William Holman Hunt - The Scapegoat (Wikimedia) 

L'età della luce

Così il Rinascimento italiano ha influenzato la sensualità morbosa dei preraffaelliti

Fabiana Giacomotti

In mostra a Forlì i capolavori di Millais e Rossetti. Un'esposizione potente per lo spirito di ricerca sfacciatamente puntiglioso con cui mette a confronto opere dei maestri del Quattrocento e del Cinquecento in Italia

"Preraffaelliti. Rinascimento moderno” è il titolo della grande mostra che ha aperto sabato 24 febbraio ai Musei di san Domenico di Forlì – la si potrà vedere fino a fine giugno – e sarebbe stato difficile sceglierne uno più adatto, visto che sia la corrente artistica formata da Dante Gabriel Rossetti, John Everett Millais, William Hunt, Edward Burne-Jones e accoliti versati a vario titolo nella scrittura e nella critica, sia la stessa definizione di Rinascimento, sono infatti opera ottocentesca, e nemmeno italiana.

Se fu Giorgio Vasari nelle sue “Vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani” a coniare nel 1550 il termine di “rinascita” per indicare un ciclo artistico che tornava alle forme romano-latine liberandosi da quelle greco-bizantine, peraltro in un contesto storiografico coevo con l’epoca che lo produceva e che nella storia si è dato solo successivamente, per esempio per l’Illuminismo, fu lo storico Jules Michelet nel 1855 e quindi lo studioso svizzero Jacob Burckhardt nel 1860 ad approfondire e connotare il termine, opponendolo all’“oscura decadenza” precedente. Che sono, entrambi, concetti ancora ben radicati nell’immaginario degli italiani: il Medioevo che già l’umanista Flavio Biondo aveva definito come espressione di cupezza artistica e intellettuale, opposto al Rinascimento simbolo di luce e di centralità dell’umana meraviglia, sono concetti un po’ grossolani, luoghi comuni sconfessati dagli studi più recenti, eppure così perfetti per una certa narrativa politica da essere diventati, oggi, bandiera e segno del governo Meloni. Da più di un anno sentiamo parlare di “nuovo Rinascimento italiano”, e dunque mai mostra poteva essere più intimamente, sottilmente sovversiva di questa, che rende esplicito in modo spettacolare quanto e come l’universo semantico, iconografico, la ricerca storiografica e artistica, pur non sempre precisa e successivamente corretta nei decenni, e la simbologia stessa del Rinascimento italiano con il suo mito debbano non solo e nemmeno tanto agli italiani, quanto agli stranieri innamorati dell’Italia, quasi sempre residenti in quello che ormai conosciamo come il Chiantishire. Tutti, tenacemente, impegnati nella ricerca della bellezza all’ombra dei cipressi toscani e anche di quel minimo, o quel massimo, di violenza sensuale, che della purezza e dell’innocenza sono l’altra faccia. 

 

Lo spirito italiano, geniale e sanguigno, impulsivo e carnale, che i turisti ancora cercano nei loro tour quindici giorni tutto compreso, sebbene fosse già stato descritto da secoli, si codifica fra la metà e la fine dell’Ottocento, fra i testi di Walter Pater, i voucher della premiata agenzia di viaggi Thomas Cook e quella definizione di Giotto e Cimabue come dei “primitivi italiani” che noi non usiamo mai e gli storici dell’arte anglosassoni, cresciuti a quella scuola, sempre. “Camera con vista” di Edward Forster, avete presente: il sole violento che eccita i sensi, il languore dell’abbandono alle forze naturali e naturalmente opposte alla rigida morale vittoriana e al degrado dei conglomerati industriali di Londra, Manchester, Leeds. E ovunque, sottotraccia, quella morbosità, il “morbid” inglese, che nulla spartisce con l’italianità e che eppure si estenua nelle espressioni delle muse preraffaellite e nell’invenzione di un universo storico parallelo, fantastico, che colpisce l’immaginario dei contemporanei influenzando via via i movimenti artistici successivi, dal Simbolismo al Decadentismo fino al gusto decorativo neo-rinascimentale del Primo Novecento di cui sono ancora ricchissime le città europee e la stessa Milano che proprio a cavallo fra l’Otto e il Novecento salva dalla distruzione e quasi ricostruisce, per opera di Luca Beltrami, uno dei monumenti simbolici del Rinascimento, il Castello sforzesco. Dal Filarete alle fiabe illustrate di Arthur Rackham, in un soffio. “Per le strade di Milano si moveva un popolo altrettanto fantastico, cangevole, e come di sogno. Per Leonardo, meno che per ogni altro, poteva esservi alcunché di velenoso negli esotici fiori di sentimento che sbocciavan colà”, scrive Pater nel 1869 nella sua biografia fantastica del genio della “rinascenza”, come è ancora chiamata. 

