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La recensione

“Invernale”, il romanzo di Dario Voltolini. Il dolore nella carne, quello vero

Marco Archetti

Un testo breve, compatto e musicale, sul dolore della carne di un padre macellaio e del proprio figlio senza metafore o mondi magici a confortare

Padri, madri, antenati, famiglie. La letteratura italiana contemporanea raramente esce di casa. Pendola tra ricordi e sagrati, si crogiola tra campanili e identità regionali assurte a metafora – semper dolens – di un mondo della memoria spesso lirico-magico, risolvendo nell’elegia la pigrizia del proprio orizzonte. Poi arriva Dario Voltolini con Invernale (La Nave di Teseo, 144 pp., euro 17), un romanzo che potrebbe essere tutto questo e invece non lo è: un testo breve, compatto e musicale, scritto in poche settimane, sul dolore della carne (che sta tra il lobo dell’orecchio e il pomo d’Adamo) di un padre macellaio e di un figlio che non sa nemmeno cosa significhi esserlo, macellaio, salvo occasionalmente dare una mano al bancone.

Carne che va, carne che viene. Carne: qui non c’è mondo magico, non ci sono metafore, ma c’è una malattia che è una malattia; c’è Torino di mattina presto e c’è il mercato di Porta Palazzo nei primi anni Ottanta, un po’ teatro anatomico, un po’ bordello, un po’ sagra. E c’è un uomo che si consuma perché è malato di un linfosarcoma ed è costretto a fare avanti e indietro dalla Francia per curarsi. Torino-Villejuif, Villejuif-Torino, su e giù perché i medici ci capiscano qualcosa, e mentre i medici provano a capire, lui prova a morire, anche se non lo sa e chissà se se ne accorge, e ogni giorno viene meno, gli piaccia o no. Ovviamente non gli piace: comincia tutto con un dito tagliato e guarda come ci si ritrova, a guidare faticosamente a soli cinquant’anni, col traffico improvvisamente imprevedibile e quei tram che ti passano sempre troppo vicino… Non gli piace stare al mondo così, senza più il senso dell’intero e delle traiettorie, come quando giocava a calcio e in un cross già leggeva, già prediceva il goal. Gli piace ancor meno rendersi conto di non essere più quella figura al centro del regno, il macellaio che svetta tra le urla e taglia carni semi marmoree di bestie congelate in quella danza che muove le persone in massa mentre si accavallano e chiedono, esigono, tendono le mani, e lui là, dritto, che taglia, sviscera, separa, affetta e poi involtola, prende soldi e dà resti – lo spartito, il battito di una vita intera. Niente di tutto questo piace né a lui né a tutti coloro che gli sono intorno e registrano quel che accade, in questo romanzo che è registrazione, nel senso migliore, ossia contropatetico, della parola.


“Soprattutto il sabato il mercato è preso d’assalto da una massa di persone. Ci sono folle nelle corsie, non si passa. Di fronte a ogni banco uomini e donne si spingono e parlano forte. Sembrano una versione insurrezionale della Borsa di Wall Street”. Il senso dell’incipit. E poi il senso di tutto il resto, che arriva sempre da dove meno te l’aspetti, non perché ci siano soprassalti nella trama – non ce ne sono – ma perché ci sono soprassalti nello sguardo e nella voce, che si libera in quel capitolo 12, bellissimo, che andrebbe letto ad alta voce perché è musica, jam session del pensiero che rema dentro la memoria, un quasi-canto sincopato che canta il passato per immagini che danzano, e risale dall’oggi al prima, dal prima all’ancora prima, fino al non esserci ancora.


Quella di Invernale non è una storia lineare che Voltolini estorce da sé stesso affidandola al macchinismo capzioso del Progetto Predeterminato, ma una storia che cresce senza essere tallonata da chi la scrive: è una storia che si allarga, va e viene, fa giri larghi e si infila negli angoli, là dove lo sguardo ha sempre portato Voltolini; una storia che, a dispetto di tutto il movimento, alla fine se ne sta tutta conficcata nella carne, nella materia della vita – deperibile, deperibilissima. E se Primaverile era un romanzo irto e verticale, Invernale è fluente e mareggia avanti e indietro. Racconta il freddo notturno che congela, la morte della carne che ci ha generato, la nostra carne, e cerca di cogliere quel Tutto che può – magari mentre l’Italia vince i Mondiali dell’82. Resta qualcosa da dirsi, tra figlio e padre, se il padre muore lontano dal figlio? Sì, e non sta “nella logica di qua, nella metafisica di qua”. Qualcosa come un’attesa. Un cross in cui non vedi il goal, ma poi chissà.
 

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