Pol corr
Follie woke sulla "Turandot" in scena al Met di New York
L'opera di Puccini “rigurgita di contraddizioni, di distorsioni e di stereotipi razziali”, dice il teatro in una nota. L’avvertenza a un pubblico evidentemente emotivo e ipersensibile
Possiamo educatamente, civilmente, elegantemente dire che ci siamo rotti le scatole, anzi no, forse è volgare, che ne abbiamo piene le bisacce, come Falstaff? Il pol. (Pot) corr. sta rovinandoci la vita, e vabbè, possiamo anche sopportarlo, ma soprattutto sta distruggendo l’opera lirica, e questo è intollerabile. L’ultima di una fin troppo lunga serie di follie woke arriva, manco a dirlo, dalla Metropolitan Opera di New York. Lì continuano imperterriti a replicare la Turandot griffata Zeffirelli, probabilmente la produzione più affollata della storia del melodramma, quella che, quando il sipario si alza sul secondo atto, un incrocio fra un ristorante cinese di taglia XXL e la metropolitana di Pechino, fa scattare immancabilmente l’applauso dei seguaci dell’estetica del più ce n’è e meglio è, macché minimalismo e sobrietà e l’ornamento è delitto: l’ornamento è diletto. Senonché quest’anno il Met, all’ennesima ripresa, ha pensato bene di pubblicare sul suo sito una nota dove Christopher Browner, “redattore aggiunto” (boh) del teatro, spiega che Turandot, non questa di Zeffirelli ma in generale quella di Puccini, “rigurgita di contraddizioni, di distorsioni e di stereotipi razziali”. In effetti, si svolge in Cina, anzi nella China (così, come quella Martini) ed è quindi piena di cinesi vestiti da cinesi che fanno i cinesi e parlano come cinesi, anzi come degli europei degli anni Venti pensavano che parlassero e si comportassero i cinesi delle favole. Gli anni Venti del Novecento sono passati da un po’, ma la distanza, evidentemente, non è ancora stata metabolizzata. Infatti, delira Browner, non è sorprendente che “numerosi spettatori di origine cinese siano a disagio a vedere il loro ‘heritage’ che viene cooptato, reso feticistico o dipinto come selvaggio, assetato di sangue o arretrato”.
È andata anche bene. L’Opera di Toronto aveva già censurato i personaggi di Ping, Pang e Pong ribattezzandoli Jim, Bob e Bill per non offendere gli spettatori cinesi o simpatizzanti: personalmente, vorrei da una vita che fossero chiamati Qui, Quo e Qua (in fin dei conti, il Puccio e Walt Disney sono i due maggiori geni della prima metà del secolo), ma forse si offenderebbero i paperi. Almeno a New York le maschere le hanno lasciate, e con i loro nomi. Ma con il ditino alzato dell’avvertenza a un pubblico evidentemente emotivo e ipersensibile come la primadonna di un melodramma larmoyant del Settecento, di quelle che svenivano se una porta sbatteva troppo forte. Il problema è che la spirale del moralismo è potenzialmente senza fine, tocca rincararne ogni volta la dose, finché puntualmente gli epuratori finiscono epurati. Immaginiamo già il seguito: per Attila, scuse preventive agli unni (anche se poi nell’opera la figura peggiore la fanno i romani); per Rigoletto, ai gobbi, anzi no, ai verticalmente svantaggiati; per Traviata, alle diversamente vergini. Ovviamente, in Madama Butterfly, benché pesante denuncia dell’imperialismo sessuale dell’uomo bianco, niente zio Bonzo, quello che noialtri habitué ribattezziamo affettuosamente lo zio stronzo, e guai con i titoli esotici tipo Lakmé, Le roi de Lahore, Les pêcheurs de perles e simili, puro colonialismo musicale. E poi: per Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Carmen si offenderanno mica i sivigliani (e pensare che ci hanno fatto un sacco di soldi, con il turismo operistico), per Lucia di Lammermoor gli scozzesi, per Norma i druidi? E con Wagner, come la mettiamo? L’immaginazione vacilla. La soluzione migliore è fare come Turandot: chiamare il boia, e giù teste. Tanto sono vuote, e rimbalzano.