La mostra di Forlì è potente proprio per lo spirito di ricerca sfacciatamente puntiglioso con cui mette a confronto opere dei maestri del Quattrocento e del Cinquecento italiano, da Beato Angelico a Filippo Lippi, con “quegli innovatori, in buona parte inglesi, che ardirono di cambiare il corso dell’arte”, come dice il vicepresidente della Fondazione Cariforlì Gianfranco Brunelli, direttore di tutte le grandi mostre dell’istituzione, affiancato per questa esposizione da un gruppo di curatori che comprende Elizabeth Prettejohn, massima esperta di Rossetti. Come si sa, o forse non abbastanza, la spinta programmatica del preraffaellismo fu breve: dal 1848, mentre a Milano infuriavano i moti, al 1953, quando la confraternita si sciolse: eppure, come scrivono i curatori, “lo sviluppo dei modelli del preraffaellismo fu pervasivo e il successo duraturo”. Lo fu perfino nella moda, e basta assistere alle sfilate inverno 2024 in corso a Milano in questi giorni per rendersene conto: si trovano tracce delle silhouette dei ritratti della poetessa Elizabeth Siddal, l’Ofelia vestita di pizzo e coperta di fiori di Millais che per quella lunga permanenza in una vasca non riscaldata buscò una bronchite esiziale (il padre bottegaio cercò di ricavarne qualche denaro con apposita denuncia), nelle collezioni di Etro e di Loewe, e per lungo tempo se ne sono trovate in quelle di Valentino. Era, d’altronde, inevitabile. I preraffaelliti furono i primi artisti a magnificare la bellezza del corpo femminile senza artifici, senza costrizioni, a perseguirne la rappresentazione attraverso l’uso di colori brillanti, dichiaratamente “vividi e schietti”, usati in ovvia contrapposizione ai grigi fuligginosi delle città industriali. Che poi il risultato della loro pittura fosse l’esatto opposto, cioè un totale artificio e, appunto, quella sensuale morbosità di fondo, appare ancora più pregevole agli occhi della moda, massima espressione della naturalezza ottenuta attraverso l’uso della costruzione e, non di rado, della costrizione. Scorrendo le opere in mostra nel bel catalogo, nulla appare dunque più coreografato del convito di Millais nella sua “Isabella”, col cavaliere in calzamaglia che allunga la gamba tornita come un maestro di danza e che no, nulla spartisce con la lezione di Luca Signorelli a cui pure guarda, ed è difficile reprimere un sorriso di fronte alla “Vanity” di Frank Cadogan Cowper, curata con la mano di uno stylist moderno e non troppo esperto: nulla manca della panoplia modaiola cinquecentesca a questa epigone delle due influencer globali del Rinascimento, Isabella e Beatrice d’Este: la capigliara inventata della prima e la ferronière prediletta della seconda, combinate come nessuna delle due avrebbe fatto mai, e ancora le perle nelle mani, tiracche intrecciate in nero profilato oro che già guardano al Liberty, però montate su camicie giorgionesche. Puro teatro, insomma, costruito per “donne dalla sensualità enigmatica, dalle passioni tristi, dalla bellezza sfuggente abitano il pensiero visivo e ossessivo di Rossetti”, scrive Brunelli, intendendo con questo donne dalla sessualità smaccatamente fluida e per la prima volta resa evidente dal tratto pittorico, così come fluidi appaiono oggi, a una attenta lettura che sia Pater sia successivamente Bernard Berenson intuirono ma che si guardarono bene dal mettere per iscritto, i volti leonardeschi, gli angeli botticelliani. 

 

Botticelli soprattutto, rivelato nuovamente agli occhi dell’Europa, che torna ad attraversare luminoso, nell’ultimo quarto dell’Ottocento approdando al Novecento in una moda imitativa che si ritrova, appunto, nei palazzi dei collezionisti amateur: i fratelli Bagatti Valsecchi, Frederick Stibbert amante dei cimieri, perfino negli androni dei palazzi milanesi. In Botticelli, dirà ancora nel 1921 Adolfo Venturi, si scorge “una febbre di godimento e di vita che cela un pensiero amaro e si riflette nelle forme agili, nervose, nei subiti languori”, definendolo come “il più sottile creatore d’immagini che la pittura fiorentina e italiana abbia avuto, del più raffinato poeta del Quattrocento toscano. Il mondo incantato dell’arte di Sandro, con lo splendore dei suoi apparati di velluto, d’oro e di fiori, col singolare nostalgico fascino dei suoi tipi umani e dei suoi ritmi di linee, chiude in sé i sogni di Firenze sul tramonto del Quattrocento, nella vigilia splendida di giorni di passione, del secolo di Michelangelo”. 

 

In quel linguaggio si erano riconosciuti tutti, soprattutto perché volevano farlo: il mito italiano e il primato di Firenze, dopotutto, sopravvivono ancora oggi che non solo la prima e la seconda, ma anche la terza generazione dei preraffaelliti è esaurita da oltre un secolo, insieme con i circoli fiorentini e quella fervida attività culturale e mondana di cui si trova traccia tanto nei romanzi di Henry James quanto nei film di Franco Zeffirelli e nell’infinita schiera di ragazze inglesi che, agguantato il bachelor degree in “history of art” su “maichelangelo and lionardo” in qualche oscura università americana, scelgono uno dei corsi delle loro succursali romane o fiorentine, magnificate e vendute come le vacanze che peraltro sono, beatamente ignare dei modelli letterari a cui preraffaelliti e critici si rifecero, da Alfred Tennyson a Boccaccio, ma vagheggianti di avventure, di “amori fra le rovine”, “so romantic”, di rose posticce e vento nei capelli, meglio se provato in una “ride in Vespa”. Quel che Henry James ha detto di Burne-Jones, in fondo si può dire per tutti: la loro fu “un’arte della cultura, del piacere intellettuale, della raffinatezza estetica, tipica di chi guarda al mondo e alla vita non direttamente, ma nel riflesso o nel ritratto adorno che nasce da letteratura, poesia, storia, erudizione”.

 

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