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Francesco e il suo Maestro nello splendore dell'Umbria del Duecento
La dolorosa eleganza delle Croci in cui Gesù per la prima volta è "patiens". La vivacità di affreschi che fondano la leggenda del Poverello decenni prima di Giotto. Grandi rivoluzioni di arte e fede del Duecento in mostra a Perugia
"Credette Cimabue ne la pintura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido". Ma prima di Giotto, prima ancora di Cimabue, chi teneva il campo dell’arte nel ribollente corpo di un’Italia che stava rinascendo nello splendore del Duecento, secolo enigmatico pieno di passioni e di rivoluzioni? Per scoprirlo conviene andare in Umbria, cuore geografico e spirituale d’Italia e in quegli anni – tutti da riscoprire per capire chi siamo – crocevia di mille creazioni e di un paio o tre di autentiche rivoluzioni. Qui aleggiano ancora le passioni e le commozioni di quel tempo. Soprattutto qui si nasconde un enigma: il mistero di un artista che fu il più grande prima di Cimabue e di Giotto e il cui nome è legato all’altro grande mistero dell’Umbria del Duecento, al nome del Poverello o, come lo si chiamò di lì a poco, dell’Alter Christus. Gli storici dell’arte lo chiamano il Maestro di san Francesco, perché le cronache non hanno tramandato il suo nome. Ma le pareti della basilica inferiore di Assisi, le vetrate splendide di quella superiore che filtrano la luce sui capolavori di Giotto, la tavola di pino su cui dipinse una delle prime immagini di san Francesco – più reliquia che dipinto, secondo la tradizione su quel tavolaccio della Porziuncola il Poverello era morto – e le grandi croci dipinte che ancora stupiscono per la raffinatezza, e ancora accendono la compassione per il “Christus patiens”, sono le opere che parlano senza ombra di dubbio di lui. E di un secolo in cui fu l’Umbria a “tener lo campo”, come spiega con contagiosa passione Andrea De Marchi, professore di Storia dell’arte medievale all’Università di Firenze: l’Umbria del Duecento tra rinascita economica, crocevia di lotte politiche tra chiesa e impero ed esplosione dell’esperienza francescana è davvero il centro d’Italia e questo spiega “perché Perugia per un anno e mezzo, tra il 1251 e il 1252, fu sede della curia papale di Innocenzo IV”, Papa genovese e sostenitore politico degli ordini mendicanti. Cosicché “il mondo cosmopolita della curia deve avere impresso stimoli notevoli. Solo così possiamo spiegare gli apici improvvisi del Maestro di San Francesco”.
Prima di Giotto e Cimabue chi “teneva il campo” dell’arte? Del magnifico Maestro di san Francesco ignoriamo il nome, ma non le opere
Al misterioso pittore è ora dedicata una mostra davvero capace di emozionare e di muovere la conoscenza, come sempre dovrebbero essere, ma non sempre sono, le grandi mostre soprattutto di musei pubblici. Alla Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia nel Palazzo dei Priori, splendida sede per un eccellente museo nazionale, dal 10 marzo al 9 giugno prossimo “L’enigma del Maestro di san Francesco e lo stil novo del Duecento umbro” è una scoperta che vale la pena fare. E non solo perché si tratta del “più grande pittore italiano attivo a metà Duecento, e nel secolo secondo solo a Cimabue”, come spiega Veruska Picchiarelli, curatrice delle collezioni di arte medievale della Gnu e curatrice della mostra insieme ad Andrea De Marchi e Emanuele Zappasodi, docente di Storia dell’arte medievale all’Università per stranieri di Siena. Da Giunta Pisano al Maestro dei crocifissi francescani, dal Maestro di santa Chiara ai preziosi codici miniati, l’offerta è incredibilmente ricca, raffinata e sorretta da un’acribia filologica che fa onore alla nostra accademia. La suggestione del luogo e dell’allestimento, che simula una grande abside, fanno il resto.
Della biografia del Maestro nulla si sa, se fosse umbro o forestiero, se fosse un religioso francescano o un laico. Agli affreschi di Assisi lavorò dal 1260, ma la gigantesca Croce dipinta (alta quasi cinque metri) della chiesa di San Francesco in Prato a Perugia, capolavoro conservato alla Gnu e giustamente cover delle mostra, è l’unica opera che porta una data certa, 1272. Ed è attorno a questa manciata di anni, pochi decenni dopo la morte di Francesco, che il suo sfaccettato talento di impone. Ma nella sua formazione e in quell’enorme Croce c’è innanzitutto un segno, molto più di un indizio, come spiega Emanuele Zappasodi: è quello di Giunta Pisano, a sua volta il più grande artista del Duecento prima del Maestro, viaggiatore sensibile ai più diversi influssi. È lui a ispirare il Maestro, decenni dopo, con le sue Croci dipinte in cui un’arte ancora bizantina si fonde con l’eleganza lineare del gotico nordico, e in cui “con una nuova dolorosa eleganza” fede e arte operano insieme una rivoluzione del sentimento religioso. Ad aprire la mostra sono due sue magnifiche Croci, una conservata al museo della Porziuncola (era alla cappella del Transito dove Francesco morì) e quella conservata al Museo di San Matteo di Pisa. “La calligrafia elegante e l’emotività” segnano un nuovo gusto e una nuova sensibilità. Per la prima volta non è più un Gesù con gli occhi aperti, a significare la vittoria già avvenuta sulla morte, come quello che parlò a Francesco in San Damiano.
Per la prima volta, chiara influenza delle chiese orientali che i poverelli di Francesco avevano incontrato e conosciuto, appare il “Christus Patiens”, il Gesù doloroso con gli occhi chiusi nello spasimo della morte. Un’evoluzione che la mostra cesella tavola per tavola. “Non c’erano a Perugia e in Umbria le premesse per un linguaggio così formalmente elaborato”, scrive De Marchi del Maestro, e dunque si può solo ipotizzare qualche suo viaggio formativo, e intravvedere che dietro di lui “giganteggia chiaramente il magistero di Giunta Pisano, artista itinerante” che aveva lavorato in Umbria, prima di essere a Roma, a Bologna. Il grande critico Roberto Longhi, settant’anni fa, si batté strenuamente per la damnatio del Duecento, che proprio non gli piaceva. È rimasta nella memoria la sua stroncatura dell’ultima delle Croci di Giunta Pisano, conservata a Bologna: “Squalo immane e untuoso inchiodato sull’ultimo strattone… La famosa curvatura del corpo è di una così fredda ferocia grafica da non trapassare oltre la convenzionalità ossessiva di una S gigante, sia pure la S di squalo”. Una stroncatura immaginifica e feroce che forse ne ha fatto la futura fortuna, per noi postmoderni che alla parola squalo pensiamo a quello in formaldeide di Damien Hirst, ma soprattutto per una generazione di studiosi come De Marchi per i quali quell’opera è invece “apice assoluto di tutta la pittura italiana del Duecento”. La rivoluzione era iniziata.
L’Umbria è l’epicentro dei grandi cambiamenti sociali e religiosi. Il Papa è a Perugia, “il mondo cosmopolita della curia ha impresso stimoli notevoli”
“Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro / dietro a lo sposo, sì la sposa piace”. Un ritmo incalzante come una danza, a Dante bastano due versi per raccontare l’urgenza di un’altra rivoluzione, la più profonda. Come per il Maestro che ha ricevuto il suo nome non ci sono, né ci possono essere, nell’Umbria del Duecento indizi premonitori, antecedenti che possano spiegare quella rapidissima e travolgente esplosione di santità che cambiò la storia, non solo religiosa. Certo, c’erano i movimenti pauperisti, le sette ereticali, c’era quella chiesa chiusa nei monasteri e nei palazzi di potere di cui la gente non sapeva più che farsene. Quel popolo operoso, mercanti e tessitori, che produceva ricchezza e libertà e nuovi stili di vita ma lasciava per le strade anche una tremenda scia di poveri come non s’era mai vista nel passato. La rivoluzione economica del XIII secolo. Ma cosa accadde di misteriosamente diverso perché quel giovane ricco ribaltasse tutto, si spogliasse davanti a suo padre e al vescovo e si facesse correre dietro da migliaia di coetanei e coetanee? Qualcosa di irripetibile era accaduto. Francesco era morto nel 1226, la basilica espressamente voluta dal Papa per conservarne il corpo e per essere luogo ufficiale del culto era già edificata nel 1228: uno sforzo ciclopico che spiega da solo come fosse urgente incanalare nell’ortodossia quella pulsante rivoluzione religiosa. Serviva anche il contributo dell’arte, la costruzione di una iconografia ufficiale.
Per capire cosa sia avvenuto bisogna spostarsi dal Palazzo dei Priori (chi può lo faccia, suggerimento) e andare dove tutto, anche per l’arte, è cominciato. Ad Assisi, nella chiesa inferiore. È lì che il Maestro di san Francesco compie la sua opera. E’ lì che l’impetuoso fiume dei poveri di Francesco troverà l’alveo in cui verrà incanalato. In quegli anni Assisi e l’Umbria sono il centro di mille venti nuovi e impetuosi. Il Papa sa che rischia di esplodere tutto in uno scisma, o una rivoluzione eretica. Bisogna tenere Francesco dentro la Chiesa: dalla quale, a differenza di altri, il Poverello non si era mai allontanato. È l’opera della vita di Bonaventura da Bagnoregio, il più importante teologo francescano, ministro generale dell’ordine e grande sistematore della biografia ufficiale di Francesco. Quella che ne forgerà interpretazione e iconografia per il futuro. Opera necessaria, e bene lo sa Papa Innocenzo che già nel 1253 decide di tagliar corto con le rimostranze dei fraticelli che non volevano abbandonare la povertà. La basilica dovrà essere un meraviglioso libro d’arte per i fedeli, ci dovranno lavorare e senza risparmi i più grandi artisti. Così firmò un bolla, Decet et expedit, nella quale in pratica stabiliva che, essendo le basiliche del Papa, potranno essere “completate con un apparato decoroso” senza con ciò infrangere il voto di povertà di frati.
Nei primi ritratti (la tavola di Giunta Pisano del 1230, quella del Maestro vent’anni dopo) il Poverello è ancora un santo taumaturgo, rappresentato assieme ai suoi miracoli post mortem, come mille nel Medioevo. Dal nord dell’Europa alla Terra Santa la sua imitazione potrebbe scardinare una chiesa invecchiata, bisogna impedirlo. Nella basilica inferiore, quattro decenni prima di Giotto, il Maestro di san Francesco dipingerà la versione per immagini di quell’enorme progetto teologico.
Oggi, per chi entra nella chiesa inferiore di Assisi, per i pellegrini e i turisti che corrono verso Cimabue o Lorenzetti per poi salire ad ammirare Giotto, è difficile cogliere il senso di quella splendida arte attraverso ciò che ne resta. Uno straordinario merito della mostra è avere ricostruito, con sobrietà, una visione virtuale di come era stata invece concepita e dipinta. In cinque scene, a destra, al Maestro era stato chiesto di raccontare la Passione di Cristo, a partire dal suo volontario spogliarsi e salire sulla croce (una licenza poetica, ma quanto mai significativa). Sulla parete sinistra, in altre cinque scene, ecco Francesco che si spoglia delle sue ricche vesti, che predica agli uccelli cinquant’anni prima di Giotto, che riceve le Stimmate: “La passio di Cristo e la compassio di Francesco” (Zappasodi) diventano un’unica profezia. È l’Alter Christus, il Cristo reincarnato per fare risorgere la fede della Chiesa: non fuori, ma dentro la Chiesa. A quel tempo il misterioso Maestro era già un artista affermato. Mette la sua bravura al servizio di Bonaventura compiendo un passo oltre lo stile antico, inventa una pittura di racconto che ancora non s’era mai vista, viva ed emotiva. E la incastona in una magnificenza decorativa di costoloni, di greche che fanno della basilica inferiore quel che doveva programmaticamente essere: lo scrigno prezioso che conserva (ancora oggi) il corpo di Francesco. Verranno Cimabue, verrà Giotto; gli affreschi del Maestro saranno in gran parte distrutti per esigenze logistiche (ma il fatto che molte parti siano state conservate, spiega De Marchi, ci dice che anche allora erano tenute in gran conto e quasi reliquie o testimonianze vicine alla verità storica dei fatti). Verrà lo splendido, e meno passionale, Trecento.
Per incanalare l’onda francescana serviva creare la teologia dell’Alter Christus. Ad Assisi il Maestro gli donò immagine e nuova emozione
Ma nelle sale della mostra di Perugia, tra Croci (e anche magnifici manoscritti) raccolti con sapiente lavoro di cernita e di prestiti dal Louvre alla National Gallery di Londra, dal Metropolitan di New York alla National Gallery di Washington, il pezzo forte che fa copertina è la colossale Croce dipinta di San Francesco al Prato. Non potrebbe però esserci quella commossa potenza, né quella delle due Croci del Maestro che vengono dal Louvre e dalla National Gallery di Londra, con quella Madonna che sta per venir meno ed è sorretta per le spalle dalla Maddalena, capolavori di emozione e raffinatezza d’ornati, se non ci fosse stato prima Giunta Pisano. Se non fosse esistito quel potente ed evidente, e per noi in gran parte sconosciuto, crogiolo di persone, idee, influssi che fu l’Umbria del Duecento. La mostra rientra nelle celebrazioni per gli ottocento anni “diffusi” di Francesco: 1223 il presepe di Greccio, 1224 le Stimmate, 1225 il Cantico delle creature e 1226 la morte. Un percorso francescano che coinvolge l’intera regione e il sistema delle arti, ma non solo. C’è un fascino che si irradia da Francesco e che allo stesso tempo lo trascende. Siamo abituati a pensare al Trecento di Firenze come al momento della rinascita d’Italia. L’Umbria del Duecento non è da meno in splendore, influssi, trasformazioni.
Giunta Pisano, il Maestro dei crocifissi francescani e il Maestro di santa Chiara, le miniature. Un caleidoscopio raffinato e godibilissimo