il segno dei tempi
La correttezza politica sta paralizzando i musei in un'uniformità soffocante
In nome di una diversità astrattamente revisionista i direttori finiscono per organizzare esposizioni ecumeniche e soprattutto noiose. Proprio come è successo a New York con la “Harlem Renaissance and the Transatlantic Modernism”
Arrivato nel 1967, alla giovane età di 35 anni, alla direzione del Metropolitan Museum, Thomas Hoving, considerato un visionario in tempi non sospetti di cancel culture, ebbe l’idea – geniale in teoria, malsana nei fatti – di andare a cercare visitatori fuori dai quartieri borghesi di Manhattan. Per raggiungere questo obiettivo scelse di andare a pescare nuovi visitatori ad Harlem ideando una mostra dal titolo “Harlem on My Mind, Cultural Capital of Black America 1900-1968”. L’idea, sulla carta geniale, si rivelò un terribile autogol con picchetti di artisti neri che protestavano davanti al museo, quando aprì nel 1969.
Le rimostranze riguardavano il fatto che Hoving e i suoi curatori avevano realizzato una mostra, come diceva il titolo, on my mind, nelle loro teste senza pensare o chiedere cosa avessero nelle loro teste gli artisti e gli intellettuali neri del tempo. Il risultato fu una mostra folcloristica fatta principalmente di foto e senza arte, ignorando che la comunità artistica di Harlem era vivacissima e ricchissima di fenomenali talenti artistici. Hoving si comportò come un tirolese che avesse voluto fare una mostra sulla cultura napoletana o un napoletano che si fosse messo in testa di fare una mostra sulla cultura svedese. Si può immaginare il festival di stereotipi offensivi e banali che ne potrebbe venir fuori. Il Metropolitan fu accusato proprio di questo e Hoving quasi rischiò il posto. Oggi lo avrebbe perso di sicuro. Così, più di mezzo secolo dopo, l’attuale direttore Max Hollein, austriaco nato proprio nel 1969, ha incaricato la curatrice Denise Murrell di immaginare una mostra che rendesse giustizia agli artisti di quello che viene chiamato il Rinascimento di Harlem. E’ venuta fuori “Harlem Renaissance and the Transatlantic Modernism”. Una mostra bella, ecumenica e noiosa. Noiosa perché principalmente basata sulla pittura, afroamericana, con qualche inserimento tipo Matisse per far capire che il dialogo e lo scambio costante e ricco con l’Europa c’era e che i pittori neri non erano intimiditi da quelli europei. Sicuramente non lo erano ma altrettanto sicuramente, come in ogni parte del mondo, gli artisti veramente bravi erano e sono pochi.
Voler dimostrare che Harlem era pieno di pittori è il punto debolissimo di questa mostra, perché la quantità svela logicamente la difficoltà di mantenere alta la qualità. Se ingenuamente – ma correttamente – la mostra del 1969 parlava di capitale culturale, questa mostra si concentra troppo e solamente sull’idea di Harlem capitale della pittura, indebolendo la forza e la profondità del tema che meriterebbe una dinamicità più alta e forte. Il direttore del Met, quasi tirolese, ha fatto l’unica cosa che poteva fare: qualsiasi altra mostra avesse suggerito, lo avrebbero preso a bastonate. Il polpottismo della correttezza politica sta paralizzando il mondo dei musei, i loro programmi che in nome di una diversità astrattamente revisionista si sono appiattiti su un’uniformità soffocante. Se nel 1969 il Met aveva peccato di paternalismo razziale creando una mostra al limite del folclore etnico e antropologico ed escludendo la produzione artistica in toto, nel 2024 il Met commette l’errore di voler dimostrare a tutti i costi una cosa che pochi osano mettere in dubbio. Ovvero che sia ad Harlem che a Montparnasse fra l’inizio del Novecento e il Dopoguerra si produceva arte e cultura di altissima qualità. Ma dire che a Napoli tutti sanno fare la pizza non vuol dire che tutte le pizze siano buone. Così come dire che a Parigi tutti i bistro fanno la bistecca con le patate fritte non significa che tutte le bistecche e patate siano mangiabili. I due grandi direttori, a distanza di mezzo secolo, hanno alla fine lo stesso problema: la loro coraggiosa visione è stata fraintesa da quello che Giuseppe Saragat definiva “opposti estremismi”, dove se dici che Parigi è l’Harlem d’Europa ti accusano di volerti appropriare di una cultura che non ti appartiene ma se dici che Harlem è la Parigi americana il meglio che ti può capitare è di essere accusato di neocolonialismo. Dal Rinascimento al Rincoglionimento il passo può diventare breve.