altro che un lungo processo di distillazione musicale, che, alla fine, togliendo tutto ciò che si rivelava superfluo, si riduceva alla reale e semplicissima essenza del suono e dell’armonia. Ma anche questa volta, tanto per cambiare, mi sbagliavo.
L’errore s’è manifestato mentre assistevo a un concerto d’un ensemble da camera che proponeva un programma che, per ampiezza, poteva rispecchiare la colonna sonora del film di Paolo Sorrentino: dal barocco veneziano sino ad Arvo Pärt, passando da Johann Sebastian Bach ed Ezio Bosso. Tutto era filato liscio come l’olio fino all’ultimo pezzo e i musicisti si sorridevano l’un l’altro, contenti per come fluivano leggere le composizioni di Benedetto Marcello e di Antonio Vivaldi, piene di scherzi e arzigogolature armoniche che gli esecutori dominavano con grande abilità e destrezza.
Però, come previsto dal programma di sala, alla fine del recital i musicisti dovevano suonare “Fratres” di Arvo Pärt: ciò che alle mie orecchie – e non solo alle mie – doveva apparire l’essenza della semplicità in musica. Quello che in altre parole si poteva definire il minimalismo del minimalismo. Immaginavo che per degli esperti concertisti riprodurre quelle note semplici fosse agevolissimo: che la difficoltà fosse, a causa della lunga distillazione, piuttosto nella composizione, ma non nell’esecuzione. Ma è stato proprio in “Fratres” che ho visto gli sguardi ammiccanti spegnersi di colpo e ho osservato i musicisti che poco prima erano letteralmente portati dal vento, finire in balìa dell’estrema difficoltà dell’apparente semplicità dei “tintinnabuli”.
Lo sguardo del violoncellista era teso e, di tanto in tanto, si volgeva verso la pianista perché sostenesse di più lo scandire delle note solitarie di Arvo Pärt. Pareva dicesse con gli occhi: “Dammi più corpo! Dammi più corpo! Aiutami a tenere le note!”. Chissà per quale ragione mi pareva anche di percepire la sua ansia per ottenere la migliore esecuzione possibile e pure la tensione dei muscoli irrigiditi per tenere con l’arco quelle maledette, semplici note lunghe e ripetute.
È stato osservando la nervosissima espressione del violoncellista che ho afferrato appieno il significato della frase “è estremamente difficile ottenere la semplicità” e, al tempo stesso, ho finalmente compreso perché Nick Cave, Warren Ellis, P.J. Harvey, Keith Jarrett e, più recentemente, la rivista Newsweek considerano Arvo Pärt il più importante musicista vivente.