Letture

Quando la realtà fa il suo mestiere e l'uomo scopre di essere quasi nulla

Marco Archetti

"La meteorologa" di Tamar Weiss Gabbay (Giuntina, 95 pp., 14 euro). Un successo editoriale senza traboccante ecoansia o rorida green emotionality, che ci ricorda una fatto: la natura è in realtà matrigna

Ma la natura non era matrigna? “La meteorologa” di Tamar Weiss Gabbay (Giuntina, 95 pp., 14 euro) è in libreria (anche) per ricordarcelo. E siccome si tratta di un romanzo e non di uno straziante istant book traboccante ecoansia o rorida green emotionality, lo fa attraverso tre capitoli – che potrebbero benissimo essere tre racconti autosufficienti, ma non lo sono – che raccontano tre storie ambigue e attigue: quella di una meteorologa la cui stazione copre per la prima volta una zona a cui nessun sistema di previsioni del tempo si era mai interessato; quella di un professore che deve portare i suoi studenti in gita in un canyon; quella di una ragazza amante della corsa, “volto da uccellino”, nipote della meteorologa. Appartengono tutti e tre alla stessa famiglia.
 

Nel canyon in cui questa storia è ambientata prospera una zoologia simbolica (forse troppo?) e ci sono aquile, gazzelle, pesci veri o immaginari o letterari – la ragazza ascolta l’audiolibro de “Il vecchio e il mare” di Hemingway, il professore del secondo racconto si trasformerà, in un certo senso, proprio in un pesce. E ci sono sogni e aspettative, soprattutto quelle con cui noi graviamo su noi stessi, mai disposti ad accettare la fallibilità, la finitezza, la morte, nemmeno la natura, ma sempre portati a pensare, semmai, che la razionalità tutto possa esaurire e raccontare, che tutto possa comprendere e prevedere. Poi, inevitabilmente, c’è la realtà, che fa il suo mestiere, non certo quello di compiacerci – natura compresa, che resiste perfino alla nostra voglia di salvarla.
 

Tre capitoli, si diceva. Ma mentre il primo e l’ultimo sono piacevoli e poco più, ecco che il secondo è davvero vertiginoso e audace. La storia, in breve: c’è un uomo, un professore, che va a trovare la madre anziana e in pieno degrado cognitivo, per passare una serata con lei. Cena e congedo a mezzanotte, quando torna la badante. Il giorno dopo l’uomo è atteso da una sveglia all’alba e da una gita con gli studenti fino al canyon che si trova vicino alla cittadina. La donna è anziana, non ricorda due figli su tre e mette in tavola quello che chiama “il pane nuovo” che mangia in realtà da due anni – declino inesorabile e sempre più evidente. Il professore se ne rende conto quella sera, perché un conto è sapere una cosa, un conto è averla davvero capita. “I suoi occhi si stringevano verso un futuro lontano, verso ciò che sua madre sarebbe stata di lì a sei mesi, di lì a un anno. Un cetriolo di mare. Senza cervello, solo bocca e apparato digerente, null’altro”. Ecco: l’ha capita. Immagina come farà a parlare ai fratelli, a convincerli della necessità di non consegnare la madre a una condizione avvilente e dolorosa, anzi, di risparmiarle ciò che la aspetta. Si sente spietato, ma “avrebbe parlato loro di misericordia, domandandosi che senso avesse allungarle inutilmente la vita”. Alle loro obiezioni avrebbe risposto con fermezza – dei tre, è sempre stato il fratello che decide, che risolve.
 

Lo distoglie da questi pensieri proprio la donna, che gli chiede di andare di sotto, “nella buca”, a prendere qualcosa da mangiare a cena. Lui ci va. La buca è una specie di cantina – ringhiera di metallo, a chiocciola, che si avvita in giù, nell’oscurità. E mentre il professore sceglie tra vasetti di sardine, salse d’agrumi e rafano, ecco che la luce si spegne e lui resta là sotto. La ventola si accende – c’è sempre stata molta umidità, il giro d’aria è per asciugarla – e l’atroce verità prende forma: la madre l’ha chiuso là sotto. Un guaio. La buca diventa una prigione. La buca che da bambino era ammantata, ai suoi occhi, di un fascino sinistro e invincibile, diventa un abisso. La paura, il disagio, la claustrofobia. L’uomo urla e chiama la madre, ma niente. Il passato, il presente, la forma della mente e delle cose. E una domanda terrificante: “Quanto tempo dovrò stare quaggiù?”. Un uomo che chiede aiuto diventa un uomo che chiama la mamma, poi un uomo che non è più un uomo ma una forma di vita, una forma elementare. Un viaggio a ritroso. E un mistero: quello di una fine che – forse – sarà come un inizio.

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