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L'amarissimo e amatissimo Maksim Gorki
Oltre l’etichetta del "realismo socialista", c’è un autore che racconta la durezza della vita e della società, senza ideologie. La sua opera, "L’albergo dei poveri", a teatro
Lev Tolstoj aveva stima dei ben più giovani Anton Cechov e Maksim Gorki. Gli piaceva che lo andassero a trovare nella sua grande tenuta di Jasnaja Poljana e sentirsene venerato. A venerarlo però era soprattutto Cechov, più giovane di trentadue anni, mentre Gorki che di anni ne aveva quaranta di meno, scrisse nel suo diario senza eccessiva simpatia: “A Jasnaja [Tolstoj] mi è sembrato un uomo che sa tutto e non vuole imparare più nulla, l’uomo dei problemi risolti”. A tutti e due il rispettato Maestro rimproverava il teatro. Amava i racconti di Cechov, amava i romanzi di Gorki, La madre soprattutto – scritto durante l’esilio italiano nel 1906 incoraggiato dall’amico Lenin – ma proprio non capiva perché quei due dovessero sporcarsi le mani col palcoscenico, e lo infastidiva che da lì venisse il loro successo. Per invidia, sostengono i maligni. Chissà. Certo è che un giorno, a Cechov che era andato a trovarlo durante una malattia, Lev al momento del commiato sussurrò all’orecchio insieme a un bacio: “Lascia perdere il teatro, non è cosa per te. Non lo sopporto il tuo teatro. Shakespeare scriveva porcherie, ma le tue commedie sono addirittura peggio”. Mentre a Gorki, osannato dai critici per la pièce I bassifondi del 1902, chiese con disprezzo: “Perché mai l’hai scritta?”.
Eppure Gorki con quel lavoro aveva esordito con grande risonanza a Mosca nel già mitico Teatro d’Arte di Stanislavskij, unico posto del resto che l’avesse accolto mentre i teatri imperiali lo boicottavano. Perché il socialmente impegnato Gorki era inviso allo zar Nicola II e quella commedia destinata a un futuro intramontabile parlava di emarginati, prostitute, ladri, vagabondi, operai in cerca di lavoro senza speranza di trovarlo, ubriaconi. Tutt’altro che un’esaltazione della miseria e un invito alla sovversione, semmai una riflessione sulla natura violenta degli esseri umani, maschi e femmine, sulla capacità di illudersi e sulla possibilità (remotissima) di un riscatto, sulla generale disperazione. Ma alla polizia zarista bastavano la biografia dell’autore e le sue frequentazioni coi rivoluzionari per averlo in sospetto, prima ancora dei suoi temi letterari che comunque non potevano dirsi “edificanti”.
Nella fase preparatoria Gorki aveva continuato a cambiare il titolo a quella commedia, Senza sole, Il dormitorio, Il fondo, Sul fondo della vita… mentre poi il suo destino sarebbe stato di imporsi – almeno da noi – come L’albergo dei poveri grazie a una celebre regia di Strehler, quella che inaugurò il Piccolo di Milano nel 1947. E se l’editore Clichy è tornato al titolo classico Bassifondi, quando ha riproposto il dramma in una nuova traduzione di Alice Farina nel non lontanissimo 2016, adesso Massimo Popolizio sta portando la commedia a nuovi trionfi ancora una volta come Albergo dei poveri, con una splendida messinscena e ottimi attori. Ha esordito all’Argentina di Roma replicando fino al 3 marzo e adesso è in scena al Piccolo fino al 28, e poi al Mercadante di Napoli dal 4 al 14 aprile e al Donizetti di Bergamo dal 17 al 23 dello stesso mese.
Ma non è questione di titoli, anche se quello pensato da Strehler rende forse meglio il contrasto ossimorico fra ricchezza e povertà, aspirazioni verso l’alto e cadute nel fango. È comunque un’opera molto potente, che parla della natura umana nello scenario estremo di miserabili spazi condivisi, dove la mancanza totale di maschere e buone maniere rende più urticante la meschinità come l’innocenza, la sopraffazione e l’umiltà, la vita e la morte. La riduzione del testo per questa nuova rappresentazione è firmata da Emanuele Trevi che ha lavorato in stretto contatto con il regista nel pieno rispetto dell’originale, ma riuscendo a svecchiarlo quel tanto necessario a renderlo contemporaneo senza forzate “modernizzazioni”. Nemmeno il personaggio detto Principe, tartaro inizialmente, africano qui, suona come una forzatura, perché incarna una presenza “diversa” com’era nelle intenzioni dell’autore. Si muovono in scena quindici prodigiosi attori, con lo stesso Popolizio nei panni di un pellegrino dall’anima buona, Luka, che cerca di portare conforto ai perduti personaggi che lo circondano. E le storie di uomini e donne dalle diverse personalità s’intrecciano in sintonia con movimenti scenici che compongono quasi una danza, sottolineati a tratti dall’irruzione di musiche e canzoni russe emozionanti.
Dei grandi russi Maksim Gorki è forse oggi il meno letto e amato, probabilmente come contraltare all’enorme popolarità che raggiunse in vita dall’Europa agli Stati Uniti in anni attratti dalle rivoluzioni e perché lo stemma “padre del realismo socialista”, che gli è stato affibbiato in letteratura, contribuisce a relegarlo in un gusto passato di moda. Ma le etichette fanno sempre male e non aderiscono mai integralmente. La personalità di Gorki è complessa, contraddittoria, come la sua biografia e quindi i suoi scritti, che non sono mai ideologici, ma hanno origine in esperienze molto dure vissute in prima persona. Che ispirarono fra l’altro il nome prescelto per sé come scrittore. Gor’kij infatti vuol dire “amaro”, pseudonimo di Aleksej Maksimovich Peskov, nato a Niznij Novgorod nel 1868 in una famiglia poverissima e rimasto orfano di padre a dieci anni.
Preferì il patronimico Maksim al nome di battesimo, tanto “Cos’è il nome? Non significa nulla”, dice un personaggio dei Barbari (dramma sull’arretratezza del mondo contadino). Volle dunque chiamarsi Massimo Amaro perché massimamente amare erano state la sua infanzia e la sua giovinezza e amarissime vedeva le sorti delle creature viventi, tutte, senza distinzioni. “Sulle mie misere spalle piomba una mazzata dopo l’altra”, si lamenta Ivan, ne Gli ultimi, dedicato al disfacimento della classe borghese, mentre Sofia si chiede ingenuamente: “La vita è così orribile… e al termine la morte… perché?”. Nemmeno il buon Luka dei Bassifondi, o Albergo dei poveri che dir si voglia, sa rispondere a questa domanda e pur essendo consapevole che “un paese dei giusti non c’è in nessun luogo” esorta i compagni a perseguire il Bene, perché “quando un uomo non fa del bene a un altro è come se gli facesse del male”.
La sua vita ha il sapore di una fiaba. Non era andato a scuola, ma era cresciuto con una nonna, grande narratrice orale, di quelle che, senza saper scrivere, sanno comunicare la forza di una storia con la voce, davanti al camino, e intanto cuciono o pelano patate. Si faceva consolare da lei, perché la madre non era mai stata tenera e oltretutto il patrigno che ebbe dopo la morte del padre lo picchiava duramente. Il libro di memorie Infanzia si apre su una scena disturbante: la madre che scarmigliata urla e piange intorno alla salma del marito e non getta nemmeno uno sguardo al figlioletto attonito, che la contempla immobile nella stessa stanza. Ha diciannove anni Aleksej quando muore l’amata nonna e per la disperazione tenta il suicidio. Sopravvive e scappa via dalla provincialissima Niznij Novgorod. Vuole vedere il mondo e per cinque anni lo attraversa a piedi o su mezzi di fortuna facendo i lavori più diversi, dal fornaio allo scaricatore di porto, dal guardiano notturno al mozzo. E mentre è su un battello lungo il Volga impara a scrivere, dal cuoco di bordo che ha preso a benvolere quello sguattero intelligente e analfabeta.
È a Tiflis, in Georgia, che finalmente fa della scrittura il suo mestiere. Comincia a collaborare con un giornale e assume il nome di Gorki perché è l’amara realtà che vuole illustrare, senza addolcimenti. Ma la sua natura di picaro ha il sopravvento. Torna nella città natale (che sarà un giorno ribattezzata col suo nome da Stalin), fa il segretario nello studio di un avvocato in modo da perfezionare la lingua scritta e compone una manciata di poesie, Il canto della vecchia quercia, senza nessun successo. Allora torna al vagabondaggio, vuole conoscere la realtà dei contadini e degli operai e li affianca nel lavoro. Scrive racconti a loro ispirati. E adesso è arrivato a Mosca, dove si avvicina agli intellettuali e ai rivoluzionari. Quando nel 1902 esordisce nel teatro di Stanislavskij la sua fama varca i confini. Viene riconosciuto, in Russia e fuori, come “il più grande scrittore proletario del mondo”. E questo certo non fa piacere allo zar, che lo fa espellere dall’Accademia russa delle Scienze. Cechov, che intanto è diventato suo amico, si dimette per solidarietà. È uno scandalo che accresce la fama di Gorki, ma anche le persecuzioni. Viene arrestato e confinato in Crimea. Liberato nel 1906 lascia la Russia e approda in Italia, a Capri, dove resta fino al 1913. E qui la fiaba diventa leggenda.
Per comprendere meglio la vita di Gorki da questo momento in poi, bisogna leggere Il corsivo è mio di Nina Berberova, grande affresco dell’intellighenzia russa negli anni pericolosi che prima disegnarono la Rivoluzione e poi trasformarono la Rivoluzione in una dittatura assassina. Villa Blaesus e poi Villa Behring e poi Villa Pierina, le case di Gorki a Capri diventano meta di intellettuali, politici, semplici ammiratori di diverse classi sociali, sovversivi. “Chi non è stato da Gorki in quegli anni!”, scrive Berberova e racconta della Scuola Politica che lo scrittore russo fonda con Lenin in una di quelle ville di fronte al mare, dove si organizza un futuro più giusto per i popoli, ma ci si sfida anche in interminabili partite a scacchi e a carte. E si discute, si discute, si discute. E non sempre l’Amaro è d’accordo con Lenin, perché è spesso complicato per gli scrittori non asserviti avere a che fare con i grandi strateghi della società e della politica. E quanto più difficili saranno più avanti i rapporti con Stalin. Berberova li racconta astenendosi da un giudizio lapidario, per l’umana simpatia che Gorki le ispirava, più come uomo che come scrittore, dice sinceramente. Perché il meglio, Gorki l’aveva dato proprio con il teatro della giovinezza, quando doveva rendere conto soltanto all’arte e non alla politica. Fra il 1913 e il 1927 aveva appoggiato Lenin a modo suo (chiedendosi esacerbato in base a “quel che aveva visto e vissuto”, racconta Berberova, se “ne valeva la pena”). Sembra fosse stato lo stesso Lenin a suggerirgli di allontanarsi dall’Urss e tornare in Italia, ufficialmente per curare l’inguaribile bronchite che lo perseguitava, in realtà per difenderlo dai sospetti e dalle fazioni a lui contrarie nel partito, forse persino da se stesso.
La scelta stavolta era caduta su Sorrento, per il clima favorevole e perché laggiù lo reclamavano tanti amici italiani. Ma ormai in Italia c’era il fascismo e Gorki si ritrovò sorvegliato a vista dalla polizia mussoliniana da una parte e, una volta morto Lenin, da quella sovietica dall’altra. Poi Stalin lo convinse a tornare a Mosca, nel 1927, coprendolo di onori, dando il suo nome a strade, fabbriche, teatri, università pur di rubargli l’anima. Cechov e Tolstoj erano morti da molti anni e chi meglio di Gorki poteva adesso incarnare la grandezza russa per imporla attraverso la letteratura? Lui un poco se l’era fatta rubare l’anima, ma non abbastanza. Come poteva uno con la sua storia, la sua onestà e generosità farsi asservire perché lo pretende un dittatore? Aveva sempre scritto come “ditta dentro”, non per fare le prediche propagandistiche desiderate da Stalin. Per questo permangono dubbi sulla sua fine.
La stessa Berberova si chiede: “Gorki fu ucciso dai sicari ingaggiati da Stalin o morì di polmonite?”, sicari che sotto forma di medici gli somministravano veleno insieme ai farmaci, soluzione mai dismessa in Russia per eliminare persone sgradite al potere. E però, se non c’è risposta a questo interrogativo, non ancora almeno, la scrittrice giustamente osserva: “È molto più importante sapere che cosa avvenne in lui, quando cominciò a rendersi conto dell’eliminazione ‘pianificata’ della letteratura russa, la fine di tutto quanto aveva amato e rispettato tutta la vita”. Nel 1930 Majakovskij, il poeta della Rivoluzione per antonomasia, si era tolto la vita e Gorki aveva pianto colpendo il tavolo con i pugni arrabbiati. Avrà pensato anche lui, come avrebbe scritto Roman Jakobson una quarantina di anni dopo, di appartenere a Una generazione che ha dissipato i suoi poeti? E avrà creduto a quel suicidio? Un colpo di pistola al cuore per amore, per delusioni politiche… e quella lettera in cui Majakovskij diceva: “Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi…”. Quasi le stesse parole (“Non fate troppi pettegolezzi”) che avrebbe scritto Cesare Pavese, suicida nel 1950, ma con ben altre implicazioni, tutte personali, senza allarmanti ambiguità.
Eppure la letteratura russa è più forte della politica. Gorki sopravvive ai tiranni e all’uomo anche fragile, in parte ricattabile, che è stato, con le pagine che ha scritto, con la grande vitalità del suo teatro. “Debbo vivere per poter essere stimato da me stesso”, dice a un certo punto nell’Albergo dei poveri il personaggio del ladro Pepel che vuole ravvedersi per amore di una donna. Ed è probabile che di fronte all’eliminazione “pianificata” della letteratura russa Maksim l’Amaro continuasse a ripetersi quelle parole, semplici e intramontabili. Perché alla fine cala il sipario mentre qualcuno recita: “Voglio cantare e piangere”, e il pubblico applaude e si commuove. Ancora una volta.