La recensione
Le memorie di un poco pazzo Gogol
Tornano per Adelphi le "Memorie" dello scrittore russo che secondo Marina Cvetaeva non aveva perso la ragione. Non l'aveva mai nemmeno cercata
«Abituati come siamo a considerare, malgrado tutto, l’ambito della scrittura come un dominio superiore, più riparato, la comparsa della follia ci riempie di sgomento» – appuntava Walter Benjamin sul margine dell’autobiografia allucinatoria di Daniel Paul Schreber. Un nome che – osserveranno tosto i superciliosi – compare dopo quelli di Dostoevskij, Gogol’, Dante e Swift in un elenco che Pasolini stilò durante la stesura di “Petrolio”. A ben vedere non casualmente, dal momento che si tratta d’autori ritenuti affetti (è il caso di Dostoevskij, ma pure di Dante, almeno a seguire l’avviso di certi critici amatoriali, apprezzati pour cause da Lombroso, come Maxime Durand-Fardel) da epilessia – patologia che, nel secolo XIX, servì da scambiatore fra ciò che gli alienisti cercavano in ogni delirio e ciò che gli psichiatri ravvisavano nella dislocazione del controllo volontario del comportamento – oppure da “insania simplex”: vaga taccia, più che esito diagnostico, comminata a quanti tentavano la “prova della sragione”. D’altro canto, è lecito sospettare che sia Swift che Gogol’ cercarono in ogni modo d’impazzire, tanto studiato appare il loro desiderio di provocare una lacerazione senza rimedio in una Ragione dal cui assolutistico esercizio era bandita ogni folie savante. Nondimeno, i modi ch’essi adottarono per portare a sconclusione l’ordine razionale non furono consimili. Se rispetto a Swift la leggenda che lo vuole morto pazzo nel manicomio da lui stesso fondato sembra più l’ultima sua arguzia sul mondo come gabbia di matti anziché, come sosteneva Samuel Johnson, l’epilogo di un «triste spettacolo di demenza», Gogol’, caduto sotto i vigorosi salassi prescritti da una coppia diabolicamente energica di medici che insistevano a trattarlo come un folle qualunque, avrebbe testimoniato, con la sua coerente fermezza di nevropatico, non già d’aver perso la ragione, ma di non averla mai nemmeno cercata.
Questa un po’ arrischiata opinione di Marina Cvetaeva parrebbe essere invero suffragata da alcuni dati biografici. Nel febbraio 1852, travolto da un irrefrenabile cupio dissolvi, Gogol’, bruciata la seconda parte delle Anime morte, si pone a digiunare fino a morire d’inedia: «Alla fine della prima settimana di digiuno» – riferisce il dr. Tarasenkov (la cui testimonianza si legge nel recente volume curato, per Quodlibet, da Giovanni Maccari, Nikolaj Gogol’ nei ricordi di chi l'ha conosciuto) – «non c’era traccia di febbre né di alcuna particolare patologia, a parte il progressivo esaurimento delle forze. Solo tre giorni prima di spirare il paziente si allettò e anche allora non si osservavano affezioni distinte a nessun organo». Gogol’si limitò a morire. Ma affinché questa sua risolutezza possa sottrarsi alle elucubrazioni d’una lettura psicanalitica che la vorrebbe ricondurre all’acme d’una nevrosi da tempo incamminata ad aggravarsi, occorrerebbe comprendere questa «autogiustizia sommaria» come l’esito della decisione dell’autore di introdursi nell’orizzonte dei propri personaggi con “attenzione e perfezione”: il secondo termine inverando il primo il quale, a sua volta, attesta la qualità di una percezione soddisfatta e saturata dalla perfezione. «Immersi in una luce crepuscolare, lividi o torvi, amorfi talvolta o difformi» (così Tommaso Landolfi, introducendo, nel 1941, i “Racconti di Pietroburgo”), i suoi činovniki, i suoi “piccoli uomini” non sembrano a Gogol’ affatto paradossali. Anzi, lo strano universo ch’essi abitano e la vita miserabile che conducono esercitano su di lui un fascino sinistro. Altrimenti – si chiedeva Lev Šestov – perché si sarebbe data tanta pena per i sentimenti assurdi e patetici di Popriščin, il protagonista delle “Memorie di un pazzo” (appena edite da Adelphi, nella nuova, spigliata traduzione di Serena Vitale, la quale aggiorna, del racconto del 1835, pure il titolo – “Il giornale di un pazzo” o anche “Il diario di un pazzo” – con cui era fino ad oggi conosciuto, col calco d’un breve romanzo di Flaubert, scritto nel 1838, ma pubblicato solo nel 1900, “Mémoires d'un fou”)?
Pur da tempo sostenendosi che sia con Dostoevskij che la letteratura russa giunge a concepire il personaggio non come l’oggetto di una conoscenza esteriore compiutamente definitoria, ma come qualcosa che il personaggio medesimo può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, non parrebbe del tutto peregrino ritenere Gogol’ il primo precursore d’una tale poetica, a condizione però che lo si consideri alla stregua d’una delle ombre da lui stesso immaginate, e nelle quali egli si trasfigura e identifica per mezzo della scrittura. È così nel “Cappotto”, dove il processo di vestizione in cui indulge il protagonista è in realtà la graduale reversione alla nudità del suo fantasma, a dar tenore al quale è unicamente una pura forma discorsiva; ed è così già nelle “Memorie di un pazzo”, in cui, tuttavia, le parole non hanno alcun peso, permanendo esse in continua metamorfosi, in una filatessa di ciarle che hanno suono, velocità, ritmo del tutto aerini: un brulicare d’uggiolii, uno stridio, il latrato del perituro, del perento, del perduto: «la testa mi brucia e tutto mi gira davanti. Salvatemi! Portatemi via! Datemi una trojka di cavalli veloci come il vento! Prendi posto, cocchiere, suona, mio sonaglio, fendete l’aria, cavalli, e portatemi via da questo mondo! Lontano, più lontano, dove non si veda più nulla, nulla».