il ritorno
Tutta la poetica speranzosa dei R.E.M. in una mostra di Michael Stipe
L'ex cantante della storica band, che si è sciolta nel 2011, torna a Milano da fotografo con un'esposizione curata da Alberto Salvadori. Tra ritratti fotografici e teste di gesso tutto parla di un’umanità essenziale
Si chiama “I have lost and I have been lost but for now I’m flying high” / “Ho perso e mi sono perso però, per ora, sto volando alto”. Ma la mostra di Michael Stipe, ex cantante dei R.E.M., avrebbe potuto intitolarsi anche “You’re so alive” / “Sei così vivo” o con qualunque altro verso di “Aftermath” / “Conseguenze”, tra le più sottovalutate perle della band.
Con l’esposizione alla Fondazione Ica, visitabile fino al 16 marzo e curata da Alberto Salvadori, Stipe torna da fotografo, non da frontman dell’indimenticata band che si sciolse nel 2011, dopo 31 anni di musica. Fu un annuncio tutt’altro che strillato – eppure il rumore che fece! –, affidato con grazia a un comunicato: “Un saggio una volta disse che la cosa più importante, quando si va a una festa, è sapere quando andare via – scrisse Stipe –. Abbiamo costruito qualcosa di straordinario, ora è tempo di abbandonarlo”. Non evitò la disperazione ai fan, ma gli appelli a ripensarci caddero tutti nel vuoto.
Stipe, però, c’è ancora. E, per dirla di nuovo con “Aftermath”, la poetica curativa e speranzosa dei R.E.M. è ancora così viva nella sua mostra. Dalla galleria di ritratti fotografici alla sala delle teste di gesso, “fatte a mano e bellissime nella loro imperfezione”, come le ha definite Stipe: tutto parla di un’umanità essenziale. Forse pure ordinaria, “ma non ho paura di sembrare ordinario”, ha detto l’artista, lanciando il suo ennesimo messaggio luminoso: nessuno dovrebbe temere se stesso (o gli altri). Al secondo piano della Fondazione, passeggiando tra le sale, risuona la voce profonda di Stipe che declama “Desiderata”, poesia di Max Ehrmann, scritta quasi cent’anni fa. Un lungo consiglio su come vivere leggeri, che inizia con “va’ serenamente in mezzo al rumore e alla fretta” e finisce con “fa’ di tutto per essere felice”. Come “Desiderata”, la musica dei R.E.M. è un lungo e rassicurante consiglio. Certi testi sono carezze per autostime malandate. Hanno invitato a pensarsi come stelle (“Electrolite”). Hanno esortato a spingere elefanti su per le scale, come a dire: tentate l’impossibile, cercate risposte (“The Great Beyond”). Hanno raccontato che l’uomo può sentirsi fragile e all’angolo, ma comunque ballare e conservare un paio d’ali (il video di “Losing my religion”).
Si potrebbe continuare. Ed è probabile che ogni ascoltatore affezionato ed esperto abbia il suo personale “repertorio della consolazione”, in questa sterminata discografia. Perché i R.E.M. sono stati un giacimento inesauribile di delicatezza, e perfino un salvavita. Come con “Everybody hurts”, nel ‘92. In Nevada, allora dilaniato dalla piaga dei suicidi giovanili, ne fu consigliato l’ascolto ai ragazzi in difficoltà, per quel ritornello lenitivo che normalizzava la sofferenza come fatto universale: “Non lasciarti andare. Tutti piangono. Tutti soffrono”. “Questa canzone ha salvato alcune vite – raccontò Stipe alla rivista musicale Mojo –. Amo sentirmelo dire. E’ il mio Oscar”. Il potere salvifico dei R.E.M. è sopravvissuto alla fine del gruppo. Ancora oggi, YouTube è inondato di testimonianze di chi si è salvato e continua a salvarsi ascoltando R.E.M.. E’ di queste settimane l’uscita di una compilation del cantautore irlandese Conor Furlong, con una riedizione di una sua canzone del 2019, “R.E.M. saved my life tonight”, composta durante un periodo di malattia in cui Stipe e soci furono per lui ispirazione e iniezione di fiducia.
“Aftermath”, intanto, compie vent’anni e sembra scritta ieri per ricordare che le “Conseguenze”, quali che siano, si possono affrontare. C’è un momento in cui il caos si scioglie e lascia spazio alla chiarezza. Nel frattempo, non resta che vivere, innaffiare le piante, fare del proprio meglio e ascoltare una canzone agrodolce che consoli.
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