Facce dispari
Nicoletta Manni, étoile alla Scala di Milano: “La danza è una scoperta di ogni giorno”
"La vita di una ballerina è precoce: cominciamo da professioniste a diciotto anni e a quarantasette andiamo in pensione. Cliché da smontare? Quello di portare i bambini a scuola calcio e le femminucce a danza. Il numero dei maschi che s’avvicinano al balletto aumenta". Intervista
“How can we know the dancer from the dance?” domanda W. B. Yeats nel verso finale della poesia ‘Fra le bambine d’una scuola’, scritta quando ormai anziano aveva maturato la certezza che l’anima può prendere davvero forma nel “pensiero” del corpo. Fra le bambine d’una scuola di danza, quella di sua mamma a Galatina in provincia di Lecce, Nicoletta Manni sgambettava poco
dopo avere appreso a camminare. Oggi ci torna appena può da Milano, dove a novembre scorso, a trentadue anni, l’hanno onorata del titolo di Étoile del Teatro La Scala.
Nella danza tutto avviene più presto, sicché per Nicoletta sono anche maturati i tempi per il libro autobiografico ‘La gioia di danzare’,
uscito per Garzanti, che conferma le suggestioni del vecchio mago Yeats, il quale l’avrebbe vista volentieri sabato 24 febbraio ballare a Danzainfiera a Firenze.
Perché ha voluto raccontarsi già adesso?
Per parlare di danza. Non è una narrazione cronologica, ma un viaggio attraverso gli occhi delle protagoniste dei miei balletti. Cosa ho provato nei loro panni, cosa ho dovuto ricercare per vestirli.
C’è un personaggio in cui s’è più identificata?
Ciascuno rappresenta una fase della vita. Sono cambiata con loro. Oggi direi Tatiana dell’Onegin, domani chissà. Per il repertorio classico mi manca Raymonda, che non ho avuto l’opportunità di interpretare. Accadrà.
Ha sempre pensato che sarebbe diventata ballerina?
Cominciai seguendo mamma al lavoro, dando fastidio durante le lezioni. Stare in sala da ballo rappresentava un gioco, non ci fu un momento preciso in cui pensai: questo farò da grande. Almeno fino a dodici anni, quando mi proposi per l’audizione alla Scuola di ballo della Scala. A Milano abitavo in un convitto di suore e non fu facile conciliare gli studi con la danza. È dura e in tanti mollano.
Consigli per farcela?
Innamorarsi di quest’arte. Oltre al lavoro sul fisico, c’è una scoperta di se stessi che bisogna condurre ogni giorno con l’umiltà di rimettersi alla prova. Ma questo è anche il bello.
Quanto somiglia all’impegno di un atleta?
La disciplina è la stessa, ma il nostro fine è raccontare una storia sul palcoscenico suscitando emozioni nel pubblico. La tecnica è indispensabile ma è solo il tramite per esprimersi in un personaggio. Al pubblico deve essere invisibile.
Su cosa si lavora quando la tecnica è acquisita?
Su quelli che sembrano dettagli e non lo sono. Non abbiamo una preparazione attoriale, ma parliamo attraverso il corpo con un gesto, uno sguardo, un movimento del piede.
Conta più il talento o l’impegno?
Procedono di pari passo. Il talento ci deve essere, ma senza carattere non basta ed è difficile capirlo subito: si comincia da bambine, poi il corpo si sviluppa e non si può sapere come.
Cosa vuol dire essere Étoile?
È un insieme di cose difficile da definire, composto di talento, artisticità e del percorso compiuto, però una étoile deve dimostrare di esserlo ogni giorno. La vita di una ballerina è precoce: cominciamo da professioniste a diciotto anni e a quarantasette andiamo in pensione.
Al di fuori della danza, avrà amiche coetanee che magari hanno appena intrapreso una carriera stabile. Come v’intendete?
Sono orgogliose di me e comprendono i sacrifici. Se dico di no all’invito di una sera capiscono. La vita di una ballerina si svolge in maniera diversa e forse ce la godremo di più un po’ più in là.
L’estate scorsa ha sposato, dopo dieci anni di fidanzamento, il collega Timofej Andrijashenko, primo ballerino della Scala. È un cliché dire che si sta meglio con chi fa lo stesso lavoro?
Sposare un collega è un vantaggio perché si condividono più cose, ma nel mondo della danza ci sono coppie che funzionano anche se l’altro o l’altra fa una diversa attività.
Qualche altro cliché da smontare?
Quello di portare i bambini a scuola calcio e le femminucce a danza. Il numero dei maschi che s’avvicinano al balletto aumenta. Un altro cliché riguarda la dieta: i ballerini amano la tavola, anche perché hanno bisogno di mangiare bene.
Quanto serve studiare danza classica da piccole se non si proseguirà?
È una formazione estetica che resterà preziosa comunque, ma in Italia sbocciano tanti ballerini bravissimi. Purtroppo le compagnie sono poche ed è triste che i talenti debbano emigrare. Il settore meriterebbe più sostegno.
Le due persone cui è più grata?
Oltre ai miei genitori, ho avuto l’opportunità di lavorare con Carla Fracci nell’ultimo scorcio di vita sul ruolo di Giselle, il suo par excellence. Mi ha insegnato come essere veri in scena anche muovendo un dito. Poi Roberto Bolle, che appena fui promossa prima ballerina nel 2014 mi diede fiducia e mi portò nei suoi spettacoli. È un’amicizia che dura da allora.
Quale pubblico l’ha emozionata di più?
È stato un privilegio esibirsi al Bolshoi. Il pubblico russo conta grandi intenditori e se applaudono vuol dire tanto. Purtroppo la pandemia e la guerra hanno reso difficili i rapporti ed è un peccato per la mia generazione. Sono anni importanti persi.
La prossima tournée?
A marzo con la Scala in Cina per la prima volta dopo la pandemia. Lì siamo sempre stati accolti con calore, come negli Stati Uniti. Sono platee molto estroverse. Nei teatri italiani il pubblico è più disciplinato.
Cosa vorrebbe scoprire prima dei fatidici quarantasette anni?
Qualunque cosa anche tra le opere contemporanee, perché è bello lavorare con coreografi viventi. Mi piace scoprire anche ciò che non mi piacerà, ma finora non è mai successo.
Francesco Palmieri