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L'appendice dal titolo ermetico che ci ha consegnato un grande Gogol'
Serena Vitale cura la nuova edizione delle "Memorie di un pazzo" e ci rivela che questo racconto non esisterebbe senza i frammenti di una commedia che non è mai stata scritta integralmente e mai messa in scena
Cominciamo dalla fine – anche se voi dovreste cominciare dall’inizio, cioè dall’introduzione di Serena Vitale, che come sempre non ha rivali (lei, e tutte le cose che scrive).
Ma cominciamo dalla fine. E precisamente da “Il Vladimir di terzo grado”, succulenta appendice di una manciata di pagine a questa nuova e croccante edizione de Le memorie di un pazzo di Nikolaj Vasilievic Gogol’ (Adelphi, 104 pp., 10 euro). Appendice da cui apprendiamo che questo racconto non esisterebbe senza il testo, o meglio, senza i testi che trovate a partire da pagina 72, e che sono i preziosi frammenti di una commedia che non è mai stata scritta integralmente e mai messa in scena. E che ha un titolo ermetico solo in apparenza: il Vladimir di Terzo grado era un’altisonante onorificenza che conferiva grandi privilegi e un solidissimo credito sociale. Dunque ambitissima. E’ grazie all’attore Michail Šcepkin che oggi ne conosciamo la trama.
Gogol’ si gettò col consueto vigore nella scrittura della pièce, iniettandole tutto il suo sarcasmo, salvo poi fermarsi rendendosi conto che la censura non l’avrebbe mai fatta passare; del resto già “L’ispettore generale” – commedia “suggerita” da un aneddoto raccontato da Puškin – non aveva avuto vita facile, e solo il grande successo, insieme all’intervento di Nicola I, la misero al riparo da tagli e censure. Ci restano, dunque, questi frammenti. Così, nelle parole di quello che era allora il più rappresentativo attore del teatro Malyj di Mosca – recitò il ruolo del sindaco nell’Ispettore generale – scopriamo numerosi elementi che accomunano questa commedia alle Memorie di un pazzo, tanto da sentirci autorizzati a leggere le due opere in continuità: il delirio, il suo costrutto, la sua traiettoria.
La storia della commedia-fantasma era quella di un travet ossessionato dall’idea di ricevere la Croce di San Vladimir di Terzo grado al punto da diventare pazzo. Memorabile – riferisce Šcepkin per lettera allo scrittore V. Ridslavskij e Serena Vitale in postfazione a noi lettori, entrambi senza alcun rispetto per le nostre ghiandole salivari, che a questo punto produrranno acquolina invano – la scena in cui il funzionario, seduto davanti allo specchio, immaginava il Vladimir appuntato sul proprio petto e infine, a braccia distese, si figurava di essere l’onorificenza stessa.
Anche il consigliere titolare Aksentij Ivanovicč Poprišcin delle Memorie di un pazzo non scherza: funzionario pubblico come se ne trovano nei romanzi russi – quanto ci hanno affascinato queste deliranti, invidiose, neghittose vittime del destino che penzolano fra tragico e comico? – confonderà sé stesso con l’impiegato modello meritevole di avanzamento che non sarà mai, i cani per creature hoffmannianamente chiacchieranti e scriventi, e una donna per un suo diritto. In realtà non gli accadrà nulla di ciò in nome di cui, tra l’altro, non è che si spacchi granché la schiena: poco lavoro e molta chiacchiera, affila con dovizia le penne d’oca al Direttore del dipartimento Sua Eccellenza e per il resto si trascina querulo, inconcludente e innamorato di Sophie, la figlia di Sua Eccellenza detta Sua Eccellenzina, che vede mezza volta ma donchisciottescamente questo gli basta per intestarle il suo cuore, dato che altro non c’è – trenta rubli al mese, una domestica, qualche sera a teatro a vedere stupidaggini. Ma quando, in una lettera scritta dalla cagnetta Maggie, leggerà che Sua Eccellenzina sposerà un kamer-junker, la sua psiche esploderà.
E il finale lo vedrà, in un senso tutto gogoliano, triumphans, cioè fallito, sfinito, strapazzato e infelice, immerso fino alla gola nella propria follia, nel gorgo dell’allucinazione. Mentre affonda, grida e chiede aiuto, non riesce a uscire da sé stesso: entrerà nel reparto per malati mentali della clinica Obuchovskaja. Le sue ultime parole riferiranno di un bitorzolo sotto il naso del Dey di Algeri, ma nella versione originale era il re di Francia, ci informa Serena Vitale – il bitorzolo lo traslocò la censura.