il foglio del weekend
Lacrime di pietra nella danza di Rodin
Così la tradizione del Balletto reale cambogiano, poi stroncata dai Khmer rossi, ispirò i capolavori dell'artista francese. In mostra a Milano
La sobrietà di un titolo freddo come Rodin e la danza parrebbe soprattutto esaltare la ben nota prestanza e veemenza fisica del “Michelangelo francese” (Parigi 1840-1917), quasi fosse un assiduo ballerino di danze popolari come la bourrée o di girotondi assai frequenti per le strade della Ville Lumière. E’ vero, sin dall’inizio della sua carriera, François-Auguste-René, il grande modernista, amò il movimento del corpo, ma scolpito o disegnato in tutte le sue forme: dalla febbricitante immobilità – stare fermi e vibrare è visibile tensione o tormento interiore (l’ha ben mostrato il nostro Giacometti) – alla più spericolata acrobazia, sino alle contorsioni sensuali ed erotiche. Tuttavia nell’eponima mostra in corso al Mudec di Milano, nata in connubio con il Musée Rodin di Parigi e curata da Aude Chevalier, Cristiana Natali ed Elena Cervellati, c’è molto di più di generiche asserzioni.
Passeggiando per le sue sale si respira a sorpresa un elegante quanto macerato profumo primitivo ed esotico. Lo spruzzo aromatico coglie subito tredici statuette in terracotta di piccole dimensioni e stupendamente grezze al punto che pare che le dita dello scultore siano ancora lì su quella “carne” brunita, da modellare. Eppure si muovono con leggiadria in spaccate, sforbiciate, braccia alzate congiunte ai piedi, strani aplomb e non meno originali arabesque o grand jeté, cioè in posizioni di danza accademica trasfigurate come i vol aérien, i salti con una gamba tesa e una in retiré.
Dove vanno quelle piccoline senza un viso o con un’unica testa, chiamata “slava” – come volle l’artista per cancellare le identità e concentrare l’attenzione dell’osservatore su anonimi corpi e altrettanto sconosciute membra? A terra, nelle teche, fanno lo stretching ormai caro pure alle nonne senza rughe poiché promette cosce allungate e non più flosce. Poi, idealmente, salgono su di un grande pannello digitale e tutte o quasi sviluppano il loro movimento, a suon di musica, come se fosse una danza compiuta: incantevole effetto. Nella realtà, le piccole terracotte non si mossero mai dall’atelier di Auguste sino a che l’artista fu in vita e nessuno, pare, le abbia viste salvo il conte Harry Kessler, critico, collezionista, amico, e forse Alda Moreno, l’acrobata-ballerina, nota nei cabaret di Montmartre per la sua imbattibile flessuosità, che di quegli studi coreutici fu l’unica ispiratrice.
Auguste la incontrò nel 1903: era la compagna di un altro scultore, ma come tante colleghe danzatrici-modelle, e spesso amanti a rotazione, aveva forse fatto la fila per divenire calco a pagamento su cui si imprimevano le passioni dell’ormai notissimo Rodin. Infatti, le sedute con Alda non iniziarono prima del 1910, e durarono tre anni in una relazione dai contorni ambigui, ma di certo dilatata dal continuo camminare delle modelle, Alda inclusa. Sebbene ormai prossimo alla fine, l’artista non metteva mai in posa nessuno. Più giovane aveva dichiarato: “Per esprimere il movimento in tutto il suo carattere di verità, è importante che questo sia insieme il risultato di movimenti consecutivi che hanno preceduto il momento sul quale ci si concentra”. Da vecchio, non si sarebbe tradito. Circa a metà del lungo periodo con Alda, il conte Kessler fece visita allo studio di Rodin e annotò la sua sorpresa: quei Movimenti di danza, così titolati a posteriori, gli parvero “più vicini ai suoi disegni che non alle sculture realizzate prima”.
Il critico si riferiva alle grandi statue dall’ondulato dinamismo o dalla semplice gestualità impressa nel bronzo o nel marmo: al Monumento a Balzac, all’Uomo che cammina con un’inquieta spinta in avanti, all’Età del Bronzo oppure al Pensatore (entrambe in mostra al Mudec in dimensioni medio piccole): quest’ultimo nudo e piegato in due con una mano al mento, un moderno Dante Alighieri in preda a rovelli meditativi. Tutte creazioni di successo, frutto però di lunga attesa: Rodin divenne Rodin non prima dei quarant’anni e non solo per le modeste origini, in parte ostative al suo ingresso all’École des Beaux-Arts, la scuola d’eccellenza per future celebrità artistiche dalla quale fu respinto per ben tre volte. C’era qualcosa di scandaloso, di antiaccademico e radicale nel suo modo di lavorare, nel suo essere anche disegnatore – e che disegnatore! – capace con pochi tratti di penna su di una carta qualunque (inconcepibile, per i tradizionalisti, il segno ma anche il materiale usato) di fissare le linee di una figura. Infine – e passi per il “non finito”, già sperimentato dal divino Michelangelo – cos’era mai quell’incomprensibile ossessione per la danza e per tutti gli artisti dell’epoca in letterale ebollizione rivoluzionaria? Rodin li amava, li seguiva ovunque si esibissero, li comprendeva nello sforzo estremo, tanto simile al suo, di disarcionare tabù anacronistici.
Nel 1912, davanti a L’Après-midi d’un faune, coreografia di Vaslav Nijinskij e musica di Claude Debussy, non si scandalizzò per quel finale più che allusivo a un coito. In assenza della sua ninfa prediletta, il Fauno “penetrava” il velo da lei abbandonato gettando un liberatorio urlo muto. La breve pièce non creò solo scompiglio tra il pubblico e la critica “disgustata”, ma scatenò un vero e proprio caso diplomatico tra l’ambasciata francese e quella russa cui i Ballets Russes, la compagnia promotrice dello spettacolo al Théâtre du Châtelet, faceva riferimento. Rodin scrisse sul Matin a dispetto dei milleuno detrattori, un’accorata difesa, l’elogio di quella bellezza e “voluttà appassionata”, e finì nei guai pure lui. Il direttore del Figaro lo accusò di esporre disegni pornografici nell’antica cappella del Sacré-Coeur, di vivere in mezzo a una corte di donne del bel mondo in estasi davanti a lui… Soprattutto di abitare a spese dello stato nel disabitato o quasi Hôtel Biron. Una polemica infinita: mentre c’era chi proponeva che quell’albergo diventasse alla morte dello scultore il museo delle sue opere, Nijinskij su consiglio di Djagilev, l’impresario della compagnia, purgò un po’ il balletto (coito solo accennato) che da “impudico” divenne l’evento parigino da non mancare, una fonte di lauti guadagni. L’episodio è eloquente: Rodin non solo amava la danza ma afferrava al volo le intenzioni poetiche dei suoi animatori, forse perché il suo personale abbraccio a Tersicore era iniziato molto prima. Lo certifica un periodo, più che una data, tra il 1886 e il 1898, in cui incontrò a raffica le americane Loïe Fuller, Isadora Duncan, Ruth St. Denis maestra di Martha Graham, e tra le tante anche la giapponese Hanako. La prima fu pioniera nell’utilizzo della luce naturale e poi elettrica e in quanto tale esaltata da Stéphane Mallarmé: Rodin s’innamorò delle sue mani che s’incroceranno in un candido marmo del 1914. La seconda, all’epoca ancora una seducente jeune danseuse, divenne futura portavoce della danza libera: lo scultore la immortalò in un groviglio di linee ombrose a china e poi su carta in giallo, le braccia aperte, il volto rivolto all’indietro che scompariva, come sarà nascosto nel ritorto marmo bianco e legatissimo di Ève au rocher, una delizia, scolpita tra il 1905 e il 1906, alta poco meno di un metro, e nuda. La pioniera giapponese Hanako – due nudi a grafite su carta non vergata e due maschere di gesso fanno incetta di sguardi al Mudec, museo delle culture e incontri interetnici, dunque disseminato di strumenti e oggetti esotici; Hanako, con le sue movenze increspate, spalancò allo scultore le porte del vero oriente.
Nel 1889 all’Esposizione coloniale parigina, Auguste restò folgorato da un gruppo di giovani danzatrici giavanesi. Le seguì in un loro successivo spettacolo e da quel momento in poi quasi tutti i suoi calchi e disegni offriranno corpi femminili dalle ginocchia leggermente flesse se non proprio piegate, braccia alate, mani volanti ma tese dalle dita quasi ritorte. Come nei successivi Movimenti di danza, lo scultore si rivelò indifferente alla coreografia: gli interessava la dinamica di un corpo solo e lo schizzava con istinto rapido, quasi sovrappensiero. Curiosamente non faceva caso agli importanti e colorati costumi; sembrava leggere il corpo che li vestiva con occhi dai raggi infrarossi. Novello Antonin Artaud, il regista e teorico francese di un teatro nuovo per il pubblico del XX secolo che una volta giunto a Bali decretò la superiorità delle scene asiatiche e dei suoi drammi non rappresentativi o didascalici sul nostro teatro borghese e tradizionale, Rodin raddoppiò la convinzione che gli occidentali fossero “barbari” – così scrive – in confronto agli orientali. E non gli bastarono le danzatrici giavanesi per convincersi di questo primato.
Nel 1906 presenziò a uno spettacolo del Balletto reale della Cambogia pure inserito in un’ennesima Esposizione coloniale e cadde addirittura in estasi. Si rappresentavano frammenti del Reamker, la versione Khmer del poema epico indiano Ramayana, con Danza dei ventagli e Danza delle farfalle. Al seguito del re Sisowath e della principessa, che del Balletto si occupava, tenendo a bada le sue giovanissime interpreti, il maestro assistette a movimenti inediti e ricercati. L’energia passava dall’ondulazione di un braccio, scavallando il collo e le scapole e sempre oscillando giungeva all’altro braccio. Le danzatrici dalle ginocchia notevolmente piegate e per lo più sur place mostravano anche nel roteare degli occhi i mutamenti dei drammi loro assegnati. Sapevano districarsi nel continuo flusso delle mani che quasi toccavano i polsi per aver subito, in questo esercizio di dolorosa bravura, una rigida formazione sin da bambine. Ancora una volta, come di fronte alle ballerine giavanesi, Rodin non prestò attenzione alle loro vesti eleganti, agli alti copricapo variopinti e preziosi, ai gioielli ai polsi, alle braccia e caviglie. “Li concepisce”, spiega nel ricco catalogo della mostra l’esperto Vito De Bernardi a proposito dei costumi, “come una materia sottilmente vivente che più che coprire svela la linea del corpo che si muove nello spazio”. Importante anche la musica: la fidula cambogiana a due corde – una sorta di guscio di noce in mogano aizzò le sue orecchie e quelle di vari compositori; da quello strano strumento saranno influenzate.
In preda a un vero coup de foudre, e non pago della visione parigina, dove gli toccò schizzare su carta da pacchi imprestatagli da un tabaccaio, Rodin seguì il Balletto reale cambogiano anche a Marsiglia, qualche giorno dopo. Lì, ripiombò in una sperimentazione creativa senza posa. In pochi giorni eseguì più di centocinquanta disegni a tratto che insieme alle sculture divennero tra le sue opere più note. Al Mudec, una manciata di queste immagini espressive, vive, ancora una volta grezze e attualissime con quelle macchie di colore grigie, verdi, azzurre, marroni gettate dentro e fuori i contorni di corpi nella loro semplicità davvero “sacri”, sono il secondo spruzzo aromatico dell’esposizione. Non solo: come rileva nel catalogo Cristiana Natali, l’antropologa tra le curatrici della mostra, essi fungono anche da testimonianza gravida di orrori. Una volta tornate in patria, e diventate professioniste mature, le interpreti del Balletto reale cambogiano furono sgozzate, torturate, violentate, gettate in fosse comuni dai Khmer rossi in uno dei massacri – ma si può usare la parola genocidio o “autogenocidio” (i Khmer rossi erano cambogiani che uccisero altri cambogiani) – più atroci e dimenticati della storia. Dal 1975 al 1978 la furia di questi infatuati maoisti fece strage di milioni d’innocenti. Bastava appartenere a un ceto medio urbano, saper leggere, scrivere e magari danzare o recitare e la mannaia era pronta. Seguiamo la Natali quando scrive: “Pech Tum Kravel, all’epoca Direttore del Dipartimento di Danza dell’Università delle Belle Arti di Phnom Penh, stima che il 90 per cento degli insegnanti e danzatori, sia stato trucidato o sia morto di fame”. La fine della Kampuchea Democratica (sic!) sotto la dittatura di Pol Pot. contò da un milione e mezzo a tre milioni di morti. Per fortuna, già all’inizio degli anni Ottanta la Cambogia rialzò la testa, grazie ai vietnamiti, e tra stenti e assoluta povertà, risorse anche un malandato e ancora traballante Balletto Khmer delle origini con i pochissimi sopravvissuti o fuggiti rientrati in patria. Rodin non avrebbe riconosciuto nessuna delle sue meravigliose danzatrici tra le cenciose superstiti scheletriche che tuttavia poco alla volta riconquistarono grazia e splendore, oggi però soprattutto devolute ai turisti.
Nella sua vita privata anche Auguste, si passi il confronto paradossale, compì una sua strage non certo sanguinosa ma psicologica ai danni di Camille Claudel (Fère-en-Tardenois 1864 - Montfavet, 1943), forse la maggiore scultrice del suo tempo e non solo. Camille, dagli occhi trasparenti, bellissima e fragile per l’irrisolto rapporto con la madre, trovò nel grande maestro che a Parigi la volle come sua unica allieva un amante-padre di ventiquattro anni più vecchio. Lui sospendeva un legame con una giovane cucitrice, Rose Beuret, dalla quale aveva avuto un figlio, mentalmente disabile, che frequentò ben poco. Travolto dalla passione per Camille e da lei ispirato perché aveva estro e genio artistico e sapeva tagliare blocchi di marmo da sola, Auguste, inaspettatamente, la lasciò dall’oggi al domani. Troppo gelosa dei continui tradimenti con modelle e muse di passaggio, stanca delle vane promesse di matrimonio, Claudel era ormai isterica. Oppure secondo altri storici Rodin era troppo stressato dalla Beuret che comunque avrebbe sposato nel 1917 poco prima della morte di entrambi. Vittima sacrificale di un uomo che non conosceva fedeltà, ma fuochi di acceso ardore erotico, spesso spenti in fretta con l’estintore, Camille, abbandonata nel 1898, diede segni di squilibrio e nel 1913 fu internata a “l’asile d’aliénés”, ovvero il manicomio di Montdevergues. Passò gli ultimi trent’anni della sua vita in quel luogo lugubre e in uno stato di lucida disperazione e veglia febbricitante. Nessuno andò mai a trovarla: né il famoso fratello Paul, scrittore e diplomatico, tantomeno la madre o l’indegno Auguste che se la spassava con una duchessa americana, apripista del suo mercato oltreoceano. Claudel non era pazza, ma rabbiosa, anche perché il suo talento non fu mai riconosciuto. Era una donna e dipendeva da Rodin di cui per tutta la sua vita fu considerata l’epigone. Con tutte le sue pecche, il maestro fu l’unico a sapere quanto lei valesse. “Le ho mostrato l’oro, ma l’oro che trova è tutto suo”, scrisse.
Peccato che nella mostra del Mudec non vi sia alcuna statua di Camille, oggi finalmente riscoperta; l’avvincente Valzer, con il suo accenno a una spirale, è di certo una danza d’amore, forse un momento di vita e musicale probabilmente suggerito dall’amicizia con il compositore Claude Debussy che sarebbe potuta sfociare in una bella storia d’amore, se Auguste non l’avesse prepotentemente interrotta, reclamando a sé la sua pupilla. Così il museo milanese con la scoperta di giovani e meno giovani artisti contemporanei ispiratisi a Rodin ed elencanti dalla studiosa Elena Cervellati, conclude la visita con Donna accovacciata in gesso (modello piccolo) levigatissimo, una statua da urlo. Rodin ha quarant’anni e già pensa a nudi dalle gambe piegate e dal torso attorcigliato. Reiner Maria Rilke, l’amico poeta, annuncia al mondo: “Auguste ha la capacità di trasformare il transitorio in eterno”. Lo avevamo capito.