Il mecenatismo mi fa felice
Storia quasi fiabesca, ma molto contemporanea, della Fondazione Sacchetti
Nel 2013 nasce la Fondazione, un’idea di “mecenatismo contemporaneo”. Per celebrare i dieci anni l’impegno più grande, la partecipazione al restauro della Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro a Venezia appena iniziato. Tra Papi e grande bellezza
I leggeri ponteggi in alluminio erano fissati negli stessi fori nei muri lasciati cinquecento anni prima dai ponteggi di legno su cui era salito Michelangelo. Già questa una piccola scoperta e una grande emozione. Ma il privilegio di salirvi, nella penombra delle volte, a un palmo di naso dal capolavoro mentre Gianluigi Colalucci e gli altri maestri del restauro lavoravano per ridare luce e colore alla Cappella Sistina era qualche cosa di speciale, di unico. Un’avventura rinascimentale. Giovanna Zanuso l’arte l’aveva nell’anima, la passione e la competenza le aveva assorbite in lunghe esperienze di vita e attività. Ma se le era possibile, ogni tanto, con discrezione, entrare in quella Cappella divenuta un cantiere, salire su quei ponteggi, era per via di un principe rinascimentale, o meglio di un marchese. Si erano conosciuti, sempre un’aura fiabesca, al castello di Gussing nel Burgerland, estrema propaggine dell’Austria Felix verso l’Ungheria, invitati a una festa di nozze che per entrambi prometteva soltanto formalità e noia. E invece. Quando Giovanna Zanuso e Giulio Sacchetti si sposarono, nel 1985, i restauri della Volta e poi del Giudizio Universale erano da poco iniziati, sotto il regno di Giovanni Paolo II. Il marchese Giulio Sacchetti non era lì per caso, e non era innanzitutto un uomo qualsiasi. Anche se Paolo VI nel 1968 aveva riformato la Curia e abolito ruoli e privilegi della nobiltà pontificia, da intelligente uomo di governo e di cultura non si era lasciato sfuggire quel collaboratore raffinato e prezioso, “patrizio romano coscritto” e marchese “di baldacchino”, poco meno di un principe per antica fedeltà papalina. Così il borghese modernizzatore Papa Montini aveva creato per Giulio Sacchetti un inedito ruolo, “Delegato speciale della pontificia commissione per lo Stato della Città del Vaticano”. Per molti anni e nuovi Papi, Giulio Sacchetti resterà il laico con la più alta carica della Città del Vaticano. Nel Palazzo del Governatorato controllava tutto ciò che serviva alla piccola città-stato, compreso ciò che era pertinente all’immenso patrimonio d’arte. Fu lui a firmare i contratti per i restauri della Sistina, lui ad avviare il progetto di Santa Marta, dove ora risiede Francesco. Amava anche l’arte contemporanea: la sfera in bronzo di Arnaldo Pomodoro nel Cortile della Pigna arrivò nel 1990. Per Giulio e Giovanna Sacchetti l’arte era connaturata alla vita, la loro unione cementata nella visione di un mecenatismo moderno, l’orizzonte la tutela e la valorizzazione del patrimonio e dei beni storici di Roma e in tutta Italia. “Nei saloni del Palazzo di via Giulia lui era nato, io ci sono entrata da sposa e ci ho vissuto trent’anni”, racconta. Il restauro di Palazzo Sacchetti nel rione Ponte, “il quartiere dei fiorentini”, è la prima impresa comune. Intanto brillavano altre piccole perle. Come il recupero dell’orto botanico di Santa Croce in Gerusalemme. Chiesero a Jannis Kounellis di creare un cancello. Nacque il Sipario, filo di metallo e vetri colorati recuperati degli scarti di lavorazione di Murano: oggi è una visione sorprendente offerta agli occhi di tutti. Giovanna ne conserva il modellino preparatorio, nella sua casa di Milano.
Giulio Sacchetti morì nel 2010, la moglie decise di continuare l’opera che avevano condiviso per tutta la vita. Nel 2013 nasce così, naturaliter verrebbe da dire, la Fondazione Giulio e Giovanna Sacchetti, “organizzazione non lucrativa di utilità sociale”. Operatività e rigore – la fondazione ha pochi membri effettivi, l’essenziale – e una visione chiara: quella di un “mecenatismo contemporaneo”, l’espressione che Giovanna Sacchetti predilige, per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e artistico. Ma anche per il sostegno alla ricerca scientifica e alla solidarietà sociale, nel segno di una filantropia che sta prendendo piede anche nel nostro paese un po’ pigro, in passato, per queste cose. Ora che la fondazione ha compiuto dieci anni, se si guarda indietro è contenta di ogni cosa. Dalla Madonna con il Bambino di Mantegna restaurata nel 2020 per il Poldi Pezzoli di Milano, al grande restauro degli affreschi del Vasari e del soffitto ligneo della Sala degli Elementi di Palazzo Vecchio a Firenze, nel 2017. E il grande contributo offerto dalla Fondazione alla rinascita della Pinacoteca di Brera, dove sono state riallestite nel 2018 le sale dell’Ottocento, mentre nel 2019 una successiva donazione ha permesso alla Pinacoteca di poter esporre le collezioni del ’900 e di rendere visibili le collezioni Jesi e Vitali prigioniere dell’eterno cantiere di Palazzo Citterio. In cambio ha avuto un rosa, la “Rosa di Brera” con cui è stata premiata.
Questa che, raccontata così, sembra una storia fuori dall’ordinario, o incredibile alle nostre latitudini e pigrizie culturali italiane, è invece soprattutto una interessante storia di “mecenatismo contemporaneo”, della volontà, e capacità, di utilizzare una ricchezza privata, e una competenza sicura, per mettere a disposizione della collettività un patrimonio che è di tutti. E che può forgiare il futuro di tutti. Un’impronta anglosassone, mentre “in Italia i ricchi sono spesso avari”, sorride un po’ perplessa la marchesa, “si pensa sempre prima a sistemare l’eredità dei figli, mentre in paesi come l’America donare al pubblico è un titolo di vanto, la prima cosa cui pensa chi ha avuto successo nella vita”. In effetti chi donerebbe, senza pensarci due volte, un Interno del Pantheon dipinto da Giovanni Paolo Pannini, che ora è lì nel salone della sua casa milanese e sede della Fondazione, dirimpetto a casa del Manzoni? Tra poco invece anche questa opera del pittore settecentesco andrà in dono al Poldi Pezzoli. Immaginare, decidere, fare. Senza perdersi nei mille meandri delle burocrazie, anche culturali. E’ la filosofia di questa donna volitiva, di pensieri veloci. Tutelarsi attraverso una fondazione, che consenta di scegliere e fare, è stata una scelta per essere più libera. Nella convinzione mai venuta meno che i gesti e le opere possono lasciare un segno positivo nella società destinato a dare frutti nel tempo.
Oggi ci sono, è vero, grandi aziende che attraverso le loro fondazioni sostengono arte e cultura, più difficile trovare un privato che creda nel puro mecenatismo. Se ha un cruccio, è la poca sintonia che ancora c’è tra le istituzioni pubbliche, che per compito tutelano i beni culturali, e la collaborazione dei privati. “Ad esempio, l’Art bonus trovo sia uno strumento utile, però costringe in certi percorsi, ha i suoi tempi burocratici che spesso i donatori soffrono”, dice. E dai suoi occhi scurissimi incastonati fra i corti capelli candidi saetta un lampo che incenerirebbe qualsiasi funzionario e burocrate. Allo stesso modo, nel 2016 uno dei primi interventi della Fondazione fu donare alla Galleria di Villa Borghese un quadro importante, il Ritratto del cardinal Giulio Sacchetti di Pietro da Cortona, gran pittore barocco e di fiducia della famiglia, in modo che potesse finalmente riunirsi al ritratto del fratello, il marchese Marcello Sacchetti, opera dello stesso pittore e di proprietà del museo. “Una delle più grandi donazioni mai giunte da un privato”, nelle parole della allora direttrice della Galleria Borghese Anna Coliva.
La vicenda del doppio ritratto di Pietro da Cortona ci riporta indietro nella storia. La famiglia fiorentina dei Sacchetti era già nobile e stimata ai tempi del Cacciaguida di Dante, “Grand’era già la colonna del Vaio, / Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci”. Vennero a Roma, come tante altre grandi famiglie di Firenze, alla ricerca di maggior rango papalino e nuove ricchezze. Il cardinal Giulio sfiorò due volte il papato a metà Seicento, mentre anno dopo anno si formava una collezione di quadri tra le più importanti del barocco. Pietro da Cortona, Guido Reni, Guercino. Non fu mecenatismo, ma la bancarotta di un patrimonio dilapidato, a costringere i Sacchetti a cedere nel Settecento a Papa Benedetto XIV ben 187 opere che ornavano il palazzo di via Giulia, e che diverranno il nucleo fondativo della Pinacoteca capitolina, il primo museo pubblico al mondo. Secoli dopo quel palazzo restaurato, frequentato da politici, diplomatici e dignitari per lunghi anni era stata la casa di Giulio e Giovanna. Anche lei nata a Roma, ma era cresciuta in Brasile. L’amore per la bellezza lo aveva assorbito dalla madre, che la trascinava in visite antiquarie e per tappeti (“ho imparato come si contano i nodi, ma allora odiavo quei riti”). Poi gli studi in Europa, i viaggi. E nei lunghi anni romani collaborazioni e interventi sostenuti ovunque, dal restauro all’Accademia di San Luca della tela di Antiveduto della Grammatica, celebre copia del San Luca che dipinge la Vergine che la tradizione attribuisce a Raffaello e molto caro a tutti gli artisti romani. Oppure, nel 2021 il grande ripristino di Casa Litta - Palazzo Orsini, incastonata nel Teatro di Marcello. Si può fare, anche in Italia, è la Weltanschauung di Giovanna Zanuso Sacchetti. L’Italia, più di altri paesi, ha scrigni di ricchezze e di bellezze incomparabili che spesso restano nascoste. Bisogna liberare questa energia.
Poi è venuto il Covid, e la fondazione fu tra le prime a donare all’ospedale Sacco macchinari indispensabili per la ventilazione. Da quell’esperienza collettiva e drammatica le venne l’idea di commissionare e donare un’opera d’arte che ricordasse quella tragedia e le vittime del Covid. Una istallazione di Giuseppe Penone, altro nome importante dell’Arte povera. Sorride con un filo d’amarezza, “sembra incredibile ma a Milano non si trovò una piazza o un giardino a cui poterla donare”. A volte è così difficile, a volte anche Milano sembra piccina. Così il 18 marzo 2022, Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia da Coronavirus, l’installazione Indistinti confini ha trovato casa a Bergamo, nel Parco della Trucca, grazie alla Fondazione. E forse è il luogo più giusto, riflette lei. L’importante è che questa collaborazione tra le istituzioni pubbliche, i privati e la collettività lasci segni visibili, possa tracciare una strada. Perché il vero mecenatismo è cosa diversa da un investimento, dalla ricerca di un ritorno d’immagine. E infatti in questa idea contemporanea di mecenatismo non c’è solo l’arte. Ma anche la filantropa. Fin dal 1984 Giovanna Sacchetti collabora con l’Istituto Mario Negri di Silvio Garattini (le anime belle sono destinate a incontrarsi), così come la fondazione sostiene a Roma il Bambino Gesù ed è impegnata in altre attività che riguardano la ricerca e la salute. “L’importante è amare le cose che si fanno e in cui si crede e in cui abbiamo sempre creduto”, dice Giovanna Sacchetti come se abbracciasse in uno sguardo un’intera visione della vita.
Senza mai stancarsi. Così per celebrare i dieci anni della Fondazione Giulio e Giovanna Sacchetti è partita una delle iniziative più importanti: una donazione di due milioni di euro per finanziare, assieme a Venetian Heritage, il restauro e il riallestimento della Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro a Venezia, museo d’importanza nazionale di proprietà del ministero della Cultura, necessari per un nuovo progetto espositivo in grado di valorizzare l’intero museo. Una donazione notevole, inconsueta da parte di una fondazione privata, che ha meritato – ed è la prima volta – una lettera di ringraziamento del ministro Sangiuliano. Giovanna Sacchetti ne è contenta, ma sorride: non dovrebbe essere normale, questo rapporto di collaborazione e fiducia? E’ il mecenatismo contemporaneo, qualcosa di più di un semplice mettere risorse qui o là: è la ricerca di una grande bellezza.
Universalismo individualistico