Capitale della cultura e del culto. E per cominciare chiamatela Aquila
Il riconoscimento 2026 a una città di apparizioni e di predicazioni. Dalle pale d’altare del campione della nuova arte sacra alle spoglie dei santi, ecco il miracoloso capoluogo abruzzese
Aquila, tanto per cominciare Aquila. Non L’Aquila. Così come Spezia e non La Spezia. E infatti mica si dice laquilani, laspezzini, si dice aquilani e spezzini. L’articolo con iniziale maiuscola è un fastidio che sa di burocratico ovvero di fascista: ad applicarlo, zavorrando forse per sempre la toponomastica cittadina, fu quel nocivo del Duce. Nel 1939. Natalia Ginzburg, fascista no di sicuro, in “Lessico famigliare” e dunque ancora nel 1963 scrive: “Mia madre infine partì e io andai ad accompagnarla ad Aquila”. Io mi attengo a questa lezione. Ma veniamo al 2026, all’Aquila capitale della cultura. Non mi interessano le motivazioni ufficiali, che di fronte ai secoli sono irrilevanti e transeunti. Multiculturalità, multidisciplinarietà, multitemporalità, multiriproducibilità, multinaturalità: che san Massimo, il primo patrono, la protegga da tanta cacofonia, da tanto relativismo!
Jean Clair ha mostrato il “declino che va dal culto alla cultura e dalla cultura al culturale” e quindi per onorare il capoluogo abruzzese bisogna fare il percorso inverso, passare dal multiculturale al culturale, dal culturale alla cultura e dalla cultura al culto. Bisogna andare in San Giuseppe Artigiano dove si trovano le 18 pale d’altare (più altrettante cimase e due teleri) che costituiscono il più grande ciclo pittorico religioso realizzato in Italia negli ultimi anni. Commissionato dal molto lodevole don Luigi Maria Epicoco a Giovanni Gasparro, “incredibilmente competente” per Roger Scruton, “strabiliante, spaventoso, commovente” per Pupi Avati, insomma il campione della nuova arte sacra.
Bisogna andare da San Bernardino, le cui spoglie sono custodite nell’omonima basilica, capolavoro di Cola dell’Amatrice. Bisogna andare da San Celestino che invece riposa a Collemaggio, altra basilica inarrivabile con davanti quel prato che a Franco Arminio sembra un campo per le partite degli angeli. È proprio un luogo di visioni: qui a Celestino apparve la Madonna. Qui e non a Roma venne incoronato Papa. Qui e non a Roma istituì la prima Porta Santa che ancora si apre ogni agosto in occasione della Perdonanza celestiniana. “E’ questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti”. Altro che multiculturalità: atei e pagani lascino perdere, per loro non è prevista indulgenza. Città di apparizioni e di predicazioni, dai pulpiti aquilani molte volte tuonarono san Giovanni della Marca e san Giovanni da Capestrano, nato nei dintorni. Il primo si scagliava contro gli eretici, il secondo predicava la crociata: entrambi assolutamente monoculturali.
“Una città con 52 chiese, sei conventi di suore e sei di monaci” scrive Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”. Dopo settant’anni, dopo un terremoto terribile e una secolarizzazione non molto meno tremenda, secondo Wikipedia le chiese attive sono addirittura 60, e senza contare le numerose frazioni. Com’è possibile? Se è vero è un miracolo. Se è un miracolo lo hanno fatto i suoi tanti santi (oltre a san Massimo, san Bernardino e san Celestino aleggia il quarto patrono sant’Equizio il cui sepolcro è nella chiesa di Santa Margherita). Se i santi sono così tanti e così efficienti l’Aquila è molto più che capitale della cultura, è capitale del culto